domenica 25 marzo 2012

Annunciazione del Signore (s) - In Annuntiatione Beatæ Maríæ Vírginis (26 marzo 2012)

 
 
25 MARZO



La stupenda pagina evangelica dell’annuncio dell’angelo a Maria che sarebbe diventata la Madre del Salvatore, trovò fin dal sec. II una precisa espressione nelle formule del Credo e nell’arte cristiana. Solo nel sec. VII in poi il mistero dell’Annunciazione fu celebrato con particolare solennità il 25 marzo, nove mesi prima della nascita del Signore, e giorno in cui – secondo la tradizione di antichi martirologi e di alcuni calendari medievali – sarebbe avvenuta la crocifissione di Gesù.

Dio non è entrato nel mondo con la forza: ha voluto «proporsi». Il «si» di Maria è la definitiva realizzazione dell’alleanza: in lei è presente tutto il popolo della promessa: l’antico (Israele) e il nuovo (la Chiesa); «il Signore è con lei», cioè Dio è il nostro Dio e noi siamo per sempre il suo popolo.

Le letture di questa solennità del Signore ci orientano verso il mistero della Pasqua. Il primo, l’unico «si» del Figlio che facendo il suo ingresso nel mondo ha detto: «Ecco, io vengo per fare la tua volontà» (Sal 39,8-9; Eb 10,4-10), riceve la risposta del Padre, il quale, dopo l’offerta dolorosa della passione, sigillerà nello Spirito, con la risurrezione di Gesù, la salvezza per tutti nella Chiesa. Anche le orazioni e il prefazio sottolineano il mistero dell’Annunciazione come compimento della promessa e invitano a riviverlo «nella fede».

L’Incarnazione è anche il mistero della collaborazione responsabile di Maria alla salvezza ricevuta in dono. Ci svela che Dio per salvarci ha scelto il «metodo» di passare attraverso, la creatura: «…e il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi… e noi vedemmo la sua gloria». (Gv 1,14).

Ripetendoci ad ogni messa: «Fate questo in memoria di me», il Signore ci insegna a «dare» anche noi il nostro corpo e il nostro sangue e il nostro sangue ai fratelli. Solo così rendiamo credibile la salvezza di Dio, incarnandola nei piccoli «si» che ogni giorno ripetiamo sull’esempio di Maria. (CC Salesiano).




Il mistero della nostra riconciliazione

Dalle «Lettere» di san Leone Magno, papa
(Lett. 28 a Flaviano, 3-4; Pl. 54,763-767)

Dalla Maestà divina fu assunta l'umiltà della nostra natura, dalla forza la debolezza, da colui che è eterno, la nostra mortalità; e per pagare il debito, che gravava sulla nostra condizione, la natura impassibile fu unita alla nostra natura passibile. Tutto questo avvenne perché, come era conveniente perla nostra salvezza, il solo e unico mediatore tra Dio e gli uomini, l'uomo Cristo Gesù, immune dalla morte per un verso, fosse, per l'altro, ad essa soggetto.

Vera, integra e perfetta fu la natura nella quale è nato Dio, ma nel medesimo tempo vera e perfetta la natura divina nella quale rimane immutabilmente. In lui c'è tutto della sua divinità e tutto della nostra umanità.

Per nostra natura intendiamo quella creata da Dio al principio e assunta, per essere redenta, dal Verbo. Nessuna traccia invece vi fu nel Salvatore di quelle malvagità che il seduttore portò nel mondo e che furono accolte dall'uomo sedotto. Volle addossarsi certo la nostra debolezza, ma non essere partecipe delle nostre colpe.

Assunse la condizione di schiavo, ma senza la contaminazione del peccato. Sublimò l'umanità, ma non sminuì la divinità. Il suo annientamento rese visibile l'invisibile e mortale il creatore e il signore di tutte le cose. Ma il suo fu piuttosto un abbassarsi misericordioso verso la nostra miseria, che una perdita della sua potestà e del suo dominio. Fu creatore dell'uomo nella condizione divina e uomo nella condizione di schiavo. Questo fu l'unico e medesimo Salvatore.

Il Figlio di Dio fa dunque il suo ingresso in mezzo alle miserie di questo mondo, scendendo dal suo trono celeste, senza lasciare la gloria del Padre. Entra in una condizione nuova, nasce in un modo nuovo. Entra in una condizione nuova: infatti invisibile in se stesso si rende visibile nella nostra natura; infinito, si lascia circoscrivere; esistente prima di tutti i tempi, comincia a vivere nel tempo; padrone e signore dell'universo, nasconde la sua infinita maestà, prende la forma di servo; impassibile e immortale, in quanto Dio, non sdegna di farsi uomo passibile e soggetto alle leggi della morte.

Colui infatti che è vero Dio, è anche vero uomo. Non vi è nulla di fittizio in questa unità, perché sussistono e l'umiltà della natura umana, e la sublimità della natura divina.

Dio non subisce mutazione per la sua misericordia, così l'uomo non viene alterato per la dignità ricevuta. Ognuna delle nature opera in comunione con l'altra tutto ciò che le è proprio. Il Verbo opera ciò che spetta al Verbo, e l'umanità esegue ciò che è proprio della umanità. La prima di queste nature risplende per i miracoli che compie, l'altra soggiace agli oltraggi che subisce. E, come il Verbo non rinunzia a quella gloria che possiede in tutto uguale al Padre, così l'umanità non abbandona la natura propria della specie.

Non ci stancheremo di ripeterlo: L'unico e il medesimo è veramente Figlio di Dio e veramente figlio dell'uomo. È Dio, perché «In principio era il Verbo e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio» (Gv 1,1). È uomo, perché: «il Verbo si fece carnee venne ad abitare in mezzo a noi » (Gv 1,14).