venerdì 30 aprile 2010

V DOMENICA DI PASQUA - DOMINÌCA QUARTA POST PASCHA 2 Maggio 2010


MISSALE ROMANUM
Domenica, 2 Maggio 2010



VANGELO
Dal Vangelo secondo Giovanni Gv 10, 27-30

In quel tempo, Gesù disse: «Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono.
Io do loro la vita eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano.
Il Padre mio, che me le ha date, è più grande di tutti e nessuno può strapparle dalla mano del Padre. Io e il Padre siamo una cosa sola».


EVANGÉLIUM
Sequéntia S. Evangélii secundum Ioánnem, 16, 16-22

In illo témpore: Dixit Iesus discípulis suis: Módicum, et iam non vidébitis me: et íterum módicum, et vidébitis me: quia vado ad Patrem. Dixérunt ergo ex discípulis eius ad ínvicem: Quid est hoc, quod dicit nobis: Módicum, et non vidébitis me: et íterum módicum, et vidébitis me: et quia vado ad Patrem? Dicébant ergo, quid est hoc, quod dicit: Módicum? nescímus quid lóquitur. Cognóvit autem Iesus, quia volébant eum interrogáre, et dixit eis: De hoc quæritis inter vos, quia dixi: Módicum, et non vidébitis me: et íterum módicum, et vidébitis me. Amen, amen, dico vobis: quia plorábitis, et flébitis vos, mundus autem gaudébit: vos autem contristabímini, sed tristítia vestra vertétur in gáudium. Múlier cum parit, tristítiam habet, quia venit hora eius: cum autem pepérerit púerum, iam non méminit pressúræ propter gáudium, quia natus est homo in mundum. Et vos ígitur nunc quidem tristítiam habétis, íterum autem vidébo vos, et gaudébit cor vestrum: et gáudium vestrum nemo tollet a vobis.

In quel tempo: Gesù disse ai suoi discepoli: Ancora un poco e non mi vedrete; un pò ancora e mi vedrete". Dissero allora alcuni dei suoi discepoli tra loro: "Che cos'è questo che ci dice: Ancora un poco e non mi vedrete, e un pò ancora e mi vedrete, e questo: Perché vado al Padre?". Dicevano perciò: "Che cos'è mai questo "un poco" di cui parla? Non comprendiamo quello che vuol dire". Gesù capì che volevano interrogarlo e disse loro: "Andate indagando tra voi perché ho detto: Ancora un poco e non mi vedrete e un pò ancora e mi vedrete? In verità, in verità vi dico: voi piangerete e vi rattristerete, ma il mondo si rallegrerà. Voi sarete afflitti, ma la vostra afflizione si cambierà in gioia. La donna, quando partorisce, è afflitta, perché è giunta la sua ora; ma quando ha dato alla luce il bambino, non si ricorda più dell'afflizione per la gioia che è venuto al mondo un uomo. Così anche voi, ora, siete nella tristezza; ma vi vedrò di nuovo e il vostro cuore si rallegrerà e nessuno vi potrà togliere la vostra gioia.

giovedì 29 aprile 2010

TRADITIONAL LATIN MASS - Texts & Video Tutorials


EX DECRETO SS. CONCILII TRIDENTINI
RESTITUTUM
AUCTORITATE S. PII Pp. V PROMULGATUM
B. JOANNIS Pp. XXIII CURA RECOGNITUM




mercoledì 28 aprile 2010

La nueva edición del Misal Romano, aprobada por la CEE, pasará ahora a Roma en busca de su visto bueno definitivo

La nueva edición del Misal Romano,
aprobada por la CEE, pasará ahora a Roma
en busca de su visto bueno definitivo

Fonte: Sector Católico 28/04/10

Que nadie espere ninguna sopresa. La Conferencia Episcopal ha aprobado ya la nueva edición del Misal Romano, en su tercera edición típica, que ahora tendrá que ser refrendada por la Congregación para el Culto Divino y la Disciplina de los Sacramentos que preside el cardenal español Antonio Cañizares. Según las últimas informaciones, el obispo de León y presidente de la Comisión Episcopal de Liturgia, monseñor Julián López Martín, ha conseguido imponer sus tesis modernistas al resto, con la inestimable colaboración del impresentable de su secretario general, el padre salesiano Juan María Canals. ¿Se acuerdan? Aquel mismo que publicó un lamentable texto de repulsa contra el Motu Propio Summorum Pontificum, que permaneció más de dos años colgado en la página web oficial de los obispos españoles.

Por tanto, parece ser que el nuevo Misal seguirá en la misma línea que sus precedentes. De tal forma que se evitará referirse a la Santa Misa como sacrificio, y donde los disparates y los nuevos prefacios y liturgias eucarísticas inventadas seguirán campando a sus anchas entre sus páginas. Algunos dudan, incluso que se incluya la modificación del "pro multis", extremo que ha sido negado a este medio por monseñor López Martín. Por cierto, ¿qué pensará de todo esto la AEPL?

Desde luego, lo que sí está claro es que los católicos españoles tendremos que seguir soportando las chorradas y las pésimas traducciones a la hora de asistir a la celebración de los sacramentos, cuyo parecido con el original en latín, promulgado por la Santa Sede es ya, una mera coincidencia. También es evidente que, con su actitud, la CEE se retrata. De ahí, que una vez más, este medio exija su completa supresión y sus funciones pasen a depender nuevamente de Roma, debido a la incapacidad de nuestros obispos de guiar correctamente a los que estamos bajo su cuidado pastoral. "¡Cuidado!" es lo que deberíamos gritar más de uno y más de dos...

¿Habrá cabida también en el nuevo Misal para la celebración de la Misa con rosquillas? Porque a tenor de lo que sigue sucediendo en Madrid, donde manda el "todopoderoso" cardenal Rouco esta práctica parece que se va imponiendo, y de seguir así, podrían aparacer nuevas "parroquias- pastelería", donde además de rosquillas todos pudiéramos compartir apetitosas enseimadas, croissants, o todo tipo de rica bollería en el banquete de unión y comunión fraterno. A decir verdad, y por su actuación, al cardenal esto le debe parecer estupendo. Él sabrá...


CATECHESI DEL SANTO PADRE ALL'UDIENZA GENERALE - 28 aprile 2010


BENEDETTO XVI
UDIENZA GENERALE

Piazza San Pietro
Mercoledì, 28 aprile 2010


San Leonardo Murialdo e San Giuseppe Benedetto CottolengoCari fratelli e sorelle,

ci stiamo avviando verso la conclusione dell’Anno Sacerdotale e, in questo ultimo mercoledì di aprile, vorrei parlare di due santi Sacerdoti esemplari nella loro donazione a Dio e nella testimonianza di carità, vissuta nella Chiesa e per la Chiesa, verso i fratelli più bisognosi: san Leonardo Murialdo e san Giuseppe Benedetto Cottolengo. Del primo ricordiamo i 110 anni dalla morte e i 40 anni dalla canonizzazione; del secondo sono iniziate le celebrazioni per il 2° centenario di Ordinazione sacerdotale.

Il Murialdo nacque a Torino il 26 ottobre 1828: è la Torino di san Giovanni Bosco, dello stesso san Giuseppe Cottolengo, terra fecondata da tanti esempi di santità di fedeli laici e di sacerdoti. Leonardo è l’ottavo figlio di una famiglia semplice. Da bambino, insieme con il fratello, entrò nel collegio dei Padri Scolopi di Savona per il corso elementare, le scuole medie e il corso superiore; vi trovò educatori preparati, in un clima di religiosità fondato su una seria catechesi, con pratiche di pietà regolari. Durante l’adolescenza visse, però, una profonda crisi esistenziale e spirituale che lo portò ad anticipare il ritorno in famiglia e a concludere gli studi a Torino, iscrivendosi al biennio di filosofia. Il “ritorno alla luce” avvenne - come egli racconta - dopo qualche mese, con la grazia di una confessione generale, nella quale riscoprì l’immensa misericordia di Dio; maturò, allora, a 17 anni, la decisione di farsi sacerdote, come riposta d’amore a Dio che lo aveva afferrato con il suo amore. Venne ordinato il 20 settembre 1851. Proprio in quel periodo, come catechista dell’Oratorio dell’Angelo Custode, fu conosciuto ed apprezzato da Don Bosco, il quale lo convinse ad accettare la direzione del nuovo Oratorio di San Luigi a Porta Nuova che tenne fino al 1865. Lì venne in contatto anche con i gravi problemi dei ceti più poveri, ne visitò le case, maturando una profonda sensibilità sociale, educativa ed apostolica che lo portò poi a dedicarsi autonomamente a molteplici iniziative in favore della gioventù. Catechesi, scuola, attività ricreative furono i fondamenti del suo metodo educativo in Oratorio. Sempre Don Bosco lo volle con sé in occasione dell’Udienza concessagli dal beato Pio IX nel 1858.

Nel 1873 fondò la Congregazione di San Giuseppe, il cui fine apostolico fu, fin dall’inizio, la formazione della gioventù, specialmente quella più povera e abbandonata. L’ambiente torinese del tempo fu segnato dall’intenso fiorire di opere e di attività caritative promosse dal Murialdo fino alla sua morte, avvenuta il 30 marzo del 1900.

Mi piace sottolineare che il nucleo centrale della spiritualità del Murialdo è la convinzione dell’amore misericordioso di Dio: un Padre sempre buono, paziente e generoso, che rivela la grandezza e l’immensità della sua misericordia con il perdono. Questa realtà san Leonardo la sperimentò a livello non intellettuale, ma esistenziale, mediante l’incontro vivo con il Signore. Egli si considerò sempre un uomo graziato da Dio misericordioso: per questo visse il senso gioioso della gratitudine al Signore, la serena consapevolezza del proprio limite, il desiderio ardente di penitenza, l’impegno costante e generoso di conversione. Egli vedeva tutta la sua esistenza non solo illuminata, guidata, sorretta da questo amore, ma continuamente immersa nell’infinita misericordia di Dio. Scrisse nel suo Testamento spirituale: “La tua misericordia mi circonda, o Signore… Come Dio è sempre ed ovunque, così è sempre ed ovunque amore, è sempre ed ovunque misericordia”. Ricordando il momento di crisi avuto in giovinezza, annotava: “Ecco che il buon Dio voleva far risplendere ancora la sua bontà e generosità in modo del tutto singolare. Non soltanto egli mi ammise di nuovo alla sua amicizia, ma mi chiamò ad una scelta di predilezione: mi chiamò al sacerdozio, e questo solo pochi mesi dopo il mio ritorno a lui”. San Leonardo visse perciò la vocazione sacerdotale come dono gratuito della misericordia di Dio con senso di riconoscenza, gioia e amore. Scrisse ancora: “Dio ha scelto me! Egli mi ha chiamato, mi ha perfino forzato all’onore, alla gloria, alla felicità ineffabile di essere suo ministro, di essere «un altro Cristo» … E dove stavo io quando mi hai cercato, mio Dio? Nel fondo dell’abisso! Io ero là, e là Dio venne a cercarmi; là egli mi fece intendere la sua voce…”.

Sottolineando la grandezza della missione del sacerdote che deve “continuare l’opera della redenzione, la grande opera di Gesù Cristo, l’opera del Salvatore del mondo”, cioè quella di “salvare le anime”, san Leonardo ricordava sempre a se stesso e ai confratelli la responsabilità di una vita coerente con il sacramento ricevuto. Amore di Dio e amore a Dio: fu questa la forza del suo cammino di santità, la legge del suo sacerdozio, il significato più profondo del suo apostolato tra i giovani poveri e la fonte della sua preghiera. San Leonardo Murialdo si è abbandonato con fiducia alla Provvidenza, compiendo generosamente la volontà divina, nel contatto con Dio e dedicandosi ai giovani poveri. In questo modo egli ha unito il silenzio contemplativo con l’ardore instancabile dell’azione, la fedeltà ai doveri di ogni giorno con la genialità delle iniziative, la forza nelle difficoltà con la serenità dello spirito. Questa è la sua strada di santità per vivere il comandamento dell’amore, verso Dio e verso il prossimo.

Con lo stesso spirito di carità è vissuto, quarant’anni prima del Murialdo, san Giuseppe Benedetto Cottolengo, fondatore dell’opera da lui stesso denominata “Piccola Casa della Divina Provvidenza” e chiamata oggi anche “Cottolengo”. Domenica prossima, nella mia Visita pastorale a Torino, avrò modo di venerare le spoglie di questo Santo e di incontrare gli ospiti della “Piccola Casa”.

Giuseppe Benedetto Cottolengo nacque a Bra, cittadina della provincia di Cuneo, il 3 maggio 1786. Primogenito di 12 figli, di cui 6 morirono in tenera età, mostrò fin da fanciullo grande sensibilità verso i poveri. Abbracciò la via del sacerdozio, imitato anche da due fratelli. Gli anni della sua giovinezza furono quelli dell’avventura napoleonica e dei conseguenti disagi in campo religioso e sociale. Il Cottolengo divenne un buon sacerdote, ricercato da molti penitenti e, nella Torino di quel tempo, predicatore di esercizi spirituali e conferenze presso gli studenti universitari, dove riscuoteva sempre un notevole successo. All’età di 32 anni, venne nominato canonico della Santissima Trinità, una congregazione di sacerdoti che aveva il compito di officiare nella Chiesa del Corpus Domini e di dare decoro alle cerimonie religiose della città, ma in quella sistemazione egli si sentiva inquieto. Dio lo stava preparando ad una missione particolare, e, proprio con un incontro inaspettato e decisivo, gli fece capire quale sarebbe stato il suo futuro destino nell’esercizio del ministero.

Il Signore pone sempre dei segni sul nostro cammino per guidarci secondo la sua volontà al nostro vero bene. Per il Cottolengo questo avvenne, in modo drammatico, la domenica mattina del 2 settembre 1827. Proveniente da Milano giunse a Torino la diligenza, affollata come non mai, dove si trovava stipata un’intera famiglia francese in cui la moglie, con cinque bambini, era in stato di gravidanza avanzata e con la febbre alta. Dopo aver vagato per vari ospedali, quella famiglia trovò alloggio in un dormitorio pubblico, ma la situazione per la donna andò aggravandosi e alcuni si misero alla ricerca di un prete. Per un misterioso disegno incrociarono il Cottolengo, e fu proprio lui, con il cuore pesante e oppresso, ad accompagnare alla morte questa giovane madre, fra lo strazio dell’intera famiglia. Dopo aver assolto questo doloroso compito, con la sofferenza nel cuore, si recò davanti al Santissimo Sacramento e pregò: “Mio Dio, perchè? Perchè mi hai voluto testimone? Cosa vuoi da me? Bisogna fare qualcosa!”. Rialzatosi, fece suonare tutte le campane, accendere le candele, e accogliendo i curiosi in chiesa disse: “La grazia è fatta! La grazia è fatta!”. Da quel momento il Cottolengo fu trasformato: tutte le sue capacità, specialmente la sua abilità economica e organizzativa, furono utilizzate per dare vita ad iniziative a sostegno dei più bisognosi.

Egli seppe coinvolgere nella sua impresa decine e decine di collaboratori e volontari. Spostandosi verso la periferia di Torino per espandere la sua opera, creò una sorta di villaggio, nel quale ad ogni edificio che riuscì a costruire assegnò un nome significativo: “casa della fede”, “casa della speranza”, “casa della carità”. Mise in atto lo stile delle “famiglie”, costituendo delle vere e proprie comunità di persone, volontari e volontarie, uomini e donne, religiosi e laici, uniti per affrontare e superare insieme le difficoltà che si presentavano. Ognuno in quella Piccola Casa della Divina Provvidenza aveva un compito preciso: chi lavorava, chi pregava, chi serviva, chi istruiva, chi amministrava. Sani e ammalati condividevano tutti lo stesso peso del quotidiano. Anche la vita religiosa si specificò nel tempo, secondo i bisogni e le esigenze particolari. Pensò anche ad un proprio seminario, per una formazione specifica dei sacerdoti dell’Opera. Fu sempre pronto a seguire e a servire la Divina Provvidenza, mai ad interrogarla. Diceva: “Io sono un buono a nulla e non so neppure cosa mi faccio. La Divina Provvidenza però sa certamente ciò che vuole. A me tocca solo assecondarla. Avanti in Domino”. Per i suoi poveri e i più bisognosi, si definirà sempre “il manovale della Divina Provvidenza”.

Accanto alle piccole cittadelle volle fondare anche cinque monasteri di suore contemplative e uno di eremiti, e li considerò tra le realizzazioni più importanti: una sorta di “cuore” che doveva battere per tutta l’Opera. Morì il 30 aprile 1842, pronunciando queste parole: “Misericordia, Domine; Misericordia, Domine. Buona e Santa Provvidenza… Vergine Santa, ora tocca a Voi”. La sua vita, come scrisse un giornale del tempo, era stata tutta “un’intensa giornata d’amore”.

Cari amici, questi due santi Sacerdoti, dei quali ho presentato qualche tratto, hanno vissuto il loro ministero nel dono totale della vita ai più poveri, ai più bisognosi, agli ultimi, trovando sempre la radice profonda, la fonte inesauribile della loro azione nel rapporto con Dio, attingendo dal suo amore, nella profonda convinzione che non è possibile esercitare la carità senza vivere in Cristo e nella Chiesa. La loro intercessione e il loro esempio continuino ad illuminare il ministero di tanti sacerdoti che si spendono con generosità per Dio e per il gregge loro affidato, e aiutino ciascuno a donarsi con gioia e generosità a Dio e al prossimo.

© Copyright 2010 - Libreria Editrice Vaticana

Revival of ancient rite brings multiple advantages, some misperceptions. By Bishop Edward J. Slattery



LITURGY
Revival of ancient rite brings multiple advantages,
some misperceptions
By Bishop Edward J. Slattery

Because the Mass is so necessary and fundamental to our Catholic experience, the liturgy is a constant topic in our conversation. That is why when we get together, we so often reflect upon the prayers and readings, discuss the homily, and -- likely as not -- argue about the music. The critical element in these conversations is an understanding that we Catholics worship the way we do because of what the Mass is: Christ’s sacrifice, offered under the sacramental signs of bread and wine.

If our conversation about the Mass is going to “make any sense,” then we have to grasp this essential truth: At Mass Christ joins us to Himself as He offers Himself in sacrifice to the Father for the world’s redemption. We can offer ourselves like this in Him because we have become members of His Body by Baptism.

We also want to remember that all of the faithful offer the Eucharistic Sacrifice as members of Christ’s body. It’s incorrect to think that only the priest offers Mass. All the faithful share in the offering, even though the priest has a unique role. He stands “in the person of Christ,” the historic Head of the Mystical Body, so that at Mass, it is the whole body of Christ -- Head and members together that make the offering.
Facing the same direction

From ancient times, the position of the priest and the people reflected this understanding of the Mass, since the people prayed, standing or kneeling, in the place which visibly represented Our Lord’s Body, while the priest at the altar stood at the head as the Head. We formed the whole Christ -- Head and members -- both sacramentally by Baptism and visibly by our position and posture. Just as importantly, everyone -- celebrant and congregation -- faced the same direction, since they were united with Christ in offering to the Father Christ’s unique, unrepeatable and acceptable Sacrifice.

When we study the most ancient liturgical practices of the Church, we find that the priest and the people faced in the same direction, usually toward the east, in the expectation that when Christ returns, He will return “from the east.” At Mass, the Church keeps vigil, waiting for that return. This single position is called ad orientem, which simply means “toward the east.”
Multiple advantages

Having the priest and people celebrate Mass ad orientem was the liturgical norm for nearly 18 centuries. There must have been solid reasons for the Church to have held on to this posture for so long. And indeed there were! First of all, the Catholic liturgy has always maintained a marvelous adherence to the Apostolic Tradition. We see the Mass, indeed the whole liturgical expression of the Church’s life, as something which we have received from the Apostles and which we in turn are expected to hand on intact. (1 Corinthians 11:23)

Secondly, the Church held on to this single eastward position because of the sublime way it reveals the nature of the Mass. Even someone unfamiliar with the Mass who reflected upon the celebrant and the faithful being oriented in the same direction would recognize that the priest stands at the head of the people, sharing in one and the same action, which was -- he would note with a moment’s longer reflection -- an act of worship.
An innovation with unforeseen consequences

In the past 40 years, however, this shared orientation was lost; now the priest and the people have become accustomed to facing in opposite directions. The priest faces the people while the people face the priest, even though the Eucharistic Prayer is directed to the Father and not to the people.

This innovation was introduced after the Vatican Council, partly to help the people understand the liturgical action of the Mass by allowing them to see what was going on, and partly as an accommodation to contemporary culture where people who exercise authority are expected to face directly the people they serve, like a teacher sitting behind her desk.

Unfortunately this change had a number of unforeseen and largely negative effects. First of all, it was a serious rupture with the Church’s ancient tradition. Secondly, it can give the appearance that the priest and the people were engaged in a conversation about God, rather than the worship of God. Thirdly, it places an inordinate importance on the personality of the celebrant by placing him on a kind of liturgical stage.
Recovering the Sacred

Even before his election as the successor to St. Peter, Pope Benedict has been urging us to draw upon the ancient liturgical practice of the Church to recover a more authentic Catholic worship and, for that reason, I have restored the venerable ad orientem position when he celebrates Mass at the Cathedral.

This change ought not to be misconstrued as the Bishop “turning his back on the faithful,” as if I am being inconsiderate or hostile. Such an interpretation misses the point that by facing in the same direction, the posture of the celebrant and the congregation makes explicit the fact that we journey together to God. Priest and people are on this pilgrimage together.

It would also be a mistaken notion to look at the recovery of this ancient tradition as a mere “turning back of the clock.” Pope Benedict has spoken repeatedly of the importance of celebrating Mass ad orientem, but his intention is not to encourage celebrants to become “liturgical antiquarians.” Rather, His Holiness wants us to discover what underlies this ancient tradition and made it viable for so many centuries, namely, the Church’s understanding that the worship of the Mass is primarily and essentially the worship which Christ offers to His Father.

Editor’s note: This column, which is Bishop Slattery’s column for the September issue of the Eastern Oklahoma Catholic, has been distributed through Catholic communities worldwide, especially those interested in liturgy. On the web site, What Does the Prayer Really Say, (wdtprs.com/blog/) a posting of the ad orientem column has received many comments, and there also is a critique of a National Catholic Register story about Bishop Slattery’s decision to celebrate his Masses at the Cathedral ad orientem. The column also is distributed by Catholic News Service.

For information on the Diocese of Tulsa Liturgical Institute, e-mail liturgicalinstitute@dioceseoftulsa.org

martedì 27 aprile 2010

Il pastore che abbandona il gregge affidatogli, è nella chiesa un simulacro di pastore

SAN ANTONIO DI PADOVA
Sacerdote e Dottore della Chiesa (1195-1231)

Dai Sermoni di S. Antonio

«Pasci i miei agnelli» (Gv 21,15-16). Fa' attenzione al fatto che per ben tre volte è detto: «pasci», e neppure una volta «tosa» o «mungi». Se ami me per me stesso, e non te per te stesso, «pasci i miei agnelli» in quanto miei, non come fossero tuoi. Ricerca in essi la mia gloria e non la tua, il mio interesse e non il tuo, perché l'amore verso Dio si prova con l'amore verso il prossimo. Guai a colui che non pasce neppure una volta e poi invece tosa e munge tre o quattro volte. A costui «il re di Sodoma», cioè il diavolo, «dice: Dammi le anime, tutto il resto prendilo per te» (Gn 14,21), tieni cioè per te la lana e il latte, la pelle e le carni, le decime e le primizie. A un tale pastore, anzi lupo, che pasce se stesso, il Signore minaccia: «Guai al pastore, simulacro di pastore, che abbandona il gregge: una spada sta sopra il suo braccio e sul suo occhio destro; tutto il suo braccio si inaridirà e il suo occhio destro resterà accecato» (Zc 11,17).

Il pastore che abbandona il gregge affidatogli, è nella chiesa un simulacro di pastore, come Dagon, posto presso l'Arca del Signore (cf. 1Re 5,2); era un idolo, un simulacro: aveva cioè l'apparenza di un dio, ma non la realtà. Perché dunque occupa quel posto? Costui è veramente un idolo, un dio falso, perché ha gli occhi rivolti alle vanità del mondo, e non vede le miserie dei poveri; ha gli orecchi attenti alle adulazioni dei suoi ruffiani e non sente i lamenti e le grida dei poveri; tiene le narici sulle boccettine dei profumi, come una donna, ma non sente il profumo del cielo e il fetore della geenna; adopera le mani per accumulare ricchezze e non per accarezzare le cicatrici delle ferite di Cristo; usa i piedi per correre a rinforzare le sue difese e riscuotere i tributi, e non per andare a predicare la parola del Signore; e nella sua gola non c'è il canto di lode né la voce della confessione. Quale rapporto ci può essere tra la chiesa di Cristo e questo idolo marcio? «Cos'ha a che fare la paglia con il grano?» (Ger 23,28). «Quale intesa ci può mai essere tra Cristo e Beliar?» (2Cor 6,15).

Tutto il braccio di quest'idolo s'inaridirà per opera della spada del giudizio divino, perché non possa più fare il bene. E il suo occhio destro, cioè la conoscenza della verità, si oscurerà, perché non possa più distinguere la via della giustizia né per sé, né per gli altri. E questi due castighi, provocati dai loro peccati, si abbattono oggi su quei pastori della chiesa che sono privi del valore delle opere buone e non hanno la conoscenza della verità. E allora, ahimè, il lupo, cioè il diavolo, disperde il gregge (cf. Gv 10,12), e il predone, cioè l'eretico, lo rapisce.

Invece il Buon Pastore, che ha dato la vita per il suo gregge (cf. Gv 10,15), di esso sempre sollecito, avendolo comprato a sì caro prezzo, lo affida a Pietro dicendo: «Pasci i miei agnelli». Pascili con la parola della sacra predicazione, con l'aiuto della preghiera fervorosa e con l'esempio della santa vita". (SS. Pietr. e Paol., §4)

lunedì 26 aprile 2010

La "Messa di Sempre" celebrata dal Padre Vincenzo Nuara, Ufficiale della Comm. Pontificia ECCLESIA DEI nella Parrocchia di Viguzzolo-AL


CELEBRATA LA DOMENICA DEL BUON PASTORE
NELLA PARROCCHIA DI VIGUZZOLO - AL

Nella vigilia del 5° anniversario dell’
Elezione al Soglio Pontificio di Sua Santità Benedetto XVI

Domenica 18 aprile 2010 - ore 9
II Domenica dopo Pasqua

In latino secondo la forma straordinaria del Rito Romano

Ha celebrato:
Padre Vincenzo Nuara o.p.
ufficiale della Pontificia Commissione Ecclesia Dei

Diacono: Don Gino Bava, Parroco di Viguzzolo

Suddiacono: Padre Francesco dei Frati Francescani dell’Immacolata

Al termine è stata recitata la Preghiera per il Papa

Padre Vincenzo Nuara, dell'Ordine dei Predicatori, fondatore dell’Amici­zia Sacerdotale Summorum Pontificum e del gruppo laicale Giovani e Tradizione, è stato l’or­ganizzatore di due convegni internazionali a Roma sul motu proprio “Summorum Pontificum" è stato nominato recentemente membro della Pontificia Commissione "Ecclesia Dei".
Il Padre Vincenzo Nuara era di ritorno da Torino dove aveva guidato un
Pellegrinaggio in occasione dell’Ostensione della Sacra Sindone.

Foto di Renato Lisini

Parrocchia "B. Vergine Assunta" in Viguzzolo,
Santa Messa nella Forma Straordinaria del Rito Romano tutte le Domeniche alle ore 17.




domenica 25 aprile 2010

Bishop Edward Slattery's Sermon at the National Shrine on April 24, 2010

The Pontifical Solemn Mass
at the Basilica of the National Shrine

celebration of the fifth anniversary of Pope Benedict's inauguration


Celebrant:
Bishop Edward James Slattery of the Diocese of Tulsa


Edward James Slattery was born in Chicago, Illinois on August 11, 1940 to William Edward Slattery and Winifred Margaret Brennan. Of their seven children, he was the second child and first boy. After his schooling at Visitation of the BVM Grade School, Edward attended Quigley Preparatory Seminary in Chicago. He then attended St. Mary of the Lake Seminary in Mundelein, Illinois, where he took a Bachelor of Arts degree and later a Masters of Divinity degree. He was ordained a priest on April 26, 1966 for the Archdiocese of Chicago by the late John Cardinal Cody.

Father Slattery was assigned as Associate Pastor of St. Jude the Apostle Parish in South Holland, Illinois, where he served from 1966 to 1971. During this time, he obtained a Master's degree from Loyola University. In 1971, he began his service with the Catholic Church Extension Society, a funding agency for the American home missions, with headquarters in Chicago. He was Vice-President from 1971-76 and President from 1976 until 1994.

While working at Extension, Father Slattery was appointed Associate Pastor of St. Rose of Lima Parish in 1973. This was an inner-city Hispanic parish on the south side of Chicago. He was named pastor of St. Rose of Lima in 1976 and remained in that position until 1989.

Late in 1993, Father Slattery was notified that Pope John Paul II had chosen to name him a bishop. In Rome, on January 6, 1994 the Holy Father ordained thirteen men as bishops; one of the thirteen was an American; it was Edward J. Slattery, future third bishop of Tulsa.

Bishop Slattery was installed as third bishop of the Diocese of Tulsa at Holy Family Cathedral on January 12, 1994. By the Grace of God, he continues to serve as shepherd for the People of God in eastern Oklahoma.


Solemn Pontifical Mass
Washington, D.C.

Bishop Edward James Slattery

Celebrating the fifth anniversary
of the ascension of Benedict XVI to the throne of Peter
- ad multos annos! -


We have much to discuss - you and I …

… much to speak of on this glorious occasion when we gather together in the glare of the world’s scrutiny to celebrate the fifth anniversary of the ascension of Joseph Ratzinger to the throne of Peter.

We must come to understand how it is that suffering can reveal the mercy of God and make manifest among us the consoling presence of Jesus Christ, crucified and now risen from the dead.

We must speak of this mystery today, first of all because it is one of the great mysteries of revelation, spoken of in the New Testament and attested to by every saint in the Church’s long history, by the martyrs with their blood, by the confessors with their constancy, by the virgins with their purity and by the lay faithful of Christ’s body by their resolute courage under fire.

But we must also speak clearly of this mystery because of the enormous suffering which is all around us and which does so much to determine the culture of our modern age.

From the enormous suffering of His Holiness these past months to the suffering of the Church’s most recent martyrs in India and Africa, welling up from the suffering of the poor and the dispossessed and the undocumented, and gathering tears from the victims of abuse and neglect, from women who have been deceived into believing that abortion was a simple medical procedure and thus have lost part of their soul to the greed of the abortionist, and now flowing with the heartache of those who suffer from cancer, diabetes, AIDS, or the emotional diseases of our age, it is the sufferings of our people that defines the culture of our modern secular age.

This enormous suffering which can take on so many varied physical, mental, and emotional forms will reduce us to fear and trembling - if we do not remember that Christ - our Pasch - has been raised from the dead. Our pain and anguish could dehumanize us, for it has the power to close us in upon ourselves such that we would live always in chaos and confusion - if we do not remember that Christ - our hope - has been raised for our sakes. Jesus is our Pasch, our hope and our light.

He makes himself most present in the suffering of his people and this is the mystery of which we must speak today, for when we speak of His saving presence and proclaim His infinite love in the midst of our suffering, when we seek His light and refuse to surrender to the darkness, we receive that light which is the life of men; that light which, as Saint John reminds us in the prologue to his Gospel, can never be overcome by the darkness, no matter how thick, no matter how choking.

Our suffering is thus transformed by His presence. It no longer has the power to alienate or isolate us. Neither can it dehumanize us nor destroy us. Suffering, however long and terrible it may be, has only the power to reveal Christ among us, and He is the mercy and the forgiveness of God.

The mystery then, of which we speak, is the light that shines in the darkness, Christ Our Lord, Who reveals Himself most wondrously to those who suffer so that suffering and death can do nothing more than bring us to the mercy of the Father.

But the point which we must clarify is that Christ reveals Himself to those who suffer in Christ, to those who humbly accept their pain as a personal sharing in His Passion and who are thus obedient to Christ’s command that we take up our cross and follow Him. Suffering by itself is simply the promise that death will claim these mortal bodies of ours, but suffering in Christ is the promise that we will be raised with Christ, when our mortality will be remade in his immortality and all that in our lives which is broken because it is perishable and finite will be made imperishable and incorrupt.

This is the meaning of Peter’s claim that he is a witness to the sufferings of Christ and thus one who has a share in the glory yet to be revealed. Once Peter grasped the overwhelming truth of this mystery, his life was changed. The world held nothing for Peter. For him, there was only Christ.

This is, as you know, quite a dramatic shift for the man who three times denied Our Lord, the man to whom Jesus said, “Thou art Peter, and upon this rock I will build my Church, that the gates of hell shall not prevail against it.”

Christ’s declaration to Peter that he would be the rock, the impregnable foundation, the mountain of Zion upon which the new Jerusalem would be constructed, follows in Matthew’s Gospel Saint Peter’s dramatic profession of faith, when the Lord asks the Twelve, “Who do people say that I am?” and Peter, impulsive as always, responds “You are the Christ, the Son of the Living God.”

Only later - much later - would Peter come to understand the full implication of this first Profession of Faith. Peter would still have to learn that to follow Christ, to truly be His disciple, one must let go of everything which the world considers valuable and necessary, and become powerless. This is the mystery which confounds independent Peter. It is the mystery which still confounds us: to follow Christ, one must surrender everything and become obedient with the obedience of Christ, for no one gains access to the Kingdom of the Father, unless he enter through the humility and the obedience of Jesus.

Peter had no idea that eventually he would find himself fully accepting this obedience, joyfully accepting his share in the Passion and Death of Christ. But Peter loved Our Lord and love was the way by which Peter learned how to obey. “Lord, you know that I love thee,” Peter affirms three times with tears; and three times Christ commands him to tend to the flock that gathers at the foot of Calvary - and that is where we are now.

Peter knew that Jesus was the true Shepherd, the one Master and the only teacher; the rest of us are learners and the lesson we must learn is obedience, obedience unto death. Nothing less than this, for only when we are willing to be obedient with the very obedience of Christ will we come to recognize Christ’s presence among us.

Obedience is thus the heart of the life of the disciple and the key to suffering in Christ and with Christ. This obedience, is must be said, is quite different from obedience the way it is spoken of and dismissed in the world.

For those in the world, obedience is a burden and an imposition. It is the way by which the powerful force the powerless to do obeisance. Simply juridical and always external, obedience is the bending that breaks, but a breaking which is still less painful than the punishment meted out for disobedience. Thus for those in the world obedience is a punishment which must be avoided; but for Christians, obedience is always personal, because it is centered on Christ. It is a surrender to Jesus Whom we love.

For those whose lives are centered in Christ, obedience is that movement which the heart makes when it leaps in joy having once discovered the truth.

Let us consider, then, that Christ has given us both the image of his obedience and the action by which we are made obedient.

The image of Christ’s obedience is His Sacred Heart. That Heart, exposed and wounded must give us pause, for man’s heart it generally hidden and secret. In the silence of his own heart, each of us discovers the truth of who we are, the truth of why we are silent when we should speak, or bothersome and quarrelsome when we should be silent. In our hidden recesses of the heart, we come to know the impulses behind our deeds and the reasons why we act so often as cowards and fools.

But while man’s heart is generally silent and secret, the Heart of the God-Man is fully visible and accessible. It too reveals the motives behind our Lord’s self-surrender. It was obedience to the Father’s will that mankind be reconciled and our many sins forgiven us. “Son though he was,” the Apostle reminds us, “Jesus learned obedience through what He sufferered.” Obedient unto death, death on a cross, Jesus asks his Father to forgive us that God might reveal the full depth of his mercy and love. “Father, forgive them,” he prayed, “for they know not what they do.”

Christ’s Sacred Heart is the image of the obedience which Christ showed by his sacrificial love on Calvary. The Sacrifice of Calvary is also for us the means by which we are made obedient and this is a point which you must never forget: at Mass, we offer ourselves to the Father in union with Christ, who offers Himself in perfect obedience to the Father. We make this offering in obedience to Christ who commanded us to “Do this in memory of me” and our obediential offering is perfected in the love with which the Father receives the gift of His Son.

Do not be surprised then that here at Mass, our bloodless offering of the bloody sacrifice of Calvary is a triple act of obedience. First, Christ is obedient to the Father, and offers Himself as a sacrifice of reconciliation. Secondly, we are obedient to Christ and offer ourselves to the Father with Jesus the Son; and thirdly, in sharing Christ’s obedience to the Father, we are made obedient to a new order of reality, in which love is supreme and life reigns eternal, in which suffering and death have been defeated by becoming for us the means by which Christ’s final victory, his future coming, is made manifest and real today.

Suffering then, yours, mine, the Pontiffs, is at the heart of personal holiness, because it is our sharing in the obedience of Jesus which reveals his glory. It is the means by which we are made witnesses of his suffering and sharers in the glory to come.

Do not be dismayed that there many in the Church have not yet grasped this point, and fewer still in the world will even consider it. You know this to be true and ten men who whisper the truth speak louder than a hundred million who lie.

If then someone asks of what we spoke today, tell them we spoke of the truth. If someone asks why it is you came to this Mass, say that it was so that you could be obedient with Christ. If someone asks about the homily, tell them it was about a mystery and if someone asks what I said of the present situation, tell them only that we must - all of us - become saints.



LE PAROLE DEL PAPA ALLA RECITA DEL REGINA CÆLI - 25 aprile 2010


BENEDETTO XVI
REGINA CÆLI

Piazza San Pietro
Domenica, 25 aprile 2010

Cari fratelli e sorelle,

in questa quarta Domenica di Pasqua, detta "del Buon Pastore", si celebra la Giornata mondiale di preghiera per le vocazioni, che quest’anno ha per tema: "La testimonianza suscita vocazioni", tema "strettamente legato alla vita e alla missione dei sacerdoti e dei consacrati" (Messaggio per la XLVII G. M. di preghiera per le vocazioni, 13 novembre 2009). La prima forma di testimonianza che suscita vocazioni è la preghiera (cfr ibid.), come ci mostra l’esempio di santa Monica che, supplicando Dio con umiltà ed insistenza, ottenne la grazia di veder diventare cristiano suo figlio Agostino, il quale scrive: "Senza incertezze credo e affermo che per le sue preghiere Dio mi ha concesso l’intenzione di non preporre, non volere, non pensare, non amare altro che il raggiungimento della verità" (De Ordine II, 20, 52, CCL 29, 136). Invito, pertanto, i genitori a pregare, perché il cuore dei figli si apra all’ascolto del Buon Pastore, e "ogni più piccolo germe di vocazione … diventi albero rigoglioso, carico di frutti per il bene della Chiesa e dell’intera umanità" (Messaggio cit.). Come possiamo ascoltare la voce del Signore e riconoscerlo? Nella predicazione degli Apostoli e dei loro successori: in essa risuona la voce di Cristo, che chiama alla comunione con Dio e alla pienezza della vita, come leggiamo oggi nel Vangelo di san Giovanni: "Le mie pecore ascoltano la mia voce ed esse mi seguono. Io do loro la vita eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano" (Gv 10,27-28). Solo il Buon Pastore custodisce con immensa tenerezza il suo gregge e lo difende dal male, e solo in Lui i fedeli possono riporre assoluta fiducia.

In questa Giornata di speciale preghiera per le vocazioni, esorto in particolare i ministri ordinati, affinché, stimolati dall’Anno Sacerdotale, si sentano impegnati "per una più forte ed incisiva testimonianza evangelica nel mondo di oggi" (Lettera di indizione). Ricordino che il sacerdote "continua l’opera della Redenzione sulla terra"; sappiano sostare volentieri davanti al tabernacolo"; aderiscano "totalmente alla propria vocazione e missione mediante un’ascesi severa"; si rendano disponibili all’ascolto e al perdono; formino cristianamente il popolo a loro affidato; coltivino con cura la "fraternità sacerdotale" (cfr ibid.). Prendano esempio da saggi e zelanti Pastori, come fece san Gregorio di Nazianzo, il quale così scriveva all’amico fraterno e Vescovo san Basilio: "Insegnaci il tuo amore per le pecore, la tua sollecitudine e la tua capacità di comprensione, la tua sorveglianza … la severità nella dolcezza, la serenità e la mansuetudine nell’attività … i combattimenti in difesa del gregge, le vittorie … conseguite in Cristo" (Oratio IX, 5, PG 35, 825ab).

Ringrazio tutti i presenti e quanti con la preghiera e l’affetto sostengono il mio ministero di Successore di Pietro, e su ciascuno invoco la celeste protezione della Vergine Maria, alla quale ci rivolgiamo ora in preghiera.


Dopo il Regina Cæli:

Stamani, rispettivamente a Roma e a Barcellona, sono stati proclamati Beati due Sacerdoti: Angelo Paoli, Carmelitano, e José Tous y Soler, Cappuccino. A quest’ultimo farò cenno tra poco. Del beato Angelo Paoli, originario della Lunigiana e vissuto tra i secoli XVII e XVIII, mi piace ricordare che fu apostolo della carità a Roma, soprannominato “padre dei poveri”. Si dedicò specialmente ai malati dell’Ospedale San Giovanni, prendendosi cura anche dei convalescenti. Il suo apostolato traeva forza dall’Eucaristia e dalla devozione alla Madonna del Carmine, come pure da un’intensa vita di penitenza. Nell’Anno Sacerdotale, propongo volentieri il suo esempio a tutti i sacerdoti, in modo particolare a quanti appartengono ad Istituti religiosi di vita attiva.

Chers pèlerins francophones, en ce dimanche l’Église universelle prie pour les vocations. Ce jour de prière prend une dimension particulière en cette Année Sacerdotale. Prions tous afin que des jeunes répondent à l’appel du Seigneur, acceptent de bâtir leur existence entière sur le Christ dans un service plus direct à l’Évangile et choisissent de donner leur vie avec générosité à Dieu et à l’Église. Priez, chers pèlerins, pour vos prêtres et vos séminaristes. Que l’exemple de Marie et du Saint Curé d’Ars nous guide! Bon dimanche!

I am happy to greet all the English-speaking visitors present for today’s Regina Caeli prayer. This Sunday the Church celebrates the World Day of Prayer for Vocations. As we rejoice in the new life that the Risen Lord has won for us, let us ask him to inspire many young people to centre their hearts on the things of Heaven (cf. Col 3:1-2) and to offer themselves joyfully in the service of Christ our Good Shepherd in the priesthood and religious life. Confidently entrusting this petition to Mary, Queen of Heaven, I invoke upon you God’s abundant blessings of peace and joy!

Mit Freude grüße ich die deutschsprachigen Pilger und Besucher hier auf dem Petersplatz. Am heutigen „Sonntag des Guten Hirten“ begehen wir den 47. Weltgebetstag um geistliche Berufungen. In diesem Jahr lautet das Motto: „Das Zeugnis weckt Berufungen“. Dabei blicken wir auf Jesus selbst: Er ist uns als Guter Hirte vorangegangen. Er hat uns gezeigt, was es heißt, sein Leben für die Menschen hinzugeben, die ihm der Vater anvertraut hat. Bitten wir Maria um ihre Fürsprache, daß alle, die Jesus in seine engere Nachfolge berufen hat, ihm freudig antworten und der Gnade Gottes treu bleiben. Der Herr segne euch und eure Familien.

Saludo con afecto a los peregrinos de lengua española, en particular a los fieles de las parroquias Nuestra Señora del Pilar, de Catarroja, y de la Sangre de Cristo, de Cullera. En este domingo llamado del Buen Pastor, en el que la Iglesia celebra la Jornada de oración por las vocaciones, ha tenido lugar en Barcelona la beatificación del sacerdote capuchino José Tous y Soler, fundador de las Hermanas Capuchinas de la Madre del Divino Pastor. No obstante numerosas pruebas y dificultades, nunca se dejó vencer por la amargura o el resentimiento. Destacó por su caridad exquisita y su capacidad para soportar y comprender las deficiencias de los demás. Que su ejemplo e intercesión ayude a todos y especialmente a los sacerdotes a vivir la fidelidad a Cristo. Que el nou Beat Josep Tóus i Soler us beneeixi i us protegeixi. Feliç diumenge. Muchas gracias y feliz domingo.

Dirijo agora a minha saudação amiga aos professores e alunos do Colégio de São Tomás, de Lisboa, e demais peregrinos de língua portuguesa: De visita a Roma, não quisestes faltar a este encontro com o Papa, que a todos encoraja na nobre missão de dar razões de vida e de esperança às novas gerações para uma sociedade mais humana e solidária. Sobre vós, vossas famílias e os sonhos de bem que abrigais no coração, desça a minha Bênção Apostólica.

Lepo pozdravljam romarje, ki ste prišli sem z »Duhovno družino Delo«, in vse druge vernike iz Slovenije! Zgled prvih kristjanov naj vam pomaga, da bo srečanje z vstalim Gospodom v Evharistiji vedno središče vašega življenja. Naj bo z vami moj blagoslov!

[Rivolgo un cordiale saluto ai pellegrini qui venuti con la “Famiglia Spirituale L’Opera”, ed a tutti gli altri fedeli provenienti dalla Slovenia! L’esempio dei primi cristiani vi aiuti, affinché l’incontro con il Signore risorto nell’Eucaristia sia sempre il cardine della vostra vita. Vi accompagni la mia Benedizione!]

Pozdrawiam serdecznie wszystkich Polaków, a szczególnie uczestników Marszu dla życia, jaki dzisiaj odbywa się w Szczecinie. Łączę się duchowo z tą szlachetną inicjatywą. Niech budzi ona w każdym sercu potrzebę troski o poczęte życie. Niech będzie wsparciem dla rodzin oczekujących potomstwa. Dzisiejsza niedziela jest nazywana Niedzielą Dobrego Pasterza. Módlmy się za powołanych do kapłaństwa i życia zakonnego, aby idąc za głosem Dobrego Pasterza, świętością życia i posługi, dawali przekonujące świadectwo wiary.

[Saluto cordialmente tutti i Polacchi e, in modo particolare, i partecipanti alla Marcia per la vita, che oggi si svolge a Szczecin. Mi unisco spiritualmente a questa nobile iniziativa. Che essa desti in ogni cuore la sollecitudine per la vita nascente e sia sostegno per le famiglie in attesa di figli. L’odierna domenica viene chiamata Domenica del Buon Pastore. Preghiamo per coloro che sono chiamati al sacerdozio e alla vita consacrata, affinché, seguendo la voce del Buon Pastore, rendano con la santità della loro vita e con il loro servizio una convincente testimonianza di fede.]

Rivolgo uno speciale saluto all’Associazione “Meter”, che da 14 anni promuove la Giornata nazionale per i bambini vittime della violenza, dello sfruttamento e dell’indifferenza. In questa occasione voglio soprattutto ringraziare e incoraggiare quanti si dedicano alla prevenzione e all’educazione, in particolare i genitori, gli insegnanti e tanti sacerdoti, suore, catechisti e animatori che lavorano con i ragazzi nelle parrocchie, nelle scuole e nelle associazioni. Saluto i fedeli venuti da Brescia, da Cassana presso Ferrara, da alcune parrocchie dell’Umbria e da Toronto, in Canada; i ragazzi delle parrocchie della Valposchiavo, in Svizzera, e quelli di Francavilla al Mare; e il gruppo di fidanzati di Altamura. A tutti auguro una buona domenica.

© Copyright 2010 - Libreria Editrice Vaticana

sabato 24 aprile 2010

Il Santo Padre Benedetto XVI al Convegno "Testimoni Digitali...."


UDIENZA AI PARTECIPANTI AL CONVEGNO NAZIONALE "TESTIMONI DIGITALI. VOLTI E LINGUAGGI NELL’ERA CROSSMEDIALE", PROMOSSO DALLA CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA

Alle ore 12 di questa mattina, nell’Aula Paolo VI, il Santo Padre Benedetto XVI riceve in Udienza i partecipanti al Convegno nazionale "Testimoni digitali. Volti e linguaggi nell’era crossmediale", promosso dalla Conferenza Episcopale Italiana.
Pubblichiamo di seguito il discorso che il Papa rivolge ai presenti:

DISCORSO DEL SANTO PADRE

Eminenza,
Venerati Confratelli nell’episcopato,

cari amici,
sono lieto di questa occasione per incontrarvi e concludere il vostro convegno, dal titolo quanto mai evocativo: "Testimoni digitali. Volti e linguaggi nell’era crossmediale". Ringrazio il Presidente della Conferenza Episcopale Italiana, Cardinale Angelo Bagnasco, per le cordiali parole di benvenuto, con le quali, ancora una volta, ha voluto esprimere l’affetto e la vicinanza della Chiesa che è in Italia al mio servizio apostolico. Nelle sue parole, Signor Cardinale, si rispecchia la fedele adesione a Pietro di tutti i cattolici di questa amata Nazione e la stima di tanti uomini e donne animati dal desiderio di cercare la verità.

Il tempo che viviamo conosce un enorme allargamento delle frontiere della comunicazione, realizza un’inedita convergenza tra i diversi media e rende possibile l’interattività. La rete manifesta, dunque, una vocazione aperta, tendenzialmente egualitaria e pluralista, ma nel contempo segna un nuovo fossato: si parla, infatti, di digital divide. Esso separa gli inclusi dagli esclusi e va ad aggiungersi agli altri divari, che già allontanano le nazioni tra loro e anche al loro interno. Aumentano pure i pericoli di omologazione e di controllo, di relativismo intellettuale e morale, già ben riconoscibili nella flessione dello spirito critico, nella verità ridotta al gioco delle opinioni, nelle molteplici forme di degrado e di umiliazione dell’intimità della persona. Si assiste allora a un "inquinamento dello spirito, quello che rende i nostri volti meno sorridenti, più cupi, che ci porta a non salutarci tra di noi, a non guardarci in faccia…" (Discorso in Piazza di Spagna, 8 Dicembre 2009). Questo Convegno, invece, punta proprio a riconoscere i volti, quindi a superare quelle dinamiche collettive che possono farci smarrire la percezione della profondità delle persone e appiattirci sulla loro superficie: quando ciò accade, esse restano corpi senz’anima, oggetti di scambio e di consumo.

Come è possibile, oggi, tornare ai volti? Ho cercato di indicarne la strada anche nella mia terza Enciclica. Essa passa per quella caritas in veritate, che rifulge nel volto di Cristo. L’amore nella verità costituisce "una grande sfida per la Chiesa in un mondo in progressiva e pervasiva globalizzazione" (n. 9). I media possono diventare fattori di umanizzazione "non solo quando, grazie allo sviluppo tecnologico, offrono maggiori possibilità di comunicazione e di informazione, ma soprattutto quando sono organizzati e orientati alla luce di un’immagine della persona e del bene comune che ne rispetti le valenze universali" (n. 73). Ciò richiede che "essi siano centrati sulla promozione della dignità delle persone e dei popoli, siano espressamente animati dalla carità e siano posti al servizio della verità, del bene e della fraternità naturale e soprannaturale" (ibid.). Solamente a tali condizioni il passaggio epocale che stiamo attraversando può rivelarsi ricco e fecondo di nuove opportunità. Senza timori vogliamo prendere il largo nel mare digitale, affrontando la navigazione aperta con la stessa passione che da duemila anni governa la barca della Chiesa. Più che per le risorse tecniche, pur necessarie, vogliamo qualificarci abitando anche questo universo con un cuore credente, che contribuisca a dare un’anima all’ininterrotto flusso comunicativo della rete.

È questa la nostra missione, la missione irrinunciabile della Chiesa: il compito di ogni credente che opera nei media è quello di "spianare la strada a nuovi incontri, assicurando sempre la qualità del contatto umano e l’attenzione alle persone e ai loro veri bisogni spirituali; offrendo agli uomini che vivono questo tempo «digitale» i segni necessari per riconoscere il Signore" (Messaggio per la 44a Giornata mondiale delle comunicazioni sociali, 16 maggio 2010). Cari amici, anche nella rete siete chiamati acollocarvi come "animatori di comunità", attenti a "preparare cammini che conducano alla Parola di Dio", e ad esprimere una particolare sensibilità per quanti "sono sfiduciati ed hanno nel cuore desideri di assoluto e di verità non caduche" (ibid.). La rete potrà così diventare una sorta di "portico dei gentili", dove "fare spazio anche a coloro per i quali Dio è ancora uno sconosciuto" (ibid.).

Quali animatori della cultura e della comunicazione, voi siete segno vivo di quanto "i moderni mezzi di comunicazione siano entrati da tempo a far parte degli strumenti ordinari, attraverso i quali le comunità ecclesiali si esprimono, entrando in contatto con il proprio territorio ed instaurando, molto spesso, forme di dialogo a più vasto raggio" (ibid.). Le voci, in questo campo, in Italia non mancano: basti qui ricordare il quotidiano Avvenire, l’emittente televisiva TV2000, il circuito radiofonico inBlu e l’agenzia di stampa SIR, accanto ai periodici cattolici, alla rete capillare dei settimanali diocesani e agli ormai numerosi siti internet di ispirazione cattolica. Esorto tutti i professionisti della comunicazione a non stancarsi di nutrire nel proprio cuore quella sana passione per l’uomo che diventa tensione ad avvicinarsi sempre più ai suoi linguaggi e al suo vero volto. Vi aiuterà in questo una solida preparazione teologica e soprattutto una profonda e gioiosa passione per Dio, alimentata nel continuo dialogo con il Signore. Le Chiese particolari e gli istituti religiosi, dal canto loro, non esitino a valorizzare i percorsi formativi proposti dalle Università Pontificie, dall’Università Cattolica del Sacro Cuore e dalle altre Università cattoliche ed ecclesiastiche, destinandovi con lungimiranza persone e risorse. Il mondo della comunicazione sociale entri a pieno titolo nella programmazione pastorale.

Mentre vi ringrazio del servizio che rendete alla Chiesa e quindi alla causa dell’uomo, vi esorto a percorrere, animati dal coraggio dello Spirito Santo, le strade del continente digitale. La nostra fiducia non è acriticamente riposta in alcuno strumento della tecnica. La nostra forza sta nell’essere Chiesa, comunità credente, capace di testimoniare a tutti la perenne novità del Risorto, con una vita che fiorisce in pienezza nella misura in cui si apre, entra in relazione, si dona con gratuità.

Vi affido alla protezione di Maria Santissima e dei grandi Santi della comunicazione e di cuore tutti vi benedico.

© Copyright 2010 - Libreria Editrice Vaticana

IV DOMENICA DI PASQUA - DOMINÌCA TÉRTIA POST PASCHA 25 Aprile 2010


MISSALE ROMANUM
Domenica, 25 Aprile 2010



VANGELO
Dal Vangelo secondo Giovanni Gv 10, 27-30

In quel tempo, Gesù disse: «Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono.
Io do loro la vita eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano.
Il Padre mio, che me le ha date, è più grande di tutti e nessuno può strapparle dalla mano del Padre. Io e il Padre siamo una cosa sola».


EVANGÉLIUM
Sequéntia S. Evangélii secundum Ioánnem, 16, 16-22

In illo témpore: Dixit Iesus discípulis suis: Módicum, et iam non vidébitis me: et íterum módicum, et vidébitis me: quia vado ad Patrem. Dixérunt ergo ex discípulis eius ad ínvicem: Quid est hoc, quod dicit nobis: Módicum, et non vidébitis me: et íterum módicum, et vidébitis me: et quia vado ad Patrem? Dicébant ergo, quid est hoc, quod dicit: Módicum? nescímus quid lóquitur. Cognóvit autem Iesus, quia volébant eum interrogáre, et dixit eis: De hoc quæritis inter vos, quia dixi: Módicum, et non vidébitis me: et íterum módicum, et vidébitis me. Amen, amen, dico vobis: quia plorábitis, et flébitis vos, mundus autem gaudébit: vos autem contristabímini, sed tristítia vestra vertétur in gáudium. Múlier cum parit, tristítiam habet, quia venit hora eius: cum autem pepérerit púerum, iam non méminit pressúræ propter gáudium, quia natus est homo in mundum. Et vos ígitur nunc quidem tristítiam habétis, íterum autem vidébo vos, et gaudébit cor vestrum: et gáudium vestrum nemo tollet a vobis.

In quel tempo: Gesù disse ai suoi discepoli: Ancora un poco e non mi vedrete; un pò ancora e mi vedrete". Dissero allora alcuni dei suoi discepoli tra loro: "Che cos'è questo che ci dice: Ancora un poco e non mi vedrete, e un pò ancora e mi vedrete, e questo: Perché vado al Padre?". Dicevano perciò: "Che cos'è mai questo "un poco" di cui parla? Non comprendiamo quello che vuol dire". Gesù capì che volevano interrogarlo e disse loro: "Andate indagando tra voi perché ho detto: Ancora un poco e non mi vedrete e un pò ancora e mi vedrete? In verità, in verità vi dico: voi piangerete e vi rattristerete, ma il mondo si rallegrerà. Voi sarete afflitti, ma la vostra afflizione si cambierà in gioia. La donna, quando partorisce, è afflitta, perché è giunta la sua ora; ma quando ha dato alla luce il bambino, non si ricorda più dell'afflizione per la gioia che è venuto al mondo un uomo. Così anche voi, ora, siete nella tristezza; ma vi vedrò di nuovo e il vostro cuore si rallegrerà e nessuno vi potrà togliere la vostra gioia.

venerdì 23 aprile 2010

Siamo addolorati, hanno trasferito San Padre Pio in una chiesa orribile!



Siamo addolorati, hanno trasferito le spoglie di un grande santo "San Pio da Pietrelcina" in un santuario che offende la nostra tradizione cattolica e offende la spiritualità francescana. E' stata fatta una violenza alla volontà espressa in vita da San Padre Pio di non rimuoverlo dalla sua vecchia Chiesa.  Ha prevalso "dio mammona", la scelta di una architettura ultra modernista, opulente, uno intento commerciale in una chiesa ricca di simboli esoterici. Maranatha.it


La tomba di San Padre Pio


La Croce posta sopra l'altare


Vista dell'altare

giovedì 22 aprile 2010

OMELIA DEL SANTO PADRE BENEDETTO ALLA MESSA PER LA PONTIFICIA COMMISSIONE BIBLICA - 15 Aprile 2010


CONCELEBRAZIONE EUCARISTICA CON I MEMBRI DELLA
PONTIFICIA COMMISSIONE BIBLICA

OMELIA DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI

Cappella Paolina del Palazzo Apostolico Vaticano
Giovedì, 15 aprile 2010

[English]
Cari fratelli e sorelle,

non ho trovato il tempo di preparare una vera omelia. Vorrei soltanto invitare ciascuno alla personale meditazione proponendo e sottolineando alcune frasi della Liturgia odierna, che si offrono al dialogo orante tra noi e la Parola di Dio. La parola, la frase che vorrei proporre alla comune meditazione è questa grande affermazione di san Pietro: “Bisogna obbedire a Dio invece che agli uomini” (At 5,29). San Pietro sta davanti alla suprema istituzione religiosa, alla quale normalmente si dovrebbe obbedire, ma Dio sta al di sopra di questa istituzione e Dio gli ha dato un altro “ordinamento”: deve obbedire a Dio. L'obbedienza a Dio è la libertà, l'obbedienza a Dio gli dà la libertà di opporsi all'istituzione.

E qui gli esegeti attirano la nostra attenzione sul fatto che la risposta di san Pietro al Sinedrio è quasi fino ad verbum identica alla risposta di Socrate al giudizio nel tribunale di Atene. Il tribunale gli offre la libertà, la liberazione, a condizione però che non continui a ricercare Dio. Ma cercare Dio, la ricerca di Dio è per lui un mandato superiore, viene da Dio stesso. E una libertà comprata con la rinuncia al cammino verso Dio non sarebbe più libertà. Quindi deve obbedire non a questi giudici - non deve comprare la sua vita perdendo se stesso - ma deve obbedire a Dio. L'obbedienza a Dio ha il primato.

Qui è importante sottolineare che si tratta di obbedienza e che è proprio l'obbedienza che dà libertà. Il tempo moderno ha parlato della liberazione dell'uomo, della sua piena autonomia, quindi anche della liberazione dall'obbedienza a Dio. L'obbedienza non dovrebbe più esserci, l'uomo è libero, è autonomo: nient'altro. Ma questa autonomia è una menzogna: è una menzogna ontologica, perché l'uomo non esiste da se stesso e per se stesso, ed è anche una menzogna politica e pratica, perché la collaborazione, la condivisione della libertà è necessaria. E se Dio non esiste, se Dio non è un'istanza accessibile all'uomo, rimane come suprema istanza solo il consenso della maggioranza. Di conseguenza, il consenso della maggioranza diventa l'ultima parola alla quale dobbiamo obbedire. E questo consenso — lo sappiamo dalla storia del secolo scorso — può essere anche un “consenso nel male”.

Così vediamo che la cosiddetta autonomia non libera veramente l'uomo. L'obbedienza verso Dio è la libertà, perché è la verità, è l'istanza che si pone di fronte a tutte le istanze umane. Nella storia dell'umanità queste parole di Pietro e di Socrate sono il vero faro della liberazione dell'uomo, che sa vedere Dio e, in nome di Dio, può è deve obbedire non tanto agli uomini, ma a Lui e liberarsi, così, dal positivismo dell'obbedienza umana. Le dittature sono state sempre contro questa obbedienza a Dio. La dittatura nazista, come quella marxista, non possono accettare un Dio che sia al di sopra del potere ideologico; e la libertà dei martiri, che riconoscono Dio, proprio nell’obbedienza al potere divino, è sempre l'atto di liberazione nel quale giunge a noi la libertà di Cristo.

Oggi, grazie a Dio, non viviamo sotto dittature, ma esistono forme sottili di dittatura: un conformismo che diventa obbligatorio, pensare come pensano tutti, agire come agiscono tutti, e le sottili aggressioni contro la Chiesa, o anche quelle meno sottili, dimostrano come questo conformismo possa realmente essere una vera dittatura. Per noi vale questo: si deve obbedire più a Dio che agli uomini. Ma ciò suppone che conosciamo veramente Dio e che vogliamo veramente obbedire a Lui. Dio non è un pretesto per la propria volontà, ma è realmente Lui che ci chiama e ci invita, se fosse necessario, anche al martirio. Perciò, confrontati con questa parola che inizia una nuova storia di libertà nel mondo, preghiamo soprattutto di conoscere Dio, di conoscere umilmente e veramente Dio e, conoscendo Dio, di imparare la vera obbedienza che è il fondamento della libertà umana.

Scegliamo una seconda parola dalla Prima Lettura: san Pietro dice che Dio ha innalzato Cristo alla sua destra come capo e salvatore (cfr v. 31). Capo è traduzione del termine greco archegos, che implica una visione molto più dinamica: archegos è colui che mostra la strada, che precede, è un movimento, un movimento verso l'alto. Dio lo ha innalzato alla sua destra - quindi parlare di Cristo come archegos vuol dire che Cristo cammina avanti a noi, ci precede, ci mostra la strada. Ed essere in comunione con Cristo è essere in un cammino, salire con Cristo, è sequela di Cristo, è questa salita in alto, è seguire l'archegos, colui che è già passato, che ci precede e ci mostra la strada.

Qui, evidentemente, è importante che ci venga detto dove arriva Cristo e dove dobbiamo arrivare anche noi: hypsosen - in alto - salire alla destra del Padre. Sequela di Cristo non è soltanto imitazione delle sue virtù, non è solo vivere in questo mondo, per quanto ci è possibile, simili a Cristo, secondo la sua parola, ma è un cammino che ha una meta. E la meta è la destra del Padre. C'è questo cammino di Gesù, questa sequela di Gesù che termina alla destra del Padre. All'orizzonte di tale sequela appartiene tutto il cammino di Gesù, anche l'arrivare alla destra del Padre.

In questo senso la meta di questo cammino è la vita eterna alla destra del Padre in comunione con Cristo. Noi oggi abbiamo spesso un po' paura di parlare della vita eterna. Parliamo delle cose che sono utili per il mondo, mostriamo che il Cristianesimo aiuta anche a migliorare il mondo, ma non osiamo dire che la sua meta è la vita eterna e che da tale meta vengono poi i criteri della vita. Dobbiamo capire di nuovo che il Cristianesimo rimane un “frammento” se non pensiamo a questa meta, che vogliamo seguire l'archegos all'altezza di Dio, alla gloria del Figlio che ci fa figli nel Figlio e dobbiamo di nuovo riconoscere che solo nella grande prospettiva della vita eterna il Cristianesimo rivela tutto il senso. Dobbiamo avere il coraggio, la gioia, la grande speranza che la vita eterna c'è, è la vera vita e da questa vera vita viene la luce che illumina anche questo mondo.

Se si può dire che, anche prescindendo dalla vita eterna, dal Cielo promesso, è meglio vivere secondo i criteri cristiani, perché vivere secondo la verità e l'amore, anche se sotto tante persecuzioni, è in sé stesso bene ed è meglio di tutto il resto, è proprio questa volontà di vivere secondo la verità e secondo l'amore che deve anche aprire a tutta la larghezza del progetto di Dio con noi, al coraggio di avere già la gioia nell'attesa della vita eterna, della salita seguendo il nostro archegos. E Soter è il Salvatore, che ci salva dall'ignoranza, cerca le cose ultime. Il Salvatore ci salva dalla solitudine, ci salva da un vuoto che rimane nella vita senza l'eternità, ci salva dandoci l'amore nella sua pienezza. Egli è la guida. Cristo, l'archegos, ci salva dandoci la luce, dandoci la verità, dandoci l'amore di Dio.

Poi soffermiamoci ancora su un versetto: Cristo, il Salvatore, ha dato a Israele conversione e perdono dei peccati (v. 31) - nel testo greco il termine è metanoia - ha dato penitenza e perdono dei peccati. Questa per me è un'osservazione molto importante: la penitenza è una grazia. C'è una tendenza in esegesi che dice: Gesù in Galilea avrebbe annunciato una grazia senza condizione, assolutamente incondizionata, quindi anche senza penitenza, grazia come tale, senza precondizioni umane. Ma questa è una falsa interpretazione della grazia. La penitenza è grazia; è una grazia che noi riconosciamo il nostro peccato, è una grazia che conosciamo di aver bisogno di rinnovamento, di cambiamento, di una trasformazione del nostro essere. Penitenza, poter fare penitenza, è il dono della grazia. E devo dire che noi cristiani, anche negli ultimi tempi, abbiamo spesso evitato la parola penitenza, ci appariva troppo dura. Adesso, sotto gli attacchi del mondo che ci parlano dei nostri peccati, vediamo che poter fare penitenza è grazia. E vediamo che è necessario far penitenza, cioè riconoscere quanto è sbagliato nella nostra vita, aprirsi al perdono, prepararsi al perdono, lasciarsi trasformare. Il dolore della penitenza, cioè della purificazione, della trasformazione, questo dolore è grazia, perché è rinnovamento, è opera della misericordia divina. E così queste due cose che dice san Pietro — penitenza e perdono — corrispondono all'inizio della predicazione di Gesù: metanoeite, cioè convertitevi (cfr Mc 1,15). Quindi questo è il punto fondamentale: la metanoia non è una cosa privata, che parrebbe sostituita dalla grazia, ma la metanoia è l'arrivo della grazia che ci trasforma.

E infine una parola del Vangelo, dove ci viene detto che chi crede avrà la vita eterna (cfr Gv 3,36). Nella fede, in questo “trasformarsi” che la penitenza dona, in questa conversione, in questa nuova strada del vivere, arriviamo alla vita, alla vera vita. E qui mi vengono in mente due altri testi. Nella “Preghiera sacerdotale” il Signore dice: questa è la vita, conoscere te e il tuo consacrato (cfr Gv 17,3). Conoscere l'essenziale, conoscere la Persona decisiva, conoscere Dio e il suo Inviato è vita, vita e conoscenza, conoscenza di realtà che sono la vita. E l'altro testo è la risposta del Signore ai Sadducei circa la Risurrezione, dove, dai libri di Mosè, il Signore prova il fatto della Risurrezione dicendo: Dio è il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe (cfr Mt 22,31-32; Mc 12,26-27; Lc 20,37-38). Dio non è Dio dei morti. Se Dio è Dio di questi, sono vivi. Chi è scritto nel nome di Dio partecipa alla vita di Dio, vive. E così credere è essere iscritti nel nome di Dio. E così siamo vivi. Chi appartiene al nome di Dio non è un morto, appartiene al Dio vivente. In questo senso dovremmo capire il dinamismo della fede, che è un iscrivere il nostro nome nel nome di Dio e così un entrare nella vita.

Preghiamo il Signore perché questo succeda e realmente, con la nostra vita, conosciamo Dio, perché il nostro nome entri nel nome di Dio e la nostra esistenza diventi vera vita: vita eterna, amore e verità.

© Copyright 2010 - Libreria Editrice Vaticana

--------------------------------------------------------------------------------------
Servizio di Roberta Gisotti della Radio Vaticana

Benedetto XVI alla Messa per la Commissione biblica:
l’obbedienza a Dio rende l’uomo davvero libero, anche di opporsi alla dittatura del conformismo

Il primato dell’obbedienza a Dio ed il vero significato della penitenza e del perdono, nella vita dei cristiani: ne ha parlato stamane Benedetto XVI nell’omelia della Messa celebrata, nella Cappella Paolina in Vaticano, con i membri della Pontificia Commissione Biblica.
Il servizio di Roberta Gisotti Radio Vaticana:

“L’obbedienza a Dio ha il primato”, ha ricordato il Papa, richiamando le parole di San Pietro davanti al Sinedrio: “Bisogna obbedire a Dio invece che agli uomini”. “L’obbedienza a Dio” dà dunque a Pietro la libertà di opporsi alla suprema istituzione religiosa. Parimenti, Socrate davanti al Tribunale di Atene, che gli offre la libertà a patto di non ricercare più Dio, non deve obbedire a questi giudici, comprare la sua vita perdendo se stesso, ma deve obbedire a Dio. Obbedienza a Dio “che dà libertà”. Al contrario nei tempi moderni – ha osservato Benedetto XVI – si è teorizzata la liberazione dell’uomo, anche dall’obbedienza a Dio: l’uomo sarebbe libero, autonomo, e nient’altro.

“Ma questa autonomia è una menzogna, una menzogna ontologica, perché l’uomo non esiste da se stesso e per se stesso; è una menzogna politica e pratica, perché la collaborazione e la condivisione delle libertà è necessaria e se Dio non esiste, se Dio non è un’istanza accessibile all’uomo, rimane come suprema istanza solo il consenso della maggioranza. Poi il consenso della maggioranza diventa l’ultima parola alla quale dobbiamo obbedire e questo consenso – lo sappiamo dalla storia del secolo scorso – può essere anche un consenso nel male. Cosi vediamo che la cosiddetta autonomia non libera l’uomo”.

“Le dittature sono state sempre contro questa obbedienza a Dio”, ha sottolineato il Papa.

“La dittatura nazista, come quella marxista, non possono accettare un Dio sopra il potere ideologico, e la libertà dei martiri, che riconoscono Dio… è sempre l’atto della liberazione, nel quale arriva la libertà di Cristo a noi”.

Oggi, grazie a Dio, - ha proseguito Benedetto XVI - non viviamo in dittature, ma esistono forme sottili di dittature.

“Un conformismo, per cui diventa obbligatorio pensare come pensano tutti, agire come agiscono tutti, e la sottile aggressione contro la Chiesa, o anche meno sottile, dimostrano come questo conformismo può realmente essere una vera dittatura”.

Per i cristiani – ha aggiunto Benedetto XVI - obbedire più a Dio che agli uomini, suppone però conoscere veramente Dio e voler veramente obbedire, e che Dio non sia pretesto per la propria volontà, ma che sia realmente Dio che invita, in caso necessario, anche al martirio.

“Noi oggi abbiamo spesso un po’ paura di parlare della vita eterna. Parliamo delle cose che sono utili per il mondo, mostriamo che il cristianesimo aiuta anche a migliorare il mondo, ma che la sua meta sia la vita eterna e che dalla meta vengano poi i criteri della vita, non osiamo dirlo”.

Allora – ha sollecitato il Papa – dobbiamo invece avere il coraggio, la gioia, la grande speranza che la vita eterna c’è, che è la vera vita e che da questa vera vita viene la luce che illumina anche questo mondo.

In tale prospettiva “la penitenza è una grazia”, grazia che noi riconosciamo il nostro peccato, che riconosciamo di aver bisogno di rinnovamento, di cambiamento, di una trasformazione del nostro essere.

“Devo dire che noi cristiani, anche negli ultimi tempi, abbiamo spesso evitato la parola penitenza, che ci aparriva troppo dura. Adesso sotto gli attacchi del mondo che ci parlano dei nostri peccati, vediamo che poter far penitenza è grazia e vediamo come sia necessario fare penitenza, riconoscere cioè ciò che è sbagliato nella nostra vita. Aprirsi al perdono, prepararsi al perdono, lasciarsi trasformare. Il dolore della penitenza, cioè della purificazione e della trasformazione, questo dolore è grazia, perché è rinnovamento, è opera della Misericordia divina”.

Preghiamo, ha concluso Benedetto XVI, che il nostro nome entri nel nome di Dio e la nostra vita diventi vera vita, vita eterna, amore e verità.