martedì 31 agosto 2010

Il relatore monsignor Koch racconta.......


Il relatore monsignor Koch racconta l'esperienza dell'incontro a Castel Gandolfo

Un dibattito vivace e ricco di interventi

"Fedeltà alla tradizione, apertura al futuro: è l'interpretazione più corretta del concilio Vaticano II, che resta la magna charta della Chiesa anche nel terzo millennio". È quanto è emerso nel cosiddetto Ratzinger Schülerkreis secondo l'arcivescovo Kurt Koch, relatore principale all'incontro del Papa con i suoi ex allievi svoltosi dal 27 al 30 agosto a Castel Gandolfo. Al nostro giornale il nuovo Presidente del Pontificio Consiglio per la Promozione dell'Unità dei Cristiani parla di "un'esperienza concreta, vivace, positiva" e riassume i contenuti delle due relazioni tenute sabato 28 agosto.

"Nella prima - dice - ho proposto una riflessione su come leggere e interpretare il concilio Vaticano II, indicando la priorità di una ermeneutica di riforma". Una "questione che ho ripreso e sviluppato nella seconda relazione, approfondendo in particolare la Costituzione Sacrosanctum concilium sulla liturgia, proprio per mostrare in concreto come si possa realizzare un'ermeneutica di riforma". Alle due relazioni, spiega, "è seguito un dibattito di oltre un'ora, molto interessante e ricco di contributi significativi". Secondo monsignor Koch "si è potuto cogliere come sia fondamentale la dimensione spirituale della vita cristiana, in ogni aspetto. E questo vale, dal mio punto di vista, anche nel dialogo ecumenico che costituisce il campo di lavoro più diretto davanti a me". Proprio "la concretezza ha reso il dibattito molto utile per il lavoro di ciascuno". A confermarlo le parole di incoraggiamento che gli ha rivolto personalmente Benedetto XVI nell'udienza privata del 30 agosto. "Abbiamo parlato - dice l'arcivescovo - di questa mia nuova sfida ecumenica perché il Pontificio Consiglio per la Promozione dell'Unità dei Cristiani non è una realtà a se stante ma ha un mandato del Papa per vedere come il dialogo possa svilupparsi in futuro".

Entrando nel dettaglio delle sue due relazioni, monsignor Koch spiega che la prima, centrata sul "concilio Vaticano II tra tradizione e innovazione", è stata articolata in sette punti: "una storia di ricezione e non ricezione; ermeneutica di riforma in una continuità fondamentale; rottura della tradizione del concilio?; ritorno alle fonti e aggiornamento; criteri di una ermeneutica della riforma (interpretazione integrale dei testi conciliari, unità di dogmatica e pastorale, nessuna divisione fra spirito e lettera); ampiezza e pienezza cattoliche; l'eredità del concilio nelle sfide attuali; riforma ecclesiale come compito spirituale". Per la seconda relazione, sulla "riforma postconciliare della liturgia tra continuità e discontinuità", monsignor Koch ha seguito uno schema di otto tematiche. "Sono partito - spiega - dalla constatazione che la liturgia è il punto cruciale dell'ermeneutica conciliare, per poi trattare la fenomenologia e la teologia della liturgia; la liturgia nel suo sviluppo organico (con il principio della partecipazione attiva di tutti i fedeli alla liturgia e il principio di una più facile comprensibilità e semplicità dei riti); luci e ombre nella liturgia post-conciliare; la tutela del grande patrimonio della liturgia; la necessaria riforma della riforma, basata sul primato cristologico, l'unità di culto neotestamentario e la liturgia neotestamentaria, la liturgia cristiana e le religioni dell'umanità, la dimensione cosmica della liturgia. Infine, la rivitalizzazione del mistero pasquale è stata l'ultima tematica presentata prima delle conclusioni".

(©L'Osservatore Romano - 1 settembre 2010)

Benedetto XVI torna a farsi interrogare sulla fede - 31 agosto 2010


B-XVI torna a farsi interrogare sulla fede
dal tedesco Peter Seewald

Notizia beneaugurale e sorprendente: Benedetto XVI ha deciso di tornare a farsi intervistare dal giornalista e scrittore tedesco Peter Seewald in un libro di riflessioni sulla chiesa e la fede in rapporto alla società contemporanea.

Secondo fonti tedesche confermate da un articolo in uscita oggi sulla Tagespost, Seewald ha già incontrato più volte il Papa nelle scorse settimane tanto che lo schema del libro dovrebbe essere stato più o meno deciso. Era il 1996 quando l’allora cardinale Joseph Ratzinger si prestava a uno sforzo analogo: dava alle stampe “Il sale della terra”, una lunga intervista concessa sempre a Seewald e anch’essa dedicata al rapporto tra chiesa cattolica e società contemporanea.

Qualche settimana fa su “Inside the Vatican” il cardinale bibliotecario di Santa romana chiesa, Raffaele Farina, rivelò un particolare inedito di Ratzinger: quando era cardinale chiese a Wojtyla di lasciare la Dottrina delle fede per andare a dirigere la biblioteca vaticana. La cosa non gli fu concessa ma anche oggi, da Papa, Ratzinger non rinuncia a immergersi nelle letture e a scrivere. Terminata da poco la seconda parte del libro su Gesù di Nazaret, Papa Benedetto sorprende trovando il tempo per nuovi lavori: la terza parte del libro su Gesù, l’impianto di una nuova enciclica e adesso un libro intervista con Seewald, probabilmente il giornalista al quale si sente più vicino e legato.

Chi conosce bene il Papa dice che il motivo per il quale ha deciso di lavorare ancora una volta a un libro intervista è il medesimo che lo spinse a fare la medesima cosa nel 1996. Disse il Papa: “Oggi sembra spesso che la schiera di coloro che frequentano ancora la messa, partecipano alle processioni e si esprimono positivamente nei confronti della chiesa, sia vista dalla maggioranza come un gruppetto esotico. E persino questo ultimo resto deve avere sempre di più l’impressione di vivere, con le proprie idee cristiane, in una realtà che non ha più nulla a che fare con il mondo nel quale loro vivono quotidianamente. Ma, allora, il processo di decadenza non è forse già più drammatico di quanto si possa credere?”.

Un secondo motivo è ravvisabile tra le righe del suo pontificato: “Non si governa la chiesa solo mediante comandi e strutture, ma guidando e illuminando le anime”, ha ripetuto più volte Benedetto XVI. Il suo allontanamento dalla macchina del governo sembra voluto, studiato, ricercato. Non sembra disprezzo per l’arte del governo, quanto amore verso la chiesa la quale, secondo il suo punto di vista, necessita di illuminazione prima che d’altro.

Pubblicato sul Foglio martedì 31 agosto 2010

Messa tridentina a S. Domenico di Bologna in ricordo di Padre Tomas Tyn - 19 giugno 2010


Messa tridentina a S. Domenico di Bologna
in ricordo di Padre Tomas Tyn

Nella splendida cornice della cappella della basilica bolognese di S. Domenico, che custodisce in una secolare e ricchissima arca le sacre reliquie del Fondatore dell’Ordine dei Predicatori, sabato 12 giungo scorso il Padre domenicano Vincenzo Nuara, membro della commissione pontificia “Ecclesia Dei”, incaricata di promuovere l’applicazione del Motu proprio “Summorum Pontificum”, ha celebrato una Santa Messa di rito romano antico circondato da un gruppo di ferventi ministranti, con la partecipazione di un coro liturgico gregoriano di Cremona, alla presenza di Mons. Massimo Nanni, arcidiacono della Cattedrale ed ex-cerimoniere del Card. Giacomo Biffi, già arcivescovo di Bologna, e di un folto gruppo di fedeli giunti anche da fuori Bologna.

La celebrazione è stata caratterizzata, secondo la sua propria natura, da un succedersi di lunghi mistici silenzi, alternati dalla sublimità del canto gregoriano e da un raro intercalare di brevi formule tra sacerdote e fedeli.

Bellezza propria di questo Rito è quella di creare un’atmosfera per la quale, almeno per chi sa intendere, ci si sente umilmente e veramente alla presenza della divina Maestà e si avverte quasi sperimentalmente che un ineffabile Mistero d’Amore e di Misericordia avviene sull’altare per opera del sacerdote congiuntamente ai fedeli.

Qualunque tentazione di protagonismo nel sacerdote o di assemblearismo nei fedeli è completamente esclusa. Non è una Messa “dal basso”, ma una Messa “dall’alto”. Solo la Presenza e l’Azione del Mistero balzano in primo piano. Si sente che avviene qualcosa di Sacro. E’ una Messa che sa evocare il timor Domini, senza per questo abdicare in nulla alla filiale confidenza nel Padre per mezzo di Cristo nello Spirito Santo. Ovviamente tutto questo è percepito solo in un clima di fede.

La gioia che emana da questo Rito non è quella secolaresca di certe celebrazioni oggi non infrequenti, ma sorge da una cosciente e sofferta partecipazione al Sacrificio di Cristo, attualizzato sull’altare in un clima di ascolto, di compunzione, di raccoglimento, di adorazione, di lode e di preghiera.

La Santa Messa era stata organizzata dalla Vicepostulazione della Causa di Beatificazione del Servo di Dio Padre Tomas Tyn, già membro della comunità dell’annesso convento di S. Domenico, nel ricordo del XX anniversario del suo pio transito avvenuto nel 1990 in Germania.

Infatti il Padre Tyn per alcuni anni celebrò periodicamente in S. Domenico la Messa tridentina dietro richiesta dell’allora Arcivescovo Card. Biffi, al quale si era rivolto un gruppo di fedeli desiderosi di assistere a tale Rito.

Dopo la morte del Padre Tyn, la Messa tridentina continuò ad essere celebrata per alcuni anni. Erano quindi circa quindici anni che questo antico e illustre Rito, almeno come Messa ufficiale d’orario, non veniva celebrato in S. Domenico.

Nel suo breve discorso d’introduzione alla S.Messa, il Vicepostulatore P. Giovanni Cavalcoli, dopo aver presentato i motivi e l’occasione dell’iniziativa, ha accennato al fatto che Padre Tyn celebrava con pari devozione entrambe le forme di Rito della Messa, quella ordinaria e quella straordinaria, per cui ha proposto la sua figura come fattore di conciliazione ed armonia tra quei devoti dei due tipi di Messa, che sono propensi ad ingiustificati esclusivismi reciproci.

Dal canto suo, il Padre Nuara nella sua omelia ha fatto notare il valore e la bellezza della Messa tridentina, sottolineando come in essa si esprime in modo molto efficace la comune elevazione dello spirito del sacerdote dei fedeli a Dio citando le parole del celebrante “Sursum corda”, alle quali i fedeli rispondono: “Habemus ad Dominum”. La Messa tridentina, ha detto il celebrante, è tutta un inno di lode alla Verità, alla Bontà e alla Bellezza divine.

Inoltre Padre Nuara ha accennato a quanta sarebbe stata la gioia del Servo di Dio alla notizia del Motu proprio del Santo Padre, che liberalizza ulteriormente la celebrazione dell’antico Rito.

Infine ha commentato il brano di una lettera scritta nel 1985 dal Servo di Dio all’allora Card. Ratzinger in lode della Messa di S. Pio V, lettera che il P. Cavalcoli ha pubblicato, con la risposta del Cardinale, nel libro Padre Tomas Tyn, un tradizionalista postconciliare, Edizioni Fede&Cultura, Verona 2007.

Il Padre Nuara ha auspicato che presto Dio si degni di elevare all’onore degli altari il suo Servo Padre Tomas Tyn.

P.Giovanni Cavalcoli,OP



 


 

lunedì 30 agosto 2010

L'ennesimo congresso ... a scuola di comunicazione digitale.


Prendiamo spunto di questo ennesimo congresso promosso dal dicastero "Pontificio Consiglio delle Comunicazioni Sociali" per alcune riflessioni che ci vengono spontanee, anche in relazione all’esperienza che ci siamo fatti nel gestire il sito web Maranatha.it dal dicembre del 1999.

Di questi tempi è molto comune sentire parlare nella Chiesa Cattolica di comunicazione digitale: in questo prossimo congresso, si evidenzia: … un "mattone in più" per la realizzazione del "cortile dei gentili". Slogan che all’atto pratico non risolve niente di concreto per la nostra Chiesa, se non quello di privilegiare alcuni a fare gratuitamente il giro del mondo alle spese delle comunità:  si stampa poi un sacco di parole e dopo la festa ”gabbato lo santo”.

Sarebbe ora che i molteplici enti della Santa Sede preposti alla comunicazione digitale si preoccupassero di diffondere con maggior efficienza e in tutte le lingue estere i discorsi, omelie, messaggi, etc. del Santo Padre, il Vicario di Cristo! Tra pochi giorni ci sarà il viaggio apostolico in Inghilterra, speriamo che facciano il loro dovere. A cosa serve pubblicare in Vatican.va le parole del Santo Padre in italiano e dare un sunto di meno di dieci righe nelle lingue estere come sta succedento in questi mesi? Essere cattolico non è sinonimo di universale? E come mai che a tre anni dalla pubblicazione del Motu Prorio Summorum Pontificum, manca la traduzione in italiano, inglese, francese, portoghese, spagnola, tedesco, etc? Si evidenzia una chiara censura di diffondere le parole del Santo Padre.  Cosa aspettano questi enti della Santa Sede a diffondere sussidi filmati e cartacei per imparare a celebrare la Santa Messa nella forma straordinaria per seminaristi, sacerdoti e vescovi?


A quando poi una concreta e fattiva ubbidienza al Santo Padre Benedetto XVI ? 

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Monsignor Celli anticipa temi e prospettive del prossimo congresso promosso dal dicastero
"Pontificio Consiglio
delle Comunnicazion Sociali"

La stampa cattolica a scuola di comunicazione digitale
di Giampaolo Mattei

Il mandato di Benedetto XVI è chiaro: trasformare il multiforme pianeta digitale in un'accogliente piazza virtuale dove gli uomini possano conoscersi per dialogare, sfruttandone a pieno le potenzialità. E per rispondere al compito ricevuto dal Papa l'arcivescovo Claudio Maria Celli, presidente del Pontificio Consiglio delle Comunicazioni Sociali, ha convocato un congresso sul ruolo della stampa cattolica nell'era digitale che si svolgerà dal 4 al 7 ottobre in Vaticano.
Presentando l'incontro al nostro giornale, monsignor Celli libera il campo da ogni possibile equivoco e anticipa che dal congresso vaticano "non ci si devono aspettare chissà quali pronunciamenti, annunci di nuove strategie o chiamate alle armi". Si tratta di "un punto privilegiato di osservazione per analizzare le questioni cruciali della comunicazione cattolica a livello mondiale, in un contesto di dialogo e di apertura verso tutti". Un "mattone in più" per la realizzazione del "cortile dei gentili", per usare un'espressione del Pontefice.

Chi parteciperà al congresso?

Abbiamo chiesto a tutte le conferenze episcopali di inviare tre rappresentanti: due coinvolti direttamente nella stampa e uno nel campo di internet. Insomma non abbiamo scelto noi i partecipanti, sono le conferenze episcopali a delegare le persone che ritengono più adeguate. Ovviamente si tratta quasi esclusivamente di laici. Non mancano, però, vescovi e sacerdoti.

Come procedono le adesioni?

A oggi registriamo l'iscrizione di 58 Paesi per un totale di almeno 180 persone. Prevediamo che entro ottobre il numero crescerà, e non di poco. È un dato incoraggiante perché le conferenze episcopali hanno percepito l'importanza di ritrovarsi insieme alla ricerca di un confronto che verterà soprattutto su due tematiche: dove sta andando la stampa cattolica e su quali basi si può intavolare un dialogo con il mondo.

Sarà un incontro a numero chiuso ma non a porte chiuse, dunque.

Sì, ai lavori parteciperanno solamente i rappresentanti delle conferenze episcopali. In questi giorni stiamo ricevendo molte altre domande di iscrizione ma, con rammarico, non possiamo accoglierle.

Cosa ci si deve aspettare dal congresso?

In linea generale, l'iniziativa si inquadra nella missione di favorire nel mondo cattolico una maggiore conoscenza degli strumenti della comunicazione digitale, favorendo una visione di insieme dei problemi e delle prospettive che si aprono in questo variegato universo. In particolare, ci sarà un'attenzione specifica alla carta stampata, con una significativa apertura alle novità digitali. Del resto oggi molti giornali, anche cattolici, vengono prevalentemente consultati su internet, attraverso aggiornatissimi siti, piuttosto che letti sulla carta. Una realtà che non ci coglie impreparati. La Chiesa, nel suo approccio comunicativo ab intra e ad extra, conta già qualificate presenze su internet.

Come si articoleranno i lavori?

Partiremo subito con due tavole rotonde. Alla prima interverranno alcuni direttori di grandi giornali laici di tutto il mondo per un confronto sulle problematiche e il futuro della stampa. Il programma è ancora in via di definizione ma posso assicurare che i nomi saranno di prim'ordine. La seconda tavola rotonda farà il punto, nel dettaglio, sullo stato di salute della stampa cattolica dando voce ai direttori delle maggiori pubblicazioni cattoliche internazionali.

Una delle questioni più scottanti è quella dello spazio che sulla stampa cattolica possono trovare le cosiddette voci del dissenso.

È vero, stiamo rilevando come la questione stia già suscitando un particolare interesse. Nel congresso ci si chiederà essenzialmente se ci sono argomenti da evitare e se si deve dare voce al dissenso. Sono temi che abbracciano anche il rapporto tra comunione ecclesiale e nodi controversi, tra libertà di espressione e verità nella Chiesa. È importante vedere questi problemi sotto diverse angolazioni, esaminandoli dalle prospettive di vescovi, teologi, giornalisti, sociologi e blogger.

Sarà perciò un congresso aperto al dibattito libero.

È solo con un dialogo aperto, rispettoso, che potremo tracciare una panoramica completa e moderna della presenza cattolica nei media. Per questa ragione il programma del congresso dà ampio spazio ai gruppi di lavoro e al dibattito. Ne ho fatto esperienza, di recente, anche a New Orleans, in occasione della convention della Catholic press association. È stato stimolante il dialogo diretto, inedito, tra i giornalisti e i rappresentanti delle conferenze episcopali degli Stati Uniti d'America e del Canada.

L'ultima parte dei lavori sarà dedicata a internet.

Ci sono prospettive enormi, con nuove opportunità pastorali e le possibilità di collaborazioni. È naturale per la Chiesa interrogarsi su come affrontare le sfide del futuro con una visione globale. È chiaro che la comunicazione corre a velocità diverse: un conto è l'Europa e un altro conto è l'Africa. Lo scambio di esperienze resta un punto fondamentale per una crescita nella comunione e anche nell'efficienza della comunicazione stessa.

Come è nata l'idea di un congresso specifico sulla stampa cattolica?

È il completamento di un lavoro di analisi e approfondimento avviato da tempo dal Pontificio Consiglio. Nel 2006 a Madrid si era fatto il punto sulla realtà delle televisioni cattoliche. Nel 2007 abbiamo valorizzato la missione delle facoltà di comunicazione sociale delle università cattoliche per studiare come il mondo accademico prepara i futuri operatori nel campo dei media, puntando sui riferimenti antropologici ed etici. Quindi siamo passati a esaminare le radio cattoliche. È in questa linea che si pone il nuovo congresso.

Quali sono le regole per la stampa cattolica su internet?

C'è una sola regola ma fondamentale: sempre aperti al dialogo con rispetto. Ci siamo accorti, e ne siamo pienamente consapevoli, che le nuove tecnologie hanno dato origine a una vera e propria cultura digitale. In linea con il concilio Vaticano II si tratta di costruire un dialogo, non facile ma irrinunciabile. Il Papa ci ha chiesto di esercitare una diaconia della cultura, una vera e propria pastorale nel mondo dell'espressione digitale. Lo ha espresso chiaramente nell'ultimo messaggio per la Giornata mondiale delle comunicazioni sociali. Dunque la nostra attenzione si è spostata, a poco a poco, dai singoli mezzi di comunicazione alla prospettiva culturale che le nuove tecnologie, la cosiddetta multimedialità, hanno creato.

Come pensate di realizzare il mandato del Papa per un confronto aperto sul terreno moderno dei nuovi sistemi di comunicazione?

Benedetto XVI ha parlato di un "cortile dei gentili". Da parte nostra non lasceremo nulla di intentato per individuare sempre nuovi punti di incontro sulle grandi autostrade della comunicazione, del web, facendo in modo che gli uomini possano avere un dialogo aperto. Proprio questo genere di congressi sono occasioni di continuo aggiornamento e fonte di nuove idee. A questo proposito, importantissimo è stato il recente seminario con i vescovi responsabili per i mass media di oltre cinquanta conferenze episcopali. Cerchiamo di non perdere mai di vista le novità che i sempre più diffusi e influenti nuovi media stanno esercitando in tutto il mondo.

(©L'Osservatore Romano - 29 agosto 2010)


domenica 29 agosto 2010

LE PAROLE DEL PAPA ALLA RECITA DELL'ANGELUS - 29 agosto 2010


BENEDETTO XVI

ANGELUS

Palazzo Apostolico di Castel Gandolfo
Domenica, 29 agosto 2010

[Croato, Francese, Inglese, Italiano, Portoghese, Spagnolo, Tedesco]

Cari fratelli e sorelle,

nel Vangelo di questa domenica (Lc 14,1.7-14), incontriamo Gesù commensale nella casa di un capo dei farisei. Notando che gli invitati sceglievano i primi posti a tavola, Egli raccontò una parabola, ambientata in un banchetto nuziale. "Quando sei invitato a nozze da qualcuno, non metterti al primo posto, perché non ci sia un altro invitato più degno di te, e colui che ha invitato te e lui venga a dirti: «Cèdigli il posto!» ... Invece, quando sei invitato, va’ a metterti all’ultimo posto" (Lc 14,8-10). Il Signore non intende dare una lezione sul galateo, né sulla gerarchia tra le diverse autorità. Egli insiste piuttosto su un punto decisivo, che è quello dell’umiltà: "chiunque si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato" (Lc 14,11). Questa parabola, in un significato più profondo, fa anche pensare alla posizione dell’uomo in rapporto a Dio. L’"ultimo posto" può infatti rappresentare la condizione dell’umanità degradata dal peccato, condizione dalla quale solo l’incarnazione del Figlio Unigenito può risollevarla. Per questo Cristo stesso "ha preso l’ultimo posto nel mondo — la croce — e proprio con questa umiltà radicale ci ha redenti e costantemente ci aiuta" (Enc. Deus caritas est, 35).


Al termine della parabola, Gesù suggerisce al capo dei farisei di invitare alla sua mensa non gli amici, i parenti o i ricchi vicini, ma le persone più povere ed emarginate, che non hanno modo di ricambiare (cfr Lc 14,13-14), perché il dono sia gratuito. La vera ricompensa, infatti, alla fine, la darà Dio, "che governa il mondo ... Noi gli prestiamo il nostro servizio solo per quello che possiamo e finché Egli ce ne dà la forza" (Enc. Deus caritas est, 35). Ancora una volta, dunque, guardiamo a Cristo come modello di umiltà e di gratuità: da Lui apprendiamo la pazienza nelle tentazioni, la mitezza nelle offese, l’obbedienza a Dio nel dolore, in attesa che Colui che ci ha invitato ci dica: "Amico, vieni più avanti!" (cfr Lc 14,10); il vero bene, infatti, è stare vicino a Lui. San Luigi IX, re di Francia – la cui memoria ricorreva mercoledì scorso – ha messo in pratica ciò che è scritto nel Libro del Siracide: "Quanto più sei grande, tanto più fatti umile, e troverai grazia davanti al Signore" (3,18). Così egli scriveva nel suo "Testamento spirituale al figlio": "Se il Signore ti darà qualche prosperità, non solo lo dovrai umilmente ringraziare, ma bada bene a non diventare peggiore per vanagloria o in qualunque altro modo, bada cioè a non entrare in contrasto con Dio o offenderlo con i suoi doni stessi" ( Acta Sanctorum Augusti 5 [1868], 546).

Martirio di San Giovanni Battista
Cari amici, oggi ricordiamo anche il martirio di san Giovanni Battista, il più grande tra i profeti di Cristo, che ha saputo rinnegare se stesso per fare spazio al Salvatore, e ha sofferto ed è morto per la verità. Chiediamo a lui e alla Vergine Maria di guidarci sulla via dell’umiltà, per diventare degni della ricompensa divina.


Dopo l'Angelus

Il prossimo 1° settembre si celebra in Italia la Giornata per la salvaguardia del creato, promossa dalla Conferenza Episcopale Italiana. E’ un appuntamento ormai abituale, importante anche sul piano ecumenico. Quest’anno ci ricorda che non ci può essere pace senza rispetto dell’ambiente. Abbiamo infatti il dovere di consegnare la terra alle nuove generazioni in uno stato tale che anch’esse possano degnamente abitarla e ulteriormente conservarla. Il Signore ci aiuti in questo compito!

Je vous accueille avec joie, chers pèlerins francophones! En ce dimanche, les textes liturgiques mettent en évidence l’inestimable grandeur de l’humilité. Se laissant instruire par la Sagesse divine, celui qui est humble dirige son regard vers Dieu et cherche la vérité en toute chose. Il aspire aussi à la beauté d’une vie authentique. Confions à Marie, l’humble Servante du Seigneur et Mère du Verbe incarné, notre désir de marcher à la suite de son Fils. A tous je souhaite un bon dimanche et une bonne semaine!

I am pleased to greet the English-speaking visitors here today, especially the group of students from the Pontifical North American College. I pray that all of you, whether you are here on holiday or on pilgrimage or pursuing studies in Rome, will be able to draw closer to the Lord in prayer and thanksgiving. May God bestow abundant blessings upon all of you, and upon your families and loved ones at home.

Von Herzen grüße ich die deutschsprachigen Gäste, besonders die Pilger aus Neustift. Die Lesungen des heutigen Sonntags sprechen von der Demut. Christus rückt unsere irdischen Vorstellungen zurecht: Vor Gott zählt nicht das menschlich Große, sondern das Geringe, das Verachtete. Nicht die Selbstherrlichkeit macht den Menschen groß, sondern das Leben nach Gottes Willen und die Gemeinschaft mit ihm. Nehmen wir uns dabei die Heiligen zum Vorbild! Gottes Geist begleite euch!

Al saludar cordialmente a los peregrinos de lengua española que participan en esta oración mariana, quisiera recordar con particular afecto a los mineros que se encuentran atrapados en el yacimiento de san José, en la región chilena de Atacama. A ellos y a sus familiares los encomiendo a la intercesión de San Lorenzo, asegurándoles mi cercanía espiritual y mis continuas oraciones, para que mantengan la serenidad en la espera de una feliz conclusión de los trabajos que se están llevando a cabo para su rescate. Y a todos os invito a acoger hoy la Palabra de Cristo, para crecer en fe, humildad y generosidad. Feliz domingo.

Serdecznie witam obecnych tu Polaków. Dzisiejsza liturgia wzywa nas wszystkich do pokory. Polega ona na znajomoÿci swojego miejsca w spoÿeczeÿstwie, ale teÿw planach Boÿych. „O ile wielki jesteÿ, o tyle siÿuniÿaj, a znajdziesz ÿaskÿu Pana. Wielka jest bowiem potÿga Pana". Praktykowanie cnoty pokory niech nas zbliÿa do ludzi i do Boga. Niech Bóg wam bÿogosÿawi!

[Do un cordiale benvenuto ai polacchi qui presenti. La liturgia odierna ci chiama tutti all’umiltà. Essa consiste nella conoscenza del proprio posto nella società e nei disegni di Dio. "Quanto più sei grande, tanto più umiliati; così troverai grazia davanti al Signore; perché grande è la potenza del Signore". La pratica della virtù dell’umiltà ci avvicini agli uomini e a Dio. Dio vi benedica!]

Infine, saluto di cuore i pellegrini di lingua italiana, in particolare il gruppo di Cooperatori Paolini; i numerosi ragazzi che hanno ricevuto la Cresima o la riceveranno: da Boccaleone, da Arcene e dalle diocesi di Vicenza e di Padova; la Confraternita del SS.mo Sacramento di Bariano; i fedeli provenienti dalla diocesi di Verona e da Santo Stefano Ticino; e i ragazzi di Grassobbio. Saluto anche il gruppo golfistico venuto da Milano e quello ciclistico di Nave. A tutti auguro una buona domenica.

© Copyright 2010 - Libreria Editrice Vaticana

sabato 28 agosto 2010

Papa Benedetto XVI con i suoi ex allievi sull’interpretazione del Concilio Vaticano II


Seconda giornata dell’incontro del Papa Benedetto XVI
con i suoi ex allievi
sull’interpretazione del Concilio Vaticano II

Seconda giornata, al Centro Mariapoli di Castel Gandolfo, del Ratzinger Schülerkreis, il tradizionale incontro estivo degli studenti di Benedetto XVI. Tema dell’incontro, a porte chiuse, al quale prende parte anche il Papa, è quest’anno l’ermeneutica, ovvero l’interpretazione, del Concilio Vaticano II. Il momento culminante della riunione sarà la Messa presieduta domani mattina dal Pontefice al Centro Congressi Mariapoli. Riascoltiamo alcuni pensieri di Benedetto XVI sull’ermeneutica del Concilio, nel servizio di Alessandro Gisotti.

Qual è la giusta ermeneutica, la “giusta chiave di lettura e di applicazione” del Concilio Vaticano II? Benedetto XVI sottolinea che la risposta a questo interrogativo ci aiuta a comprendere perché la recezione del Concilio si sia svolta in modo così difficile in grandi parti della Chiesa. Ciò, avverte il Papa, deriva da una “ermeneutica della discontinuità” secondo la quale occorrerebbe seguire “non i testi del Concilio, ma il suo spirito”. Con ciò però, spiega il Papa, si fraintende la natura di un Concilio come tale. Esso infatti verrebbe considerato come una specie di Costituente, “che elimina una costituzione vecchia e ne crea una nuova”. Ma la Costituente, prosegue, ha bisogno di un mandante, il popolo, e di una conferma dello stesso:

“I Padri non avevano un tale mandato e nessuno lo aveva mai dato loro; nessuno, del resto, poteva darlo, perché la costituzione essenziale della Chiesa viene dal Signore e ci è stata data affinché noi possiamo raggiungere la vita eterna e, partendo da questa prospettiva, siamo in grado di illuminare anche la vita nel tempo e il tempo stesso”. (Discorso alla Curia Romana, 22 dicembre 2005)

A questa ermeneutica della discontinuità, osserva Benedetto XVI, “si oppone l’ermeneutica della riforma”, a cui si riferì Giovanni XXIII proprio nel suo discorso d’apertura del Concilio, l’11 ottobre 1962. Papa Roncalli ribadiva infatti che il Concilio “vuole trasmettere pura ed integra la dottrina senza attenuazioni o travisamenti” e che dovere dei Padri conciliari è non solo custodire il deposito della fede, ma anche approfondirlo e presentarlo “in modo che corrisponda alle esigenze del nostro tempo”. Ecco allora, afferma il Papa, che è nell’ “insieme di continuità e discontinuità” che possiamo vedere la natura della vera riforma del Concilio:

“In questo processo di novità nella continuità dovevamo imparare a capire più concretamente di prima che le decisioni della Chiesa riguardanti cose contingenti – per esempio, certe forme concrete di liberalismo o di interpretazione liberale della Bibbia – dovevano necessariamente essere esse stesse contingenti, appunto perché riferite a una determinata realtà in se stessa mutevole”. (Discorso alla Curia Romana, 22 dicembre 2005)

Per questo, è la riflessione del Pontefice, bisogna imparare a riconoscere che, in tali decisioni, “solo i principi esprimono l’aspetto duraturo”. Così, avverte, “le decisioni di fondo possono restare valide, mentre le forme della loro applicazione a contesti nuovi possono cambiare”:

“Così, ad esempio, se la libertà di religione viene considerata come espressione dell'incapacità dell'uomo di trovare la verità e di conseguenza diventa canonizzazione del relativismo, allora essa da necessità sociale e storica è elevata in modo improprio a livello metafisico ed è così privata del suo vero senso, con la conseguenza di non poter essere accettata da colui che crede che l'uomo è capace di conoscere la verità di Dio e, in base alla dignità interiore della verità, è legato a tale conoscenza”. (Discorso alla Curia Romana, 22 dicembre 2005)

In definitiva, sottolinea Benedetto XVI, il “passo fatto dal Concilio verso l’età moderna” appartiene in definitiva "al perenne problema del rapporto tra fede e ragione”. Adesso, conclude, “questo dialogo è da sviluppare con grande apertura mentale, ma anche con quella chiarezza nel discernimento degli spiriti che il mondo con buona ragione aspetta” dalla Chiesa in questo momento:

“Così possiamo oggi con gratitudine volgere il nostro sguardo al Concilio Vaticano II: se lo leggiamo e recepiamo guidati da una giusta ermeneutica, esso può essere e diventare sempre di più una grande forza per il sempre necessario rinnovamento della Chiesa”. (Discorso alla Curia Romana, 22 dicembre 2005)

© Copyright Radio Vaticana

Discorso del Santo Padre Benedetto XVI alla Curia Romana, 22 dicembre 2005


DISCORSO DI SUA SANTITÀ BENEDETTO XVI
ALLA CURIA ROMANA IN OCCASIONE
DELLA PRESENTAZIONE DEGLI AUGURI NATALIZI

Giovedì, 22 dicembre 2005


Signori Cardinali,
venerati Fratelli nell’Episcopato e nel Presbiterato,
cari fratelli e sorelle!


“Expergiscere, homo: quia pro te Deus factus est homo - Svegliati, uomo, poiché per te Dio si è fatto uomo” (S. Agostino, Discorsi, 185). Con quest’invito di Sant’Agostino a cogliere il senso autentico del Natale di Cristo, apro il mio incontro con voi, cari collaboratori della Curia Romana, in prossimità ormai delle festività natalizie. A ciascuno rivolgo il mio saluto più cordiale, ringraziandovi per i sentimenti di devozione e di affetto, di cui si è fatto efficace interprete il Cardinale Decano, al quale va il mio pensiero riconoscente. Iddio si è fatto uomo per noi: è questo il messaggio che ogni anno dalla silenziosa grotta di Betlemme si diffonde sin nei più sperduti angoli della terra. Il Natale è festa di luce e di pace, è giorno di interiore stupore e di gioia che si espande nell’universo, perché “Dio si è fatto uomo”. Dall’umile grotta di Betlemme l’eterno Figlio di Dio, divenuto piccolo Bambino, si rivolge a ciascuno di noi: ci interpella, ci invita a rinascere in lui perché, insieme a lui, possiamo vivere eternamente nella comunione della Santissima Trinità.

Con il cuore colmo della gioia che deriva da questa consapevolezza, riandiamo col pensiero alle vicende dell’anno che volge al suo tramonto. Stanno alle nostre spalle grandi avvenimenti, che hanno segnato profondamente la vita della Chiesa. Penso innanzitutto alla dipartita del nostro amato Santo Padre Giovanni Paolo II, preceduta da un lungo cammino di sofferenza e di graduale perdita della parola. Nessun Papa ci ha lasciato una quantità di testi pari a quella che ci ha lasciato lui; nessun Papa in precedenza ha potuto visitare, come lui, tutto il mondo e parlare in modo diretto agli uomini di tutti i continenti. Ma, alla fine, gli è toccato un cammino di sofferenza e di silenzio. Restano indimenticabili per noi le immagini della Domenica delle Palme quando, col ramo di olivo nella mano e segnato dal dolore, egli stava alla finestra e ci dava la benedizione del Signore in procinto di incamminarsi verso la Croce. Poi l'immagine di quando nella sua cappella privata, tenendo in mano il Crocifisso, partecipava alla Via Crucis nel Colosseo, dove tante volte aveva guidato la processione portando egli stesso la Croce. Infine la muta benedizione della Domenica di Pasqua, nella quale, attraverso tutto il dolore, vedevamo rifulgere la promessa della risurrezione, della vita eterna. Il Santo Padre, con le sue parole e le sue opere, ci ha donato cose grandi; ma non meno importante è la lezione che ci ha dato dalla cattedra della sofferenza e del silenzio. Nel suo ultimo libro “Memoria e Identità” (Rizzoli 2005) ci ha lasciato un’interpretazione della sofferenza che non è una teoria teologica o filosofica, ma un frutto maturato lungo il suo personale cammino di sofferenza, da lui percorso col sostegno della fede nel Signore crocifisso. Questa interpretazione, che egli aveva elaborato nella fede e che dava senso alla sua sofferenza vissuta in comunione con quella del Signore, parlava attraverso il suo muto dolore trasformandolo in un grande messaggio. Sia all'inizio come ancora una volta alla fine del menzionato libro, il Papa si mostra profondamente toccato dallo spettacolo del potere del male che, nel secolo appena terminato, ci è stato dato di sperimentare in modo drammatico. Dice testualmente: “Non è stato un male in edizione piccola… È stato un male di proporzioni gigantesche, un male che si è avvalso delle strutture statali per compiere la sua opera nefasta, un male eretto a sistema" (pag. 198). Il male è forse invincibile? È la vera ultima potenza della storia? A causa dell'esperienza del male, la questione della redenzione, per Papa Woytiła, era diventata l'essenziale e centrale domanda della sua vita e del suo pensare come cristiano. Esiste un limite contro il quale la potenza del male s'infrange? Sì, esso esiste, risponde il Papa in questo suo libro, come anche nella sua Enciclica sulla redenzione. Il potere che al male mette un limite è la misericordia divina. Alla violenza, all'ostentazione del male si oppone nella storia – come “il totalmente altro” di Dio, come la potenza propria di Dio – la divina misericordia. L'agnello è più forte del drago, potremmo dire con l'Apocalisse.

Alla fine del libro, nello sguardo retrospettivo sull'attentato del 13 maggio 1981 ed anche sulla base dell'esperienza del suo cammino con Dio e con il mondo, Giovanni Paolo II ha approfondito ulteriormente questa risposta. Il limite del potere del male, la potenza che, in definitiva, lo vince è – così egli ci dice – la sofferenza di Dio, la sofferenza del Figlio di Dio sulla Croce: “La sofferenza di Dio crocifisso non è soltanto una forma di sofferenza accanto alle altre… Cristo, soffrendo per tutti noi, ha conferito un nuovo senso alla sofferenza, l'ha introdotta in una nuova dimensione, in un nuovo ordine: quello dell'amore… La passione di Cristo sulla Croce ha dato un senso radicalmente nuovo alla sofferenza, l'ha trasformata dal di dentro… È la sofferenza che brucia e consuma il male con la fiamma dell'amore… Ogni sofferenza umana, ogni dolore, ogni infermità racchiude una promessa di salvezza… Il male… esiste nel mondo anche per risvegliare in noi l'amore, che è dono di sé… a chi è visitato dalla sofferenza… Cristo è il Redentore del mondo: ‘Per le sue piaghe noi siamo stati guariti’ (Is 53, 5)” (pag. 198 ss.). Tutto questo non è semplicemente teologia dotta, ma espressione di una fede vissuta e maturata nella sofferenza. Certo, noi dobbiamo fare del tutto per attenuare la sofferenza ed impedire l'ingiustizia che provoca la sofferenza degli innocenti. Tuttavia dobbiamo anche fare del tutto perché gli uomini possano scoprire il senso della sofferenza, per essere così in grado di accettare la propria sofferenza e unirla alla sofferenza di Cristo. In questo modo essa si fonde insieme con l'amore redentore e diventa, di conseguenza, una forza contro il male nel mondo. La risposta che si è avuta in tutto il mondo alla morte del Papa è stata una manifestazione sconvolgente di riconoscenza per il fatto che egli, nel suo ministero, si è offerto totalmente a Dio per il mondo; un ringraziamento per il fatto che egli, in un mondo pieno di odio e di violenza, ci ha insegnato nuovamente l'amare e il soffrire a servizio degli altri; ci ha mostrato, per così dire, dal vivo il Redentore, la redenzione, e ci ha dato la certezza che, di fatto, il male non ha l'ultima parola nel mondo.

Due altri avvenimenti, avviati ancora da Papa Giovanni Paolo II, vorrei ora menzionare, se pur brevemente: si tratta della Giornata Mondiale della Gioventù celebrata a Colonia e del Sinodo dei Vescovi sull'Eucaristia che ha concluso anche l'Anno dell’Eucaristia, inaugurato da Papa Giovanni Paolo II.

La Giornata Mondiale della Gioventù è rimasta nella memoria di tutti coloro che erano presenti come un grande dono. Oltre un milione di giovani si radunarono nella Città di Colonia, situata sul fiume Reno, e nelle città vicine per ascoltare insieme la Parola di Dio, per pregare insieme, per ricevere i sacramenti della Riconciliazione e dell'Eucaristia, per cantare e festeggiare insieme, per gioire dell’esistenza e per adorare e ricevere il Signore eucaristico durante i grandi incontri del sabato sera e della domenica. Durante tutti quei giorni regnava semplicemente la gioia. A prescindere dai servizi d'ordine, la polizia non ebbe niente da fare – il Signore aveva radunato la sua famiglia, superando sensibilmente ogni frontiera e barriera e, nella grande comunione tra di noi, ci aveva fatto sperimentare la sua presenza. Il motto scelto per quelle giornate – “Andiamo ad adorarlo” – conteneva due grandi immagini che, fin dall'inizio, favorirono l'approccio giusto. Vi era innanzitutto l'immagine del pellegrinaggio, l'immagine dell'uomo che, guardando al di là dei suoi affari e del suo quotidiano, si mette alla ricerca della sua destinazione essenziale, della verità, della vita giusta, di Dio. Questa immagine dell'uomo in cammino verso la meta della vita racchiudeva in se ancora due indicazioni chiare. C'era innanzitutto l’invito a non vedere il mondo che ci circonda soltanto come la materia grezza con cui noi possiamo fare qualcosa, ma a cercare di scoprire in esso la “calligrafia del Creatore”, la ragione creatrice e l'amore da cui è nato il mondo e di cui ci parla l'universo, se noi ci rendiamo attenti, se i nostri sensi interiori si svegliano e acquistano percettività per le dimensioni più profonde della realtà. Come secondo elemento si aggiungeva poi l'invito a mettersi in ascolto della rivelazione storica che, sola, può offrirci la chiave di lettura per il silenzioso mistero della creazione, indicandoci concretamente la via verso il vero Padrone del mondo e della storia che si nasconde nella povertà della stalla di Betlemme. L'altra immagine contenuta nel motto della Giornata Mondiale della Gioventù era l'uomo in adorazione: “Siamo venuti per adorarlo”. Prima di ogni attività e di ogni mutamento del mondo deve esserci l'adorazione. Solo essa ci rende veramente liberi; essa soltanto ci dà i criteri per il nostro agire. Proprio in un mondo in cui progressivamente vengono meno i criteri di orientamento ed esiste la minaccia che ognuno faccia di se stesso il proprio criterio, è fondamentale sottolineare l'adorazione. Per tutti coloro che erano presenti rimane indimenticabile l’intenso silenzio di quel milione di giovani, un silenzio che ci univa e sollevava tutti quando il Signore nel Sacramento era posto sull'altare. Serbiamo nel cuore le immagini di Colonia: sono una indicazione che continua ad operare. Senza menzionare singoli nomi, vorrei in questa occasione ringraziare tutti coloro che hanno reso possibile la Giornata Mondiale della Gioventù; soprattutto, però, ringraziamo insieme il Signore, perché in definitiva solo Lui poteva donarci quelle giornate nel modo in cui le abbiamo vissute.

La parola "adorazione" ci porta al secondo grande avvenimento di cui vorrei parlare: il Sinodo dei Vescovi e l'Anno dell’Eucaristia. Papa Giovanni Paolo II, con l'Enciclica Ecclesia de Eucharistia e con la Lettera apostolica Mane nobiscum Domine ci aveva già donato le indicazioni essenziali e al contempo, con la sua esperienza personale della fede eucaristica, aveva concretizzato l'insegnamento della Chiesa. Inoltre, la Congregazione per il Culto Divino, in stretto collegamento con l'Enciclica, aveva pubblicato l'istruzione Redemptionis Sacramentum come aiuto pratico per la giusta realizzazione della Costituzione conciliare sulla liturgia e della riforma liturgica. Oltre tutto ciò, era veramente possibile dire ancora qualcosa di nuovo, sviluppare ulteriormente l’insieme della dottrina? Proprio questa fu la grande esperienza del Sinodo quando, nei contributi dei Padri, si è vista rispecchiarsi la ricchezza della vita eucaristica della Chiesa di oggi e si è manifestata l'inesauribilità della sua fede eucaristica. Quello che i Padri hanno pensato ed espresso dovrà essere presentato, in stretto collegamento con le Propositiones del Sinodo, in un documento post-sinodale. Vorrei qui solo sottolineare ancora una volta quel punto che, poco fa, abbiamo già registrato nel contesto della Giornata Mondiale della Gioventù: l'adorazione del Signore risorto, presente nell'Eucaristia con carne e sangue, con corpo e anima, con divinità e umanità. È commovente per me vedere come dappertutto nella Chiesa si stia risvegliando la gioia dell'adorazione eucaristica e si manifestino i suoi frutti. Nel periodo della riforma liturgica spesso la Messa considerata come Cena eucaristica e l'adorazione del Ss.mo Sacramento erano viste come in contrasto tra loro: il Pane eucaristico non ci sarebbe stato dato per essere contemplato, ma per essere mangiato, secondo un’obiezione allora diffusa. Nell'esperienza di preghiera della Chiesa si è ormai manifestata la mancanza di senso di una tale contrapposizione. Già Agostino aveva detto: “… nemo autem illam carnem manducat, nisi prius adoraverit;… peccemus non adorando - Nessuno mangia questa carne senza prima adorarla; … peccheremmo se non la adorassimo” (cfr Enarr. in Ps 98,9 CCL XXXIX 1385). Di fatto, non è che nell'Eucaristia riceviamo semplicemente una qualche cosa. Essa è l'incontro e l'unificazione di persone; la persona, però, che ci viene incontro e desidera unirsi a noi è il Figlio di Dio. Una tale unificazione può soltanto realizzarsi secondo le modalità dell'adorazione. Ricevere l'Eucaristia significa adorare Colui che riceviamo. Proprio così e soltanto così diventiamo una cosa sola con Lui. Perciò, lo sviluppo dell'adorazione eucaristica, come ha preso forma nel corso del Medioevo, era la più coerente conseguenza dello stesso mistero eucaristico: soltanto nell'adorazione può maturare un'accoglienza profonda e vera. E proprio in questo atto personale di incontro col Signore matura poi anche la missione sociale che nell'Eucaristia è racchiusa e che vuole rompere le barriere non solo tra il Signore e noi, ma anche e soprattutto le barriere che ci separano gli uni dagli altri.

L'ultimo evento di quest’anno su cui vorrei soffermarmi in questa occasione è la celebrazione della conclusione del Concilio Vaticano II quarant'anni fa. Tale memoria suscita la domanda: Qual è stato il risultato del Concilio? È stato recepito nel modo giusto? Che cosa, nella recezione del Concilio, è stato buono, che cosa insufficiente o sbagliato? Che cosa resta ancora da fare? Nessuno può negare che, in vaste parti della Chiesa, la recezione del Concilio si è svolta in modo piuttosto difficile, anche non volendo applicare a quanto è avvenuto in questi anni la descrizione che il grande dottore della Chiesa, san Basilio, fa della situazione della Chiesa dopo il Concilio di Nicea: egli la paragona ad una battaglia navale nel buio della tempesta, dicendo fra l'altro: “Il grido rauco di coloro che per la discordia si ergono l’uno contro l’altro, le chiacchiere incomprensibili, il rumore confuso dei clamori ininterrotti ha riempito ormai quasi tutta la Chiesa falsando, per eccesso o per difetto, la retta dottrina della fede …” (De Spiritu Sancto, XXX, 77; PG 32, 213 A; SCh 17bis, pag. 524). Emerge la domanda: Perché la recezione del Concilio, in grandi parti della Chiesa, finora si è svolta in modo così difficile? Ebbene, tutto dipende dalla giusta interpretazione del Concilio o – come diremmo oggi – dalla sua giusta ermeneutica, dalla giusta chiave di lettura e di applicazione. I problemi della recezione sono nati dal fatto che due ermeneutiche contrarie si sono trovate a confronto e hanno litigato tra loro. L'una ha causato confusione, l'altra, silenziosamente ma sempre più visibilmente, ha portato frutti. Da una parte esiste un'interpretazione che vorrei chiamare “ermeneutica della discontinuità e della rottura”; essa non di rado si è potuta avvalere della simpatia dei mass-media, e anche di una parte della teologia moderna. Dall'altra parte c'è l'“ermeneutica della riforma”, del rinnovamento nella continuità dell'unico soggetto-Chiesa, che il Signore ci ha donato; è un soggetto che cresce nel tempo e si sviluppa, rimanendo però sempre lo stesso, unico soggetto del Popolo di Dio in cammino. L'ermeneutica della discontinuità rischia di finire in una rottura tra Chiesa preconciliare e Chiesa postconciliare. Essa asserisce che i testi del Concilio come tali non sarebbero ancora la vera espressione dello spirito del Concilio. Sarebbero il risultato di compromessi nei quali, per raggiungere l'unanimità, si è dovuto ancora trascinarsi dietro e riconfermare molte cose vecchie ormai inutili. Non in questi compromessi, però, si rivelerebbe il vero spirito del Concilio, ma invece negli slanci verso il nuovo che sono sottesi ai testi: solo essi rappresenterebbero il vero spirito del Concilio, e partendo da essi e in conformità con essi bisognerebbe andare avanti. Proprio perché i testi rispecchierebbero solo in modo imperfetto il vero spirito del Concilio e la sua novità, sarebbe necessario andare coraggiosamente al di là dei testi, facendo spazio alla novità nella quale si esprimerebbe l’intenzione più profonda, sebbene ancora indistinta, del Concilio. In una parola: occorrerebbe seguire non i testi del Concilio, ma il suo spirito. In tal modo, ovviamente, rimane un vasto margine per la domanda su come allora si definisca questo spirito e, di conseguenza, si concede spazio ad ogni estrosità. Con ciò, però, si fraintende in radice la natura di un Concilio come tale. In questo modo, esso viene considerato come una specie di Costituente, che elimina una costituzione vecchia e ne crea una nuova. Ma la Costituente ha bisogno di un mandante e poi di una conferma da parte del mandante, cioè del popolo al quale la costituzione deve servire. I Padri non avevano un tale mandato e nessuno lo aveva mai dato loro; nessuno, del resto, poteva darlo, perché la costituzione essenziale della Chiesa viene dal Signore e ci è stata data affinché noi possiamo raggiungere la vita eterna e, partendo da questa prospettiva, siamo in grado di illuminare anche la vita nel tempo e il tempo stesso. I Vescovi, mediante il Sacramento che hanno ricevuto, sono fiduciari del dono del Signore. Sono “amministratori dei misteri di Dio” (1 Cor 4,1); come tali devono essere trovati “fedeli e saggi” (cfr Lc 12,41-48). Ciò significa che devono amministrare il dono del Signore in modo giusto, affinché non resti occultato in qualche nascondiglio, ma porti frutto e il Signore, alla fine, possa dire all'amministratore: “Poiché sei stato fedele nel poco, ti darò autorità su molto” (cfr Mt 25,14-30; Lc 19,11-27). In queste parabole evangeliche si esprime la dinamica della fedeltà, che interessa nel servizio del Signore, e in esse si rende anche evidente, come in un Concilio dinamica e fedeltà debbano diventare una cosa sola.

All'ermeneutica della discontinuità si oppone l'ermeneutica della riforma, come l'hanno presentata dapprima Papa Giovanni XXIII nel suo discorso d'apertura del Concilio l'11 ottobre 1962 e poi Papa Paolo VI nel discorso di conclusione del 7 dicembre 1965. Vorrei qui citare soltanto le parole ben note di Giovanni XXIII, in cui questa ermeneutica viene espressa inequivocabilmente quando dice che il Concilio “vuole trasmettere pura ed integra la dottrina, senza attenuazioni o travisamenti”, e continua: “Il nostro dovere non è soltanto di custodire questo tesoro prezioso, come se ci preoccupassimo unicamente dell'antichità, ma di dedicarci con alacre volontà e senza timore a quell'opera, che la nostra età esige… È necessario che questa dottrina certa ed immutabile, che deve essere fedelmente rispettata, sia approfondita e presentata in modo che corrisponda alle esigenze del nostro tempo. Una cosa è infatti il deposito della fede, cioè le verità contenute nella nostra veneranda dottrina, e altra cosa è il modo col quale esse sono enunciate, conservando ad esse tuttavia lo stesso senso e la stessa portata” (S. Oec. Conc. Vat. II Constitutiones Decreta Declarationes, 1974, pp. 863-865). È chiaro che questo impegno di esprimere in modo nuovo una determinata verità esige una nuova riflessione su di essa e un nuovo rapporto vitale con essa; è chiaro pure che la nuova parola può maturare soltanto se nasce da una comprensione consapevole della verità espressa e che, d’altra parte, la riflessione sulla fede esige anche che si viva questa fede. In questo senso il programma proposto da Papa Giovanni XXIII era estremamente esigente, come appunto è esigente la sintesi di fedeltà e dinamica. Ma ovunque questa interpretazione è stata l’orientamento che ha guidato la recezione del Concilio, è cresciuta una nuova vita e sono maturati frutti nuovi. Quarant’anni dopo il Concilio possiamo rilevare che il positivo è più grande e più vivo di quanto non potesse apparire nell’agitazione degli anni intorno al 1968. Oggi vediamo che il seme buono, pur sviluppandosi lentamente, tuttavia cresce, e cresce così anche la nostra profonda gratitudine per l’opera svolta dal Concilio.

Paolo VI, nel suo discorso per la conclusione del Concilio, ha poi indicato ancora una specifica motivazione per cui un'ermeneutica della discontinuità potrebbe sembrare convincente. Nella grande disputa sull'uomo, che contraddistingue il tempo moderno, il Concilio doveva dedicarsi in modo particolare al tema dell'antropologia. Doveva interrogarsi sul rapporto tra la Chiesa e la sua fede, da una parte, e l'uomo ed il mondo di oggi, dall'altra (ibid., pp. 1066 s.). La questione diventa ancora più chiara, se in luogo del termine generico di “mondo di oggi” ne scegliamo un altro più preciso: il Concilio doveva determinare in modo nuovo il rapporto tra Chiesa ed età moderna. Questo rapporto aveva avuto un inizio molto problematico con il processo a Galileo. Si era poi spezzato totalmente, quando Kant definì la “religione entro la sola ragione” e quando, nella fase radicale della rivoluzione francese, venne diffusa un'immagine dello Stato e dell'uomo che alla Chiesa ed alla fede praticamente non voleva più concedere alcuno spazio. Lo scontro della fede della Chiesa con un liberalismo radicale ed anche con scienze naturali che pretendevano di abbracciare con le loro conoscenze tutta la realtà fino ai suoi confini, proponendosi caparbiamente di rendere superflua l’“ipotesi Dio”, aveva provocato nell'Ottocento, sotto Pio IX, da parte della Chiesa aspre e radicali condanne di tale spirito dell'età moderna. Quindi, apparentemente non c'era più nessun ambito aperto per un’intesa positiva e fruttuosa, e drastici erano pure i rifiuti da parte di coloro che si sentivano i rappresentanti dell'età moderna. Nel frattempo, tuttavia, anche l'età moderna aveva conosciuto degli sviluppi. Ci si rendeva conto che la rivoluzione americana aveva offerto un modello di Stato moderno diverso da quello teorizzato dalle tendenze radicali emerse nella seconda fase della rivoluzione francese. Le scienze naturali cominciavano, in modo sempre più chiaro, a riflettere sul proprio limite, imposto dallo stesso loro metodo che, pur realizzando cose grandiose, tuttavia non era in grado di comprendere la globalità della realtà. Così, tutte e due le parti cominciavano progressivamente ad aprirsi l’una all'altra. Nel periodo tra le due guerre mondiali e ancora di più dopo la seconda guerra mondiale, uomini di Stato cattolici avevano dimostrato che può esistere uno Stato moderno laico, che tuttavia non è neutro riguardo ai valori, ma vive attingendo alle grandi fonti etiche aperte dal cristianesimo. La dottrina sociale cattolica, via via sviluppatasi, era diventata un modello importante tra il liberalismo radicale e la teoria marxista dello Stato. Le scienze naturali, che come tali lavorano con un metodo limitato all'aspetto fenomenico della realtà, si rendevano conto sempre più chiaramente che questo metodo non comprendeva la totalità della realtà e aprivano quindi nuovamente le porte a Dio, sapendo che la realtà è più grande del metodo naturalistico e di ciò che esso può abbracciare. Si potrebbe dire che si erano formati tre cerchi di domande che ora, durante il Vaticano II, attendevano una risposta. Innanzitutto occorreva definire in modo nuovo la relazione tra fede e scienze moderne; ciò riguardava, del resto, non soltanto le scienze naturali, ma anche la scienza storica perché, in una certa scuola, il metodo storico-critico reclamava per sé l'ultima parola nella interpretazione della Bibbia e, pretendendo la piena esclusività per la sua comprensione delle Sacre Scritture, si opponeva in punti importanti all’interpretazione che la fede della Chiesa aveva elaborato. In secondo luogo, era da definire in modo nuovo il rapporto tra Chiesa e Stato moderno, che concedeva spazio a cittadini di varie religioni ed ideologie, comportandosi verso queste religioni in modo imparziale e assumendo semplicemente la responsabilità per una convivenza ordinata e tollerante tra i cittadini e per la loro libertà di esercitare la propria religione. Con ciò, in terzo luogo, era collegato in modo più generale il problema della tolleranza religiosa – una questione che richiedeva una nuova definizione del rapporto tra fede cristiana e religioni del mondo. In particolare, di fronte ai recenti crimini del regime nazionalsocialista e, in genere, in uno sguardo retrospettivo su una lunga storia difficile, bisognava valutare e definire in modo nuovo il rapporto tra la Chiesa e la fede di Israele.

Sono tutti temi di grande portata su cui non è possibile soffermarsi più ampiamente in questo contesto. È chiaro che in tutti questi settori, che nel loro insieme formano un unico problema, poteva emergere una qualche forma di discontinuità e che, in un certo senso, si era manifestata di fatto una discontinuità, nella quale tuttavia, fatte le diverse distinzioni tra le concrete situazioni storiche e le loro esigenze, risultava non abbandonata la continuità nei principi – fatto questo che facilmente sfugge alla prima percezione. È proprio in questo insieme di continuità e discontinuità a livelli diversi che consiste la natura della vera riforma. In questo processo di novità nella continuità dovevamo imparare a capire più concretamente di prima che le decisioni della Chiesa riguardanti cose contingenti – per esempio, certe forme concrete di liberalismo o di interpretazione liberale della Bibbia – dovevano necessariamente essere esse stesse contingenti, appunto perché riferite a una determinata realtà in se stessa mutevole. Bisognava imparare a riconoscere che, in tali decisioni, solo i principi esprimono l’aspetto duraturo, rimanendo nel sottofondo e motivando la decisione dal di dentro. Non sono invece ugualmente permanenti le forme concrete, che dipendono dalla situazione storica e possono quindi essere sottoposte a mutamenti. Così le decisioni di fondo possono restare valide, mentre le forme della loro applicazione a contesti nuovi possono cambiare. Così, ad esempio, se la libertà di religione viene considerata come espressione dell'incapacità dell'uomo di trovare la verità e di conseguenza diventa canonizzazione del relativismo, allora essa da necessità sociale e storica è elevata in modo improprio a livello metafisico ed è così privata del suo vero senso, con la conseguenza di non poter essere accettata da colui che crede che l'uomo è capace di conoscere la verità di Dio e, in base alla dignità interiore della verità, è legato a tale conoscenza. Una cosa completamente diversa è invece il considerare la libertà di religione come una necessità derivante dalla convivenza umana, anzi come una conseguenza intrinseca della verità che non può essere imposta dall'esterno, ma deve essere fatta propria dall’uomo solo mediante il processo del convincimento. Il Concilio Vaticano II, riconoscendo e facendo suo con il Decreto sulla libertà religiosa un principio essenziale dello Stato moderno, ha ripreso nuovamente il patrimonio più profondo della Chiesa. Essa può essere consapevole di trovarsi con ciò in piena sintonia con l'insegnamento di Gesù stesso (cfr Mt 22,21), come anche con la Chiesa dei martiri, con i martiri di tutti i tempi. La Chiesa antica, con naturalezza, ha pregato per gli imperatori e per i responsabili politici considerando questo un suo dovere (cfr 1 Tm 2,2); ma, mentre pregava per gli imperatori, ha invece rifiutato di adorarli, e con ciò ha respinto chiaramente la religione di Stato. I martiri della Chiesa primitiva sono morti per la loro fede in quel Dio che si era rivelato in Gesù Cristo, e proprio così sono morti anche per la libertà di coscienza e per la libertà di professione della propria fede – una professione che da nessuno Stato può essere imposta, ma invece può essere fatta propria solo con la grazia di Dio, nella libertà della coscienza. Una Chiesa missionaria, che si sa tenuta ad annunciare il suo messaggio a tutti i popoli, deve impegnarsi per la libertà della fede. Essa vuole trasmettere il dono della verità che esiste per tutti ed assicura al contempo i popoli e i loro governi di non voler distruggere con ciò la loro identità e le loro culture, ma invece porta loro una risposta che, nel loro intimo, aspettano – una risposta con cui la molteplicità delle culture non si perde, ma cresce invece l'unità tra gli uomini e così anche la pace tra i popoli.

Il Concilio Vaticano II, con la nuova definizione del rapporto tra la fede della Chiesa e certi elementi essenziali del pensiero moderno, ha rivisto o anche corretto alcune decisioni storiche, ma in questa apparente discontinuità ha invece mantenuto ed approfondito la sua intima natura e la sua vera identità. La Chiesa è, tanto prima quanto dopo il Concilio, la stessa Chiesa una, santa, cattolica ed apostolica in cammino attraverso i tempi; essa prosegue “il suo pellegrinaggio fra le persecuzioni del mondo e le consolazioni di Dio”, annunziando la morte del Signore fino a che Egli venga (cfr Lumen gentium, 8). Chi si era aspettato che con questo “sì” fondamentale all'età moderna tutte le tensioni si dileguassero e l’“apertura verso il mondo” così realizzata trasformasse tutto in pura armonia, aveva sottovalutato le interiori tensioni e anche le contraddizioni della stessa età moderna; aveva sottovalutato la pericolosa fragilità della natura umana che in tutti i periodi della storia e in ogni costellazione storica è una minaccia per il cammino dell'uomo. Questi pericoli, con le nuove possibilità e con il nuovo potere dell'uomo sulla materia e su se stesso, non sono scomparsi, ma assumono invece nuove dimensioni: uno sguardo sulla storia attuale lo dimostra chiaramente. Anche nel nostro tempo la Chiesa resta un "segno di contraddizione" (Lc 2,34) – non senza motivo Papa Giovanni Paolo II, ancora da Cardinale, aveva dato questo titolo agli Esercizi Spirituali predicati nel 1976 a Papa Paolo VI e alla Curia Romana. Non poteva essere intenzione del Concilio abolire questa contraddizione del Vangelo nei confronti dei pericoli e degli errori dell'uomo. Era invece senz'altro suo intendimento accantonare contraddizioni erronee o superflue, per presentare a questo nostro mondo l'esigenza del Vangelo in tutta la sua grandezza e purezza. Il passo fatto dal Concilio verso l'età moderna, che in modo assai impreciso è stato presentato come “apertura verso il mondo”, appartiene in definitiva al perenne problema del rapporto tra fede e ragione, che si ripresenta in sempre nuove forme. La situazione che il Concilio doveva affrontare è senz'altro paragonabile ad avvenimenti di epoche precedenti. San Pietro, nella sua prima lettera, aveva esortato i cristiani ad essere sempre pronti a dar risposta (apo-logia) a chiunque avesse loro chiesto il logos, la ragione della loro fede (cfr 3,15). Questo significava che la fede biblica doveva entrare in discussione e in relazione con la cultura greca ed imparare a riconoscere mediante l'interpretazione la linea di distinzione, ma anche il contatto e l'affinità tra loro nell'unica ragione donata da Dio. Quando nel XIII secolo, mediante filosofi ebrei ed arabi, il pensiero aristotelico entrò in contatto con la cristianità medievale formata nella tradizione platonica, e fede e ragione rischiarono di entrare in una contraddizione inconciliabile, fu soprattutto san Tommaso d'Aquino a mediare il nuovo incontro tra fede e filosofia aristotelica, mettendo così la fede in una relazione positiva con la forma di ragione dominante nel suo tempo. La faticosa disputa tra la ragione moderna e la fede cristiana che, in un primo momento, col processo a Galileo, era iniziata in modo negativo, certamente conobbe molte fasi, ma col Concilio Vaticano II arrivò l’ora in cui si richiedeva un ampio ripensamento. Il suo contenuto, nei testi conciliari, è tracciato sicuramente solo a larghe linee, ma con ciò è determinata la direzione essenziale, cosicché il dialogo tra ragione e fede, oggi particolarmente importante, in base al Vaticano II ha trovato il suo orientamento. Adesso questo dialogo è da sviluppare con grande apertura mentale, ma anche con quella chiarezza nel discernimento degli spiriti che il mondo con buona ragione aspetta da noi proprio in questo momento. Così possiamo oggi con gratitudine volgere il nostro sguardo al Concilio Vaticano II: se lo leggiamo e recepiamo guidati da una giusta ermeneutica, esso può essere e diventare sempre di più una grande forza per il sempre necessario rinnovamento della Chiesa.

Infine, devo forse ancora far memoria di quel 19 aprile di quest'anno, in cui il Collegio Cardinalizio, con mio non piccolo spavento, mi ha eletto a successore di Papa Giovanni Paolo II, a successore di san Pietro sulla cattedra del Vescovo di Roma? Un tale compito stava del tutto fuori di ciò che avrei mai potuto immaginare come mia vocazione. Così, fu soltanto con un grande atto di fiducia in Dio che potei dire nell'obbedienza il mio “sì” a questa scelta. Come allora, così chiedo anche oggi a tutti Voi la preghiera, sulla cui forza e sostegno io conto. Al contempo desidero ringraziare di cuore in quest'ora tutti coloro che mi hanno accolto e mi accolgono tuttora con tanta fiducia, bontà e comprensione, accompagnandomi giorno per giorno con la loro preghiera.

Il Natale è ormai vicino. Il Signore Dio alle minacce della storia non si è opposto con il potere esteriore, come noi uomini, secondo le prospettive di questo nostro mondo, ci saremmo aspettati. L'arma sua è la bontà. Si è rivelato come bimbo, nato in una stalla. È proprio così che contrappone il suo potere completamente diverso alle potenze distruttive della violenza. Proprio così Egli ci salva. Proprio così ci mostra ciò che salva. Vogliamo, in questi giorni natalizi, andargli incontro pieni di fiducia, come i pastori, come i sapienti dell'Oriente. Chiediamo a Maria di condurci al Signore. Chiediamo a Lui stesso di far brillare il suo volto su di noi. Chiediamogli di vincere Egli stesso la violenza nel mondo e di farci sperimentare il potere della sua bontà. Con questi sentimenti imparto di cuore a tutti Voi la Benedizione Apostolica.

© Copyright 2005 - Libreria Editrice Vaticana

Archbishop Chaput calls for resistance to intolerance of Christianity - Aug 25, 2010


Spisske Podhradie, Slovakia, Aug 25, 2010 / 05:48 am (CNA/EWTN News).-

Archbishop Charles Chaput
Addressing the first session of the 15th symposium for the Canon Law Association of Slovakia on Tuesday, Archbishop Charles Chaput of Denver called for Catholics in America and Europe to oppose the rise of a “state-encouraged atheism” which reduces religion to “an individual lifestyle accessory” incapable of influencing the world. The archbishop exhorted Christians to respond to these trends by rediscovering their historic faith as the only sound basis for a just society.

Recalling the historical experience of the Slovakian Church under Communism, Archbishop Chaput told the assembly of Central European bishops and canon lawyers that Christians are being called today to defend the Church's own rights, and the rights of all people, against the “civil religion” of relativism.

Like Communism, he explained, today's secularist ideology envisions “a society apart from God” where “men and women might live wholly sufficient unto themselves,” sharing no higher guiding principle than “satisfying their needs and desires.”

This seemingly benign vision, he warned, leaves no place for the Church's work of evangelism, teaching, and activism.

The Denver archbishop also underscored the difference between “freedom of worship” and the “freedom of religion,” noting that the former is a “much smaller and more restrictive idea” in which religion has a place “but only as an individual lifestyle accessory.” On the other hand, “freedom of religion” includes “the right to preach, teach, assemble, organize, and to engage society and its issues publicly, both as individuals and joined together as communities of faith.”

Citing legislation and court decisions in America and Europe, the archbishop detailed an ongoing shift in western societies, from a non-sectarian public policy of broad religious tolerance, to an overtly anti-religious form of government which attacks religion in the name of tolerance.

A comprehensive attack on religious freedom, and specifically upon Christianity, the archbishop explained, has already begun. He told the Slovakian audience that this attack promotes an “aggressively secular political vision and a consumerist economic model.” Its end goal, he said, is to replace God and the Church with technology and social engineering.

According to Archbishop Chaput, one example of this increasing official hostility against the Church could be seen in the June 2010 raid on the Palace of the Archbishop of Brussels, in which bishops were detained without due process and tombs belonging to two cardinals were desecrated.

In light of such events, he warned, “the Church's religious liberty is under assault today in ways not seen since the Nazi and Communist eras.”

The cornerstone of a Catholic and Christian response to these assaults should begin with personally trusting in Christ, he advised. “A Catholicism of resistance,” he added, “must be based on trust in Christ's words: 'The truth will make you free'.”

Trust in the power of truth gave many Eastern European dissidents their unique “insight into the nature of totalitarian regimes,” he reminded his listeners, drawing special attention to the words of the Czech leader Vaclav Havel, who maintained the key to resistance was in “living in the truth.”

When it comes to how Catholics today should view their “discipleship and mission,” the Denver prelate said they should see it precisely as 'Living in the truth.'

A truthful way of life, according to Archbishop Chaput, rejects attempts to hide unacceptable realities behind acceptable words: “Living within the truth also means telling the truth and calling things by their right names.” It also requires Christians to expose falsehoods foisted upon the public, “exposing the lies by which some men try to force others to live.”

The greatest falsehood of contemporary times, the archbishop argued, is that civilization can exist on a completely autonomous, agnostic basis, “as if God does not matter and as if the Son of God never walked this earth.”

Forms of humanism which exclude God from public life, he asserted, cannot protect the dignity of human beings. “Our most cherished values cannot be defended by reason alone, or simply for their own sake.”

He explained that human dignity and rights must be understood as God-given personal attributes, according to the dictates of Christian revelation. Otherwise, human rights become merely the “arbitrary conventions of men and women,” which the state can take away at will.

In this context, Archbishop Chaput explained, the legality of abortion can be understood as an indicator of secular society's deepest contradictions. What began as an unassuming philosophy of “live and let live” becomes warped into a license to kill: “The will to power of the strong is given the force of law to kill the weak.”

Such contradictions, according to the archbishop, display “a kind of 'inner logic' that leads relativism to repression.” “The dogma of tolerance,” he explained, “cannot tolerate the Church's belief that some ideas and behaviors should not be tolerated.”

Archbishop Chaput warned that when societies forbid the public proclamation and active expression of religious truths, they inevitably end up exalting the power of the state. “A society where faith is prevented from vigorous public expression,” he said, “is a society that has fashioned the state into an idol. And when the state becomes an idol, men and women become the sacrificial offering.”

Drawing his words to a close, Archbishop Chaput told his Slovak listeners, only a “believing community of resistance” can present and defend the truth in a world of enforced public nihlism.

“We are ambassadors of the living God to a world that is on the verge of forgetting him,” the archbishop recalled. “Our work is to make God real; to be the face of his love; to propose once more to the men and women of our day, the dialogue of salvation.”




Archbishop Chaput's full talk
August 24, 2010 (Spisske Podhradie, Slovakia)

Living within the truth:
Religious liberty and Catholic mission
in the new order of the world

Charles Chaput, Catholic Archbishop of Denver Colorado, addressed the first session of the 15th symposium for the Canon Law Association of Slovakia on Tuesday. He called upon Catholics in America and in Europe, to resist the world's intolerance of Christianity.

Tertullian once famously said that the blood of martyrs is the seed of the Church. History has proven that to be true. And Slovakia is the perfect place for us to revisit his words today. Here, and throughout central and eastern Europe, Catholics suffered through 50 years of Nazi and Soviet murder regimes. So they know the real cost of Christian witness from bitter experience -- and also, unfortunately, the cost of cowardice, collaboration and self-delusion in the face of evil.

I want to begin by suggesting that many Catholics in the United States and Western Europe today simply don’t understand those costs. Nor do they seem to care. As a result, many are indifferent to the process in our countries that social scientists like to call “secularization” – but which, in practice, involves repudiating the Christian roots and soul of our civilization.

American Catholics have no experience of the systematic repression so familiar to your Churches. It’s true that anti-Catholic prejudice has always played a role in American life. This bigotry came first from my country’s dominant Protestant culture, and now from its “post-Christian” leadership classes. But this is quite different from deliberate persecution. In general, Catholics have thrived in the United States. The reason is simple. America has always had a broadly Christian and religion-friendly moral foundation, and our public institutions were established as non-sectarian, not anti-religious.

At the heart of the American experience is an instinctive “biblical realism.” From our Protestant inheritance we have always – at least until now -- understood that sin is real, and men and women can be corrupted by power and prosperity. Americans have often been tempted to see our nation as uniquely destined, or specially anointed by God. But in the habits of daily life, we have always known that the “city of God” is something very distinct from the “city of man.” And we are wary of confusing the two.

Alexis de Tocqueville, in his Democracy in America, wrote: “Despotism can do without faith, but liberty cannot . . .” Therefore, “What is to be done with a people that is its own master, if it is not obedient to God?”1

America’s founders were a diverse group of practicing Christians and Enlightenment deists. But nearly all were friendly to religious faith. They believed a free people cannot remain free without religious faith and the virtues that it fosters. They sought to keep Church and state separate and autonomous. But their motives were very different from the revolutionary agenda in Europe. The American founders did not confuse the state with civil society. They had no desire for a radically secularized public life. They had no intent to lock religion away from public affairs. On the contrary, they wanted to guarantee citizens the freedom to live their faith publicly and vigorously, and to bring their religious convictions to bear on the building of a just society.

Obviously, we need to remember that other big differences do exist between the American and European experiences. Europe has suffered some of the worst wars and violent regimes in human history. The United States has not seen a war on its soil in 150 years. Americans have no experience of bombed-out cities or social collapse, and little experience of poverty, ideological politics or hunger. As a result, the past has left many Europeans with a worldliness and a pessimism that seem very different from the optimism that marks American society. But these and other differences don’t change the fact that our paths into the future are now converging. Today, in an era of global interconnection, the challenges that confront Catholics in America are much the same as in Europe: We face an aggressively secular political vision and a consumerist economic model that result – in practice, if not in explicit intent -- in a new kind of state-encouraged atheism.

To put it another way: The Enlightenment-derived worldview that gave rise to the great murder ideologies of the last century remains very much alive. Its language is softer, its intentions seem kinder, and its face is friendlier. But its underlying impulse hasn’t changed -- i.e., the dream of building a society apart from God; a world where men and women might live wholly sufficient unto themselves, satisfying their needs and desires through their own ingenuity.

This vision presumes a frankly “post-Christian” world ruled by rationality, technology and good social engineering. Religion has a place in this worldview, but only as an individual lifestyle accessory. People are free to worship and believe whatever they want, so long as they keep their beliefs to themselves and do not presume to intrude their religious idiosyncrasies on the workings of government, the economy, or culture.

Now, at first hearing, this might sound like a reasonable way to organize a modern society that includes a wide range of ethnic, religious and cultural traditions, different philosophies of life and approaches to living.

But we’re immediately struck by two unpleasant details.

First, “freedom of worship” is not at all the same thing as “freedom of religion.” Religious freedom includes the right to preach, teach, assemble, organize, and to engage society and its issues publicly, both as individuals and joined together as communities of faith. This is the classic understanding of a citizen’s right to the “free exercise” of his or her religion in the First Amendment to the U.S. Constitution. It’s also clearly implied in Article 18 of the Universal Declaration of Human Rights. In contrast, freedom of worship is a much smaller and more restrictive idea.

Second, how does the rhetoric of enlightened, secular tolerance square with the actual experience of faithful Catholics in Europe and North America in recent years?

In the United States, a nation that is still 80 percent Christian with a high degree of religious practice, government agencies now increasingly seek to dictate how Church ministries should operate, and to force them into practices that would destroy their Catholic identity. Efforts have been made to discourage or criminalize the expression of certain Catholic beliefs as “hate speech.” Our courts and legislatures now routinely take actions that undermine marriage and family life, and seek to scrub our public life of Christian symbolism and signs of influence.

In Europe, we see similar trends, although marked by a more open contempt for Christianity. Church leaders have been reviled in the media and even in the courts for simply expressing Catholic teaching. Some years ago, as many of you may recall, one of the leading Catholic politicians of our generation, Rocco Buttiglione, was denied a leadership post in the European Union because of his Catholic beliefs.

Earlier this summer we witnessed the kind of vindictive thuggery not seen on this continent since the days of Nazi and Soviet police methods: the Archbishop’s palace in Brussels raided by agents; bishops detained and interrogated for nine hours without due process; their private computers, cell phones, and files seized. Even the graves of the Church’s dead were violated in the raid. For most Americans, this sort of calculated, public humiliation of religious leaders would be an outrage and an abuse of state power. And this is not because of the virtues or the sins of any specific religious leaders involved, since we all have a duty to obey just laws. Rather, it’s an outrage because the civil authority, by its harshness, shows contempt for the beliefs and the believers whom the leaders represent.

My point is this: These are not the actions of governments that see the Catholic Church as a valued partner in their plans for the 21st century. Quite the opposite. These events suggest an emerging, systematic discrimination against the Church that now seems inevitable.

Today’s secularizers have learned from the past. They are more adroit in their bigotry; more elegant in their public relations; more intelligent in their work to exclude the Church and individual believers from influencing the moral life of society. Over the next several decades, Christianity will become a faith that can speak in the public square less and less freely. A society where faith is prevented from vigorous public expression is a society that has fashioned the state into an idol. And when the state becomes an idol, men and women become the sacrificial offering.

Cardinal Henri de Lubac once wrote that “It is not true … that man cannot organize the world without God. What is true, is that without God, [man] can ultimately only organize it against man. Exclusive humanism is inhuman humanism.”2

The West is now steadily moving in the direction of that new “inhuman humanism.” And if the Church is to respond faithfully, we need to draw upon the lessons that your Churches learned under totalitarianism.

A Catholicism of resistance must be based on trust in Christ’s words: “The truth will make you free.”3 This trust gave you insight into the nature of totalitarian regimes. It helped you articulate new ways of discipleship. Rereading the words of the Czech leader Václav Havel to prepare for this talk, I was struck by the profound Christian humanism of his idea of “living within the truth.”4 Catholics today need to see their discipleship and mission as precisely that: “living within the truth.”

Living within the truth means living according to Jesus Christ and God’s Word in Sacred Scripture. It means proclaiming the truth of the Christian Gospel, not only by our words but by our example. It means living every day and every moment from the unshakeable conviction that God lives, and that his love is the motive force of human history and the engine of every authentic human life. It means believing that the truths of the Creed are worth suffering and dying for.

Living within the truth also means telling the truth and calling things by their right names. And that means exposing the lies by which some men try to force others to live.

Two of the biggest lies in the world today are these: first, that Christianity was of relatively minor importance in the development of the West; and second, that Western values and institutions can be sustained without a grounding in Christian moral principles.

Before I talk about these two falsehoods, we should pause a moment to think about the meaning of history.

History is not simply about learning facts. History is a form of memory, and memory is a foundation stone of self-identity. Facts are useless without a context of meaning. The unique genius and meaning of Western civilization cannot be understood without the 20 centuries of Christian context in which they developed. A people who do not know their history, do not know themselves. They are a people doomed to repeat the mistakes of their past because they cannot see what the present – which always flowers out of the past -- requires of them.

People who forget who they are can be much more easily manipulated. This was dramatized famously in Orwell’s image of the “memory hole” in his novel 1984. Today, the history of the Church and the legacy of Western Christianity are being pushed down the memory hole. This is the first lie that we need to face.

Downplaying the West’s Christian past is sometimes done with the best intentions, from a desire to promote peaceful co-existence in a pluralistic society. But more frequently it’s done to marginalize Christians and to neutralize the Church’s public witness.

The Church needs to name and fight this lie. To be a European or an American is to be heir to a profound Christian synthesis of Greek philosophy and art, Roman law, and biblical truth. This synthesis gave rise to the Christian humanism that undergirds all of Western civilization.

On this point, we might remember the German Lutheran scholar and pastor, Dietrich Bonhoeffer. He wrote these words in the months leading up to his arrest by the Gestapo in 1943: “The unity of the West is not an idea but a historical reality, of which the sole foundation is Christ.”5

Our societies in the West are Christian by birth, and their survival depends on the endurance of Christian values. Our core principles and political institutions are based, in large measure, on the morality of the Gospel and the Christian vision of man and government. We are talking here not only about Christian theology or religious ideas. We are talking about the moorings of our societies -- representative government and the separation of powers; freedom of religion and conscience; and most importantly, the dignity of the human person.

This truth about the essential unity of the West has a corollary, as Bonhoeffer also observed: Take away Christ and you remove the only reliable foundation for our values, institutions and way of life.

That means we cannot dispense with our history out of some superficial concern over offending our non-Christian neighbors. Notwithstanding the chatter of the “new atheists,” there is no risk that Christianity will ever be forced upon people anywhere in the West. The only “confessional states” in the world today are those ruled by Islamist or atheist dictatorships -- regimes that have rejected the Christian West’s belief in individual rights and the balance of powers.

I would argue that the defense of Western ideals is the only protection that we and our neighbors have against a descent into new forms of repression -- whether it might be at the hands of extremist Islam or secularist technocrats.

But indifference to our Christian past contributes to indifference about defending our values and institutions in the present. And this brings me to the second big lie by which we live today -- the lie that there is no unchanging truth.

Relativism is now the civil religion and public philosophy of the West. Again, the arguments made for this viewpoint can seem persuasive. Given the pluralism of the modern world, it might seem to make sense that society should want to affirm that no one individual or group has a monopoly on truth; that what one person considers to be good and desirable another may not; and that all cultures and religions should be respected as equally valid.

In practice, however, we see that without a belief in fixed moral principles and transcendent truths, our political institutions and language become instruments in the service of a new barbarism. In the name of tolerance we come to tolerate the cruelest intolerance; respect for other cultures comes to dictate disparagement of our own; the teaching of “live and let live” justifies the strong living at the expense of the weak.

This diagnosis helps us understand one of the foundational injustices in the West today -- the crime of abortion.

I realize that the abortion license is a matter of current law in almost every nation in the West. In some cases, this license reflects the will of the majority and is enforced through legal and democratic means. And I’m aware that many people, even in the Church, find it strange that we Catholics in America still make the sanctity of unborn life so central to our public witness.

Let me tell you why I believe abortion is the crucial issue of our age.

First, because abortion, too, is about living within the truth. The right to life is the foundation of every other human right. If that right is not inviolate, then no right can be guaranteed.

Or to put it more bluntly: Homicide is homicide, no matter how small the victim.

Here’s another truth that many persons in the Church have not yet fully reckoned: The defense of newborn and preborn life has been a central element of Catholic identity since the Apostolic Age.

I’ll say that again: From the earliest days of the Church, to be Catholic has meant refusing in any way to participate in the crime of abortion -- either by seeking an abortion, performing one, or making this crime possible through actions or inactions in the political or judicial realm. More than that, being Catholic has meant crying out against all that offends the sanctity and dignity of life as it has been revealed by Jesus Christ.

The evidence can be found in the earliest documents of Church history. In our day -- when the sanctity of life is threatened not only by abortion, infanticide and euthanasia, but also by embryonic research and eugenic temptations to eliminate the weak, the disabled and the infirm elderly -- this aspect of Catholic identity becomes even more vital to our discipleship.

My point in mentioning abortion is this: Its widespread acceptance in the West shows us that without a grounding in God or a higher truth, our democratic institutions can very easily become weapons against our own human dignity.

Our most cherished values cannot be defended by reason alone, or simply for their own sake. They have no self-sustaining or “internal” justification.

There is no inherently logical or utilitarian reason why society should respect the rights of the human person. There is even less reason for recognizing the rights of those whose lives impose burdens on others, as is the case with the child in the womb, the terminally ill, or the physically or mentally disabled.

If human rights do not come from God, then they devolve to the arbitrary conventions of men and women. The state exists to defend the rights of man and to promote his flourishing. The state can never be the source of those rights. When the state arrogates to itself that power, even a democracy can become totalitarian.

What is legalized abortion but a form of intimate violence that clothes itself in democracy? The will to power of the strong is given the force of law to kill the weak.

That is where we are heading in the West today. And we’ve been there before. Slovaks and many other central and eastern Europeans have lived through it.

I suggested earlier that the Church’s religious liberty is under assault today in ways not seen since the Nazi and Communist eras. I believe we are now in the position to better understand why.

Writing in the 1960s, Richard Weaver, an American scholar and social philosopher, said: “I am absolutely convinced that relativism must eventually lead to a regime of force.”

He was right. There is a kind of “inner logic” that leads relativism to repression.

This explains the paradox of how Western societies can preach tolerance and diversity while aggressively undermining and penalizing Catholic life. The dogma of tolerance cannot tolerate the Church’s belief that some ideas and behaviors should not be tolerated because they dehumanize us. The dogma that all truths are relative cannot allow the thought that some truths might not be.

The Catholic beliefs that most deeply irritate the orthodoxies of the West are those concerning abortion, sexuality and the marriage of man and woman. This is no accident. These Christian beliefs express the truth about human fertility, meaning and destiny.

These truths are subversive in a world that would have us believe that God is not necessary and that human life has no inherent nature or purpose. Thus the Church must be punished because, despite all the sins and weaknesses of her people, she is still the bride of Jesus Christ; still a source of beauty, meaning and hope that refuses to die -- and still the most compelling and dangerous heretic of the world’s new order.

Let me sum up what I’ve been saying.

My first point is this: Ideas have consequences. And bad ideas have bad consequences. Today we are living in a world that is under the sway of some very destructive ideas, the worst being that men and women can live as if God does not matter and as if the Son of God never walked this earth. As a result of these bad ideas, the Church’s freedom to exercise her mission is under attack. We need to understand why that is, and we need to do something about it.

My second point is simply this: We can no longer afford to treat the debate over secularization -- which really means cauterizing Christianity out of our cultural memory -- as if it’s a problem for Church professionals. The emergence of a “new Europe” and a “next America” rooted in something other than the real facts of our Christian-shaped history will have damaging consequences for every serious believer.

We need not and should not abandon the hard work of honest dialogue. Far from it. The Church always needs to seek friendships, areas of agreement, and ways to make positive, reasoned arguments in the public square. But it’s foolish to expect gratitude or even respect from our governing and cultural leadership classes today. Naïve imprudence is not an evangelical virtue.

The temptation in every age of the Church is to try to get along with Caesar. And it’s very true: Scripture tells us to respect and pray for our leaders. We need to have a healthy love for the countries we call home. But we can never render unto Caesar what belongs to God. We need to obey God first; the obligations of political authority always come second. We cannot collaborate with evil without gradually becoming evil ourselves. This is one of the most vividly harsh lessons of the 20th century. And it’s a lesson that I hope we have learned.

That brings me to my third and final point today: We live in a time when the Church is called to be a believing community of resistance. We need to call things by their true names. We need to fight the evils we see. And most importantly, we must not delude ourselves into thinking that by going along with the voices of secularism and de-Christianization we can somehow mitigate or change things. Only the Truth can set men free. We need to be apostles of Jesus Christ and the Truth he incarnates.

So what does this mean for us as individual disciples? Let me offer a few suggestions by way of a conclusion.

My first suggestion comes again from the great witness against the paganism of the Third Reich, Dietrich Bonhoeffer: “The renewal of the Western world lies solely in the divine renewal of the Church, which leads her to the fellowship of the risen and living Jesus Christ.”7

The world urgently needs a re-awakening of the Church in our actions and in our public and private witness. The world needs each of us to come to a deeper experience of our Risen Lord in the company of our fellow believers. The renewal of the West depends overwhelmingly on our faithfulness to Jesus Christ and his Church.

We need to really believe what we say we believe. Then we need to prove it by the witness of our lives. We need to be so convinced of the truths of the Creed that we are on fire to live by these truths, to love by these truths, and to defend these truths, even to the point of our own discomfort and suffering.

We are ambassadors of the living God to a world that is on the verge of forgetting him. Our work is to make God real; to be the face of his love; to propose once more to the men and women of our day, the dialogue of salvation.

The lesson of the 20th century is that there is no cheap grace. This God whom we believe in, this God who loved the world so much that he sent his only Son to suffer and die for it, demands that we live the same bold, sacrificial pattern of life shown to us by Jesus Christ.

The form of the Church, and the form of every Christian life, is the form of the cross. Our lives must become a liturgy, a self-offering that embodies the love of God and the renewal of the world.

The great Slovak martyrs of the past knew this. And they kept this truth alive when the bitter weight of hatred and totalitarianism pressed upon your people. I’m thinking especially right now of your heroic bishops, Blessed Vasil Hopko and Pavel Gojdic, and the heroic sister, Blessed Zdenka Schelingová.

We need to keep this beautiful mandate of Sister Zdenka close to our hearts:

“My sacrifice, my holy Mass, begins in daily life. From the altar of the Lord I go to the altar of my work. I must be able to continue the sacrifice of the altar in every situation. … It is Christ whom we must proclaim through our lives, to him we offer the sacrifice of our own will.”8

Let us preach Jesus Christ with all the energy of our lives. And let us support each other -- whatever the cost -- so that when we make our accounting to the Lord, we will be numbered among the faithful and courageous, and not the cowardly or the evasive, or those who compromised until there was nothing left of their convictions; or those who were silent when they should have spoken the right word at the right time. Thank you. And God bless all of you.


Endnotes:

1. Alexis de Tocqueville, Democracy in America, vol. 1, pt. 2, chap. 9 (New York: Library of America, 2004), 340.

2. Henri de Lubac, The Drama of Atheist Humanism (San Francisco: Ignatius, 1998), 14.

3. John 8:32.

4. See Václav Havel, “The Power of the Powerless” (1978), in Open Letters: Selected Writings 1965–1990 (New York: Knopf, 1991), 125–214.

5. Dietrich Bonhoeffer, Ethics (London: SCM, 1983), 72–73.

6. Richard Weaver, “Relativism and the Crisis of our Times” (1961), in In Defense of Tradition: Collected Shorter Writings of Richard M. Weaver, 1929–1963 (Indianapolis: Liberty Fund, 2001), 104.

7. Bonhoeffer, Ethics, 95.

8. See “Novena to the Blessed Zdenka Schelingová,” at www.holycrosssisters.org/s_zdenka.html.

Fonte: Archdiocese of Denver