lunedì 28 febbraio 2011

Benedetto XVI ai partecipanti all'Assemblea Plenaria del Pontificio Consiglio delle Comunicazioni Sociali (28 febbraio 2011)


DISCORSO DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI
AI PARTECIPANTI ALL'ASSEMBLEA PLENARIA
DEL PONTIFICIO CONSIGLIO DELLE COMUNICAZIONI SOCIALI

Sala Clementina
Lunedì, 28 febbraio 2011

[Francese, Inglese, Italiano, Portoghese, Spagnolo, Tedesco]

Cari Fratelli e Sorelle,

sono lieto di accogliervi in occasione della Plenaria del Dicastero. Saluto il Presidente, Mons. Claudio Maria Celli, che ringrazio per le cortesi parole, i Segretari, gli Officiali, i Consultori e tutto il Personale.

Nel Messaggio per la Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali di quest’anno, ho invitato a riflettere sul fatto che le nuove tecnologie non solamente cambiano il modo di comunicare, ma stanno operando una vasta trasformazione culturale. Si va sviluppando un nuovo modo di apprendere e di pensare, con inedite opportunità di stabilire relazioni e costruire comunione. Vorrei adesso soffermarmi sul fatto che il pensiero e la relazione avvengono sempre nella modalità del linguaggio, inteso naturalmente in senso lato, non solo verbale. Il linguaggio non è un semplice rivestimento intercambiabile e provvisorio di concetti, ma il contesto vivente e pulsante nel quale i pensieri, le inquietudini e i progetti degli uomini nascono alla coscienza e vengono plasmati in gesti, simboli e parole. L’uomo, dunque, non solo «usa» ma, in certo senso, «abita» il linguaggio. In particolare oggi, quelle che il Concilio Vaticano II ha definito «meravigliose invenzioni tecniche» (Inter mirifica, 1) stanno trasformando l’ambiente culturale, e questo richiede un’attenzione specifica ai linguaggi che in esso si sviluppano. Le nuove tecnologie «hanno la capacità di pesare non solo sulle modalità, ma anche sui contenuti del pensiero» (Aetatis novae, 4).

I nuovi linguaggi che si sviluppano nella comunicazione digitale determinano, tra l’altro, una capacità più intuitiva ed emotiva che analitica, orientano verso una diversa organizzazione logica del pensiero e del rapporto con la realtà, privilegiano spesso l’immagine e i collegamenti ipertestuali. La tradizionale distinzione netta tra linguaggio scritto e orale, poi, sembra sfumarsi a favore di una comunicazione scritta che prende la forma e l’immediatezza dell’oralità. Le dinamiche proprie delle «reti partecipative», richiedono inoltre che la persona sia coinvolta in ciò che comunica. Quando le persone si scambiano informazioni, stanno già condividendo se stesse e la loro visione del mondo: diventano «testimoni» di ciò che dà senso alla loro esistenza. I rischi che si corrono, certo, sono sotto gli occhi di tutti: la perdita dell’interiorità, la superficialità nel vivere le relazioni, la fuga nell’emotività, il prevalere dell’opinione più convincente rispetto al desiderio di verità. E tuttavia essi sono la conseguenza di un’incapacità di vivere con pienezza e in maniera autentica il senso delle innovazioni. Ecco perché la riflessione sui linguaggi sviluppati dalle nuove tecnologie è urgente. Il punto di partenza è la stessa Rivelazione, che ci testimonia come Dio abbia comunicato le sue meraviglie proprio nel linguaggio e nell’esperienza reale degli uomini, «secondo la cultura propria di ogni epoca» (Gaudium et spes, 58), fino alla piena manifestazione di sé nel Figlio Incarnato. La fede sempre penetra, arricchisce, esalta e vivifica la cultura, e questa, a sua volta, si fa veicolo della fede, a cui offre il linguaggio per pensarsi ed esprimersi. E’ necessario quindi farsi attenti ascoltatori dei linguaggi degli uomini del nostro tempo, per essere attenti all’opera di Dio nel mondo.


In questo contesto, è importante il lavoro che svolge il Pontificio Consiglio delle Comunicazioni Sociali nell’approfondire la “cultura digitale”, stimolando e sostenendo la riflessione per una maggiore consapevolezza circa le sfide che attendono la comunità ecclesiale e civile. Non si tratta solamente di esprimere il messaggio evangelico nel linguaggio di oggi, ma occorre avere il coraggio di pensare in modo più profondo, come è avvenuto in altre epoche, il rapporto tra la fede, la vita della Chiesa e i mutamenti che l’uomo sta vivendo. E’ l’impegno di aiutare quanti hanno responsabilità nella Chiesa ad essere in grado di capire, interpretare e parlare il «nuovo linguaggio» dei media in funzione pastorale (cfr Aetatis novae, 2), in dialogo con il mondo contemporaneo, domandandosi: quali sfide il cosiddetto «pensiero digitale» pone alla fede e alla teologia? Quali domande e richieste?

Il mondo della comunicazione interessa l’intero universo culturale, sociale e spirituale della persona umana. Se i nuovi linguaggi hanno un impatto sul modo di pensare e di vivere, ciò riguarda, in qualche modo, anche il mondo della fede, la sua intelligenza e la sua espressione. La teologia, secondo una classica definizione, è intelligenza della fede, e sappiamo bene come l’intelligenza, intesa come conoscenza riflessa e critica, non sia estranea ai cambiamenti culturali in atto. La cultura digitale pone nuove sfide alla nostra capacità di parlare e di ascoltare un linguaggio simbolico che parli della trascendenza. Gesù stesso nell’annuncio del Regno ha saputo utilizzare elementi della cultura e dell’ambiente del suo tempo: il gregge, i campi, il banchetto, i semi e così via. Oggi siamo chiamati a scoprire, anche nella cultura digitale, simboli e metafore significative per le persone, che possano essere di aiuto nel parlare del Regno di Dio all’uomo contemporaneo.

E’ inoltre da considerare che la comunicazione ai tempi dei «nuovi media» comporta una relazione sempre più stretta e ordinaria tra l’uomo e le macchine, dai computer ai telefoni cellulari, per citare solo i più comuni. Quali saranno gli effetti di questa relazione costante? Già il Papa Paolo VI, riferendosi ai primi progetti di automazione dell’analisi linguistica del testo biblico, indicava una pista di riflessione quando si chiedeva: «Non è cotesto sforzo di infondere in strumenti meccanici il riflesso di funzioni spirituali, che è nobilitato ed innalzato ad un servizio, che tocca il sacro? È lo spirito che è fatto prigioniero della materia, o non è forse la materia, già domata e obbligata ad eseguire leggi dello spirito, che offre allo spirito stesso un sublime ossequio?» (Discorso al Centro di Automazione dell’Aloisianum di Gallarate, 19 giugno 1964). Si intuisce in queste parole il legame profondo con lo spirito a cui la tecnologia è chiamata per vocazione (cfr Enc. Caritas in veritate, 69).

E’ proprio l’appello ai valori spirituali che permetterà di promuovere una comunicazione veramente umana: al di là di ogni facile entusiasmo o scetticismo, sappiamo che essa è una risposta alla chiamata impressa nella nostra natura di esseri creati a immagine e somiglianza del Dio della comunione. Per questo la comunicazione biblica secondo la volontà di Dio è sempre legata al dialogo e alla responsabilità, come testimoniano, ad esempio, le figure di Abramo, Mosè, Giobbe e i Profeti, e mai alla seduzione linguistica, come è invece il caso del serpente, o di incomunicabilità e di violenza come nel caso di Caino. Il contributo dei credenti allora potrà essere di aiuto per lo stesso mondo dei media, aprendo orizzonti di senso e di valore che la cultura digitale non è capace da sola di intravedere e rappresentare.

In conclusione mi piace ricordare, insieme a molte altre figure di comunicatori, quella di padre Matteo Ricci, protagonista dell’annuncio del Vangelo in Cina nell’era moderna, del quale abbiamo celebrato il IV centenario della morte. Nella sua opera di diffusione del messaggio di Cristo ha considerato sempre la persona, il suo contesto culturale e filosofico, i suoi valori, il suo linguaggio, cogliendo tutto ciò che di positivo si trovava nella sua tradizione, e offrendo di animarlo ed elevarlo con la sapienza e la verità di Cristo.

Cari amici, vi ringrazio per il vostro servizio; lo affido alla protezione della Vergine Maria e, nell’assicurarvi la mia preghiera, vi imparto la Benedizione Apostolica.

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domenica 27 febbraio 2011

LE PAROLE DEL PAPA ALLA RECITA DELL'ANGELUS - 27 febbraio 2011


BENEDETTO XVI

ANGELUS

Piazza San Pietro
Domenica, 27 febbraio 2011

Croato, Francese, Inglese, Italiano, Portoghese, Spagnolo, Tedesco]


Cari fratelli e sorelle!

Nella Liturgia odierna riecheggia una delle parole più toccanti della Sacra Scrittura. Lo Spirito Santo ce l’ha donata mediante la penna del cosiddetto “secondo Isaia”, il quale, per consolare Gerusalemme abbattuta dalle sventure, così si esprime: “Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se costoro si dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai” (Is 49,15). Questo invito alla fiducia nell’indefettibile amore di Dio viene accostato alla pagina, altrettanto suggestiva, del Vangelo di Matteo, in cui Gesù esorta i suoi discepoli a confidare nella provvidenza del Padre celeste, il quale nutre gli uccelli del cielo e veste i gigli del campo, e conosce ogni nostra necessità (cfr 6,24-34). Così si esprime il Maestro: “Non preoccupatevi dunque dicendo: Che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Che cosa indosseremo? Di tutte queste cose vanno in cerca i pagani. Il Padre vostro celeste, infatti, sa che ne avete bisogno”.

Di fronte alla situazione di tante persone, vicine e lontane, che vivono in miseria, questo discorso di Gesù potrebbe apparire poco realistico, se non evasivo. In realtà, il Signore vuole far capire con chiarezza che non si può servire a due padroni: Dio e la ricchezza. Chi crede in Dio, Padre pieno d’amore per i suoi figli, mette al primo posto la ricerca del suo Regno, della sua volontà. E ciò è proprio il contrario del fatalismo o di un ingenuo irenismo. La fede nella Provvidenza, infatti, non dispensa dalla faticosa lotta per una vita dignitosa, ma libera dall’affanno per le cose e dalla paura del domani. E’ chiaro che questo insegnamento di Gesù, pur rimanendo sempre vero e valido per tutti, viene praticato in modi diversi a seconda delle diverse vocazioni: un frate francescano potrà seguirlo in maniera più radicale, mentre un padre di famiglia dovrà tener conto dei propri doveri verso la moglie e i figli. In ogni caso, però, il cristiano si distingue per l’assoluta fiducia nel Padre celeste, come è stato per Gesù. E’ proprio la relazione con Dio Padre che dà senso a tutta la vita di Cristo, alle sue parole, ai suoi gesti di salvezza, fino alla sua passione, morte e risurrezione. Gesù ci ha dimostrato che cosa significa vivere con i piedi ben piantati per terra, attenti alle concrete situazioni del prossimo, e al tempo stesso tenendo sempre il cuore in Cielo, immerso nella misericordia di Dio.

Cari amici, alla luce della Parola di Dio di questa domenica, vi invito ad invocare la Vergine Maria con il titolo di Madre della divina Provvidenza. A lei affidiamo la nostra vita, il cammino della Chiesa, le vicende della storia. In particolare, invochiamo la sua intercessione perché tutti impariamo a vivere secondo uno stile più semplice e sobrio, nella quotidiana operosità e nel rispetto del creato, che Dio ha affidato alla nostra custodia.


Dopo l'Angelus:

Alors que la solitude est une épreuve pour de nombreuses personnes, la liturgie nous rappelle aujourd’hui, chers pèlerins francophones, que Dieu ne nous oublie pas et que nous avons du prix à ses yeux. Puissions-nous acquérir un regard capable de discerner sa présence au cœur de notre vie! Car rechercher le Royaume de Dieu nous libère de la peur du lendemain et nous ouvre à la confiance et à l’espérance qui ne déçoit point. Je vous invite à être pour ceux qui vous entourent les témoins de l’amour de Dieu, plus tendre que celui d’une mère pour son enfant, et à prier pour que la justice et le dialogue l’emportent sur le profit et la violence. A tous, je souhaite un bon dimanche!

I welcome all the English-speaking pilgrims and visitors gathered for this Angelus prayer. In today’s Gospel Jesus invites us to trust in the provident care of our heavenly Father and to seek first his Kingdom and its righteousness. May his words inspire us to see all things in their true perspective and to live our lives in joyful faith and sure hope in God’s promises. Upon you and your families I invoke the Lord’s abundant blessings!

Gerne grüße ich die Pilger und Gäste aus den Ländern deutscher Sprache. Zur Grundhaltung des christlichen Lebens gehört das Vertrauen in Gottes Güte und Vorsehung. Bei aller notwendigen Sorge um die Dinge des täglichen Lebens darf das Eigentliche, das Wesentliche nicht aus dem Blick geraten, nämlich Gott selbst. „Es muß euch zuerst um das Reich Gottes und seine Gerechtigkeit gehen, dann wird euch alles andere dazugegeben“ (vgl. Mt 6,33), sagt uns der Herr im heutigen Evangelium. So wollen wir uns auch im Alltag der Gegenwart Gottes öffnen. Er hilft uns, unsere Aufgaben zu meistern, und macht uns bereit, den Mitmenschen in Not beizustehen. Euch allen wünsche ich einen gesegneten Sonntag und eine gute Woche.

Saludo con afecto a los peregrinos de lengua española presentes en esta oración mariana, en particular al grupo de peregrinos de las parroquias de Santa Eulalia y de Santa Cruz, de la diócesis de Ibiza, acompañados de su Obispo, así como a los fieles provenientes de la parroquia de San Miguel Arcángel de Villanueva, de Córdoba. La liturgia de este día nos exhorta a confiar en la providencia divina; recordándonos que somos amados por Dios y asistidos por su auxilio. Os invito a corresponder a dicho amor, a imitación de la Virgen María, cuya existencia terrena se mostró siempre bajo el signo de la gratuidad y de la alabanza, para que así experimentéis la paz verdadera y la alegría auténtica. Feliz domingo.

Serdeczne pozdrowienie kieruję do Polaków. Liturgia dzisiejszej niedzieli wzywa nas, abyśmy ufali Bożej Opatrzności i zawierzyli Jej wszystkie nasze troski, kłopoty i niepokoje o przyszłość. „Starajcie się naprzód o królestwo Boga i o Jego sprawiedliwość, a wszystko będzie wam dodane” – mówi Chrystus (Mt 6, 33). Niech nie gaśnie w nas ta ufność i niech budzi gotowość do pomocy tym, którzy ją tracą na skutek trudnych doświadczeń życiowych. Niech Bóg wam błogosławi.

[Rivolgo un cordiale saluto ai polacchi. La liturgia della domenica odierna ci invita ad avere fiducia nella Divina Provvidenza e ad affidarLe tutte le nostre angosce, difficoltà e preoccupazioni per il futuro: “Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta”. Non si spenga in noi questa fiducia e susciti in noi la prontezza ad aiutare coloro che la perdono a causa delle difficili esperienze di vita. Dio vi benedica!]

Srdečne pozdravujem slovenských pútnikov, osobitne z Cirkevného gymnázia Štefana Mišíka zo Spišskej Novej Vsi. Bratia a sestry, milí mladí, prajem vám, aby púť do Ríma posilnila vaše puto s Kristom a s jeho Cirkvou. Všetkých vás žehnám. Pochválený buď Ježiš Kristus!

[Rivolgo un cordiale saluto ai pellegrini slovacchi, particolarmente a quelli del Ginnasio Cattolico Štefan Mišík di Spišská Nová Ves. Fratelli e sorelle, cari giovani, vi auguro che il pellegrinaggio a Roma approfondisca il vostro legame con Cristo e con la sua Chiesa. A tutti la mia benedizione. Sia lodato Gesù Cristo!]

Infine, saluto con affetto i pellegrini di lingua italiana, in particolare la rappresentanza venuta in occasione della “Giornata per le malattie rare”, con una preghiera speciale e un augurio per la ricerca in questo campo. Saluto i fedeli provenienti da Moncalvo e Ivrea, da Giussano, Cologno al Serio, Modena, Rimini e Cervia, Incisa Valdarno, Foligno e Spello, dalla diocesi di Concordia-Pordenone e dalla parrocchia romana di Santa Francesca Cabrini; i Salesiani Cooperatori di Latina, l’associazione culturale “L’Ottimista”, il gruppo “Arcobaleno” di Modena, i ragazzi di Lodi e gli alunni della scuola “Don Carlo Costamagna” di Busto Arsizio. A tutti auguro una buona domenica e una buona settimana. Grazie per la presenza. Buona domenica!

© Copyright 2011 - Libreria Editric Vaticana




sabato 26 febbraio 2011

Nella Cappella Paolina l'ultima fatica di Michelangelo pittore "Il sacrificio di Pietro a imitazione del Maestro" (Antonio Paolucci)


Nella Cappella Paolina l'ultima fatica di Michelangelo pittore

Il sacrificio di Pietro
a imitazione del Maestro

Domenica 27 febbraio all'Auditorium Parco della Musica di Roma, per il ciclo "Lezioni d'arte sul museo a cielo aperto di Roma", il direttore dei Musei Vaticani tiene la conferenza "La Cappella Paolina dei Palazzi Apostolici". Dello stesso relatore pubblichiamo sull'argomento alcuni stralci dal volume Roma, Musei Vaticani (Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 2010, pp. 1114-1117).


di Antonio Paolucci

Tutti conoscono la Cappella Sistina visitata ogni anno da più di quattro milioni di persone. Pochi, al contrario, possono dire di aver sostato all'interno della Paolina, l'altra cappella papale all'interno dei Palazzi Apostolici. È esclusa dai percorsi museali, ci si può entrare solo per autorizzazione della Prefettura della Casa Pontificia, è il luogo di culto riservato al Papa, ai suoi ospiti, alla sua corte. Recentemente la Cappella Paolina è stata oggetto di un lungo e delicato restauro durato sette anni (2002-2009), curato dai tecnici dei Musei Vaticani sotto la guida di Maurizio De Luca e di Maria Pustka, inaugurata da Papa Benedetto XVI il 4 luglio 2009.

Non è facile (non però impossibile) visitare questo luogo eminente della storia dell'arte universale. Tuttavia il restauro recente è stato rivelatore di tali e tante novità e la pittura dell'ultimo Michelangelo è a tal punto decisiva per intendere il percorso artistico spirituale e umano di quel Grande, che accennare alla "nuova" Paolina è necessario.

La cappella è conosciuta nei documenti come parva perché le sue dimensioni sono relativamente piccole. È affrescata con gli episodi salienti della vita dei protoapostoli Pietro e Paolo. Quando sull'altare viene esposto il Santissimo Sacramento, il ruolo del Papa di Roma, custode del Corpus Christi nella legittimità della successione apostolica e nella fedeltà all'ortodossia vi è perfettamente significato. Questo spiega perché i romani pontefici hanno sempre custodito la cappella parva con ogni cura, modificandola e arricchendola nei secoli. Il fuoco dell'attenzione critica va da sempre ai due murali raffiguranti la Conversione di san Paolo e la Crocifissione di san Pietro, capolavori ultimi di Michelangelo pittore, e va al loro committente, Paolo III Farnese, il grande Papa che inaugurò il Giudizio in Sistina (1541) e aprì il concilio di Trento (1545). Ma molti sono i pontefici che si sono occupati della Paolina negli ultimi cinque secoli, molti gli artefici - pittori, decoratori, plasticatori, doratori - che si sono succeduti al suo interno. La Cappella Paolina è dunque una realtà plurima, stratificata e tuttavia omogenea e coerente. Alla base della filosofia che ha ispirato l'ultimo restauro, c'è stata la consapevolezza di questi fondamentali caratteri distintivi: la delicata e complessa orditura simbolica e iconografica che governa lo spazio sacro e gli dà significato, la coerente unità di tono, di colore, di stile, di omogeneo invecchiamento che i secoli ci hanno consegnato.

Ed ora alcune notizie essenziali sulla storia della Cappella Paolina. All'inizio c'è Paolo III Farnese. Fu lui a commissionarne la edificazione all'architetto Antonio da Sangallo (1537-1539) mentre affidava a Michelangelo l'esecuzione dei due celebri murali contrapposti.

Il Buonarroti che negli anni Quaranta del XVI secolo lavora in Paolina, è un uomo ormai avanzato negli anni, in cattiva salute, amareggiato e scontento. Era uscito spossato dalla immane fatica del Giudizio inaugurato alla vigilia di Ognissanti del 1541. A partire dal 1547, quando il Papa gli affida la responsabilità del nuovo San Pietro, la progettazione della Cupola assorbe tutte le sue energie, mentre lo angustiano le invidie, le gelosie, i continui contrasti con i Soprastanti alla Fabbrica.

Il cantiere della Paolina impegnò Michelangelo, con lunghe interruzioni fino al 1550. Prima dipinse il riquadro con la Conversione di Saulo, poi la Crocifissione di san Pietro. Quest'ultimo eseguito negli anni che videro dissolversi il suo universo intellettuale ed affettivo perché nel 1547 moriva Vittoria Colonna, l'amica e la confidente degli anni tardi, e nel 1549 lasciava questo mondo il "suo" Papa, Paolo III Farnese. Ora, dopo la rimozione della scura camicia di sporco e di ritocchi alternati e incongrui che li opprimeva, i murali del Buonarroti sono stati restituiti al meglio delle loro condizioni conservative e quindi al meglio della leggibilità e del godimento possibili. Gli affreschi di Michelangelo ci appaiono ora segnati dal tempo, logorati e consumati in più parti e tuttavia ancora terribilmente vivi ed eloquenti. Non li abbiamo riportati al "primitivo splendore" come scrivono i cattivi giornalisti, ma semplicemente consegnati a una possibilità di lettura finalmente oggettiva e allo stesso tempo gradevole. È tutto quello che si può e si deve chiedere a un buon restauro. Niente di più e niente di meno.

Il Michelangelo che affresca in Paolina negli anni Quaranta del Cinquecento, procede per giornate piccole, con lunghe interruzioni e molti pentimenti nella stesura pittorica. Le somiglianze con il Giudizio sono strettissime: stessa gamma cromatica, stessa imperiosa saldezza plastica, spesso stesse idee e stessi disegni riutilizzati nell'occasione. C'è semmai di più e di diverso, rispetto al Giudizio, una visione se possibile ancora più tragica e pessimistica della Umanità e della Grazia.

Quel Cristo che scende in picchiata da un cielo catastrofico ad afferrare, a "tirar su" Saulo disarcionato e accecato, precipita su gente terribile, violenta, stolida, disperata. Si ha l'impressione che il mistero della Grazia offerta a una umanità immeritevole angosci l'anima dell'artista che vive e testimonia, da cristiano, la crisi religiosa della sua epoca, divisa e lacerata dalla Riforma.


Questioni dottrinali e teologiche di grande momento sfiorano il murale con la Crocifissione di san Pietro, ultima sua opera in Cappella Paolina. Penso all'idea formidabile - non a caso ripresa, mezzo secolo dopo, da un altro Michelangelo, il Merisi da Caravaggio, nella Crocifissione della Cappella Cerasi in Santa Maria del Popolo - dell'Apostolo che nel momento di stendersi sulla croce ci guarda corrucciato, quasi dubbioso della utilità del suo martirio. Perché è quello sguardo terribile? Per tutti noi, certo, indegni di portare il nome di cristiani. Ma anche per i cardinali che un tempo qui si riunivano in Conclave e soprattutto per il Papa che entrando in Paolina non poteva sfuggire allo sguardo di san Pietro. Come se l'apostolo, disteso sulla croce, intendesse dire al suo successore: Tu es Petrus (Matteo, 16, 18) e ancora: "ricordati che il tuo è il mio destino, sii degno della mia testimonianza".

E che dire dei chiodi ben visibili sulle mani e sui piedi dell'Apostolo? Il restauro ha dimostrato, senza possibilità di dubbio, che i chiodi in origine non c'erano. Michelangelo non li aveva dipinti. Sono stati aggiunti in un tempo successivo. Nell'idea di Michelangelo, san Pietro si consegna volontariamente al sacrificio. Il suo corpo non toccato ancora dai segni del supplizio, è una specie di spirituale offertorio. Un offertorio che va al di là delle contingenze della storia, che deve essere continuo e sempre presente nella vita della Chiesa. La Crocifissione di san Pietro secondo Michelangelo è il monito del Vicario ai suoi successori nella sequela apostolica.

Abbiamo detto che Michelangelo, in Cappella Paolina, è coprotagonista di un insieme iconografico e stilistico unitario. Nel 1550 la decorazione pittorica era rimasta interrotta ai due murali con la Conversione di Saulo e la Crocifissione di san Pietro. Bisognava completarla con gli altri episodi della vita dei principi degli apostoli.

Dopo una interruzione lunga più di vent'anni, i lavori in Paolina ripresero sotto il pontificato di Gregorio XIII Boncompagni, uomo di profondi studi e di grande cultura, il committente della Galleria delle Carte Geografiche e della Torre dei Venti, il riformatore del calendario civile.

Papa Boncompagni chiamò i pittori Lorenzo Sabatini e Federico Zuccari perché completassero il ciclo iconografico, mentre decine di decoratori, di doratori, di stuccatori i cui nomi affollano i registri di pagamento, lavoravano al minuzioso e sontuoso arredo interno della Cappella.

Immaginate a questo punto i due pittori - Sabatini e Zuccari - chiamati a confrontarsi con Michelangelo, a dieci anni dalla sua morte, a quaranta dalla inaugurazione del Giudizio, quando era ancora fresca di stampa l'ultima edizione delle Vite di Giorgio Vasari, l'autore che aveva consegnato il nome di Buonarroti all'aura del genio ineguagliato e ineguagliabile e, quasi, allo statuto della "divinità".

I due, lusingati certo ma anche intimoriti dal confronto, vollero tenersi saggiamente sottotono, per nulla competitivi e anzi per quanto possibile mimetici del supremo modello (Sabatini nella Caduta di Simone Mago, lo stesso Zuccari nei modi allegorici della volta), attenti a non creare disarmonie nel contesto stilistico generale. Non diversamente si comportarono i molti artisti, artigiani, decoratori, restauratori che intervennero nel tempo all'interno della Cappella. Perché non c'è stato si può dire Papa che negli ultimi quattro secoli non si sia occupato in maniera più o meno rilevante della Cappella Paolina. L'ultimo intervento significativo, nel Novecento, è stato quello di Paolo VI Montini che realizzò (1974-1975) un discusso riordino della parte presbiteriale. Con il consenso di Papa Benedetto XVI quell'assetto è stato rimosso e il presbiterio restituito alla situazione precedente.

(©L'Osservatore Romano - 27 febbraio 2011)

Benedetto XVI all'assemblea generale della Pontificia Accademia per la vita. L'aborto volontario: "Una ferita nel cuore dell'essere umano"


L'aborto volontario nel discorso di Benedetto XVI all'assemblea generale
della Pontificia Accademia per la Vita

Una ferita nel cuore
dell'essere umano

L'aborto è un "dramma" per la donna e una "ferita gravissima" per la coscienza morale. Lo ha ribadito il Papa ricevendo in udienza stamane, sabato 26 febbraio, nella Sala Clementina, i partecipanti all'assemblea generale della Pontificia Accademia per la Vita.


Signori Cardinali
Venerati Fratelli nell'Episcopato
e nel Sacerdozio,
cari Fratelli e Sorelle,

vi accolgo con gioia in occasione dell'Assemblea annuale della Pontificia Accademia per la Vita. Saluto in particolare il Presidente, Mons. Ignacio Carrasco de Paula, e lo ringrazio per le sue cortesi parole. A ciascuno rivolgo il mio cordiale benvenuto! Nei lavori di questi giorni avete affrontato temi di rilevante attualità, che interrogano profondamente la società contemporanea e la sfidano a trovare risposte sempre più adeguate al bene della persona umana. La tematica della sindrome post-abortiva - vale a dire il grave disagio psichico sperimentato frequentemente dalle donne che hanno fatto ricorso all'aborto volontario - rivela la voce insopprimibile della coscienza morale, e la ferita gravissima che essa subisce ogniqualvolta l'azione umana tradisce l'innata vocazione al bene dell'essere umano, che essa testimonia. In questa riflessione sarebbe utile anche porre l'attenzione sulla coscienza, talvolta offuscata, dei padri dei bambini, che spesso lasciano sole le donne incinte. La coscienza morale - insegna il Catechismo della Chiesa Cattolica - è quel "giudizio della ragione, mediante il quale la persona umana riconosce la qualità morale di un atto concreto che sta per porre, sta compiendo o ha compiuto" (n. 1778). È infatti compito della coscienza morale discernere il bene dal male nelle diverse situazioni dell'esistenza, affinché, sulla base di questo giudizio, l'essere umano possa liberamente orientarsi al bene. A quanti vorrebbero negare l'esistenza della coscienza morale nell'uomo, riducendo la sua voce al risultato di condizionamenti esterni o ad un fenomeno puramente emotivo, è importante ribadire che la qualità morale dell'agire umano non è un valore estrinseco oppure opzionale e non è neppure una prerogativa dei cristiani o dei credenti, ma accomuna ogni essere umano. Nella coscienza morale Dio parla a ciascuno e invita a difendere la vita umana in ogni momento. In questo legame personale con il Creatore sta la dignità profonda della coscienza morale e la ragione della sua inviolabilità.

Nella coscienza l'uomo tutto intero - intelligenza, emotività, volontà - realizza la propria vocazione al bene, cosicché la scelta del bene o del male nelle situazioni concrete dell'esistenza finisce per segnare profondamente la persona umana in ogni espressione del suo essere. Tutto l'uomo, infatti, rimane ferito quando il suo agire si svolge contrariamente al dettame della propria coscienza. Tuttavia, anche quando l'uomo rifiuta la verità e il bene che il Creatore gli propone, Dio non lo abbandona, ma, proprio attraverso la voce della coscienza, continua a cercarlo e a parlargli, affinché riconosca l'errore e si apra alla Misericordia divina, capace di sanare qualsiasi ferita.

I medici, in particolare, non possono venire meno al grave compito di difendere dall'inganno la coscienza di molte donne che pensano di trovare nell'aborto la soluzione a difficoltà familiari, economiche, sociali, o a problemi di salute del loro bambino. Specialmente in quest'ultima situazione, la donna viene spesso convinta, a volte dagli stessi medici, che l'aborto rappresenta non solo una scelta moralmente lecita, ma persino un doveroso atto "terapeutico" per evitare sofferenze al bambino e alla sua famiglia, e un "ingiusto" peso alla società. Su uno sfondo culturale caratterizzato dall'eclissi del senso della vita, in cui si è molto attenuata la comune percezione della gravità morale dell'aborto e di altre forme di attentati contro la vita umana, si richiede ai medici una speciale fortezza per continuare ad affermare che l'aborto non risolve nulla, ma uccide il bambino, distrugge la donna e acceca la coscienza del padre del bambino, rovinando, spesso, la vita famigliare.

Tale compito, tuttavia, non riguarda solo la professione medica e gli operatori sanitari. È necessario che la società tutta si ponga a difesa del diritto alla vita del concepito e del vero bene della donna, che mai, in nessuna circostanza, potrà trovare realizzazione nella scelta dell'aborto. Parimenti sarà necessario - come indicato dai vostri lavori - non far mancare gli aiuti necessari alle donne che, avendo purtroppo già fatto ricorso all'aborto, ne stanno ora sperimentando tutto il dramma morale ed esistenziale. Molteplici sono le iniziative, a livello diocesano o da parte di singoli enti di volontariato, che offrono sostegno psicologico e spirituale, per un recupero umano pieno. La solidarietà della comunità cristiana non può rinunciare a questo tipo di corresponsabilità. Vorrei richiamare a tale proposito l'invito rivolto dal Venerabile Giovanni Paolo II alle donne che hanno fatto ricorso all'aborto: "La Chiesa sa quanti condizionamenti possono aver influito sulla vostra decisione, e non dubita che in molti casi s'è trattato d'una decisione sofferta, forse drammatica. Probabilmente la ferita nel vostro animo non s'è ancor rimarginata. In realtà, quanto è avvenuto è stato e rimane profondamente ingiusto. Non lasciatevi prendere, però, dallo scoraggiamento e non abbandonate la speranza. Sappiate comprendere, piuttosto, ciò che si è verificato e interpretatelo nella sua verità. Se ancora non l'avete fatto, apritevi con umiltà e fiducia al pentimento: il Padre di ogni misericordia vi aspetta per offrirvi il suo perdono e la sua pace nel sacramento della Riconciliazione. Allo stesso Padre e alla sua misericordia potete affidare con speranza il vostro bambino. Aiutate dal consiglio e dalla vicinanza di persone amiche e competenti, potrete essere con la vostra sofferta testimonianza tra i più eloquenti difensori del diritto di tutti alla vita" (Enc. Evangelium vitae, 99).

La coscienza morale dei ricercatori e di tutta la società civile è intimamente implicata anche nel secondo tema oggetto dei vostri lavori: l'utilizzo delle banche del cordone ombelicale, a scopo clinico e di ricerca. La ricerca medico-scientifica è un valore, e dunque un impegno, non solo per i ricercatori, ma per l'intera comunità civile. Ne scaturisce il dovere di promozione di ricerche eticamente valide da parte delle istituzioni e il valore della solidarietà dei singoli nella partecipazione a ricerche volte a promuovere il bene comune. Questo valore, e la necessità di questa solidarietà, si evidenziano molto bene nel caso dell'impiego delle cellule staminali provenienti dal cordone ombelicale.

Si tratta di applicazioni cliniche importanti e di ricerche promettenti sul piano scientifico, ma che nella loro realizzazione molto dipendono dalla generosità nella donazione del sangue cordonale al momento del parto e dall'adeguamento delle strutture, per rendere attuativa la volontà di donazione da parte delle partorienti. Invito, pertanto, tutti voi a farvi promotori di una vera e consapevole solidarietà umana e cristiana. A tale proposito, molti ricercatori medici guardano giustamente con perplessità al crescente fiorire di banche private per la conservazione del sangue cordonale ad esclusivo uso autologo. Tale opzione - come dimostrano i lavori della vostra Assemblea - oltre ad essere priva di una reale superiorità scientifica rispetto alla donazione cordonale, indebolisce il genuino spirito solidaristico che deve costantemente animare la ricerca di quel bene comune a cui, in ultima analisi, la scienza e la ricerca mediche tendono.

Cari Fratelli e Sorelle, rinnovo l'espressione della mia riconoscenza al Presidente e a tutti i Membri della Pontificia Accademia per la Vita per il valore scientifico ed etico con cui realizzate il vostro impegno a servizio del bene della persona umana. Il mio augurio è che manteniate sempre vivo lo spirito di autentico servizio che rende le menti e i cuori sensibili a riconoscere i bisogni degli uomini nostri contemporanei. A ciascuno di voi e ai vostri cari imparto di cuore la Benedizione Apostolica.

(©L'Osservatore Romano - 27 febbraio 2011)

Antonio Cañizares: “Solo la vida litúrgica podrá volvernos verdaderamente a Dios”


“Solo la vida litúrgica
podrá volvernos verdaderamente a Dios”

Antonio Cañizares
Cardenal Prefecto de la Congregación para
el Culto Divino y la Disciplina de los Sacramentos


Translated by Google in: [ Italiano - English ]




(Texto: Antonio Pelayo. Fotos: Grzegorz Galazka)

Antonio Cañizares es un hombre afable, sencillo, en cuya mirada relumbra de vez en cuando una chispa de picardía y, siempre, un resplandor de inteligencia. Han pasado poco más de dos años desde su llegada al frente de la Congregación para el Culto Divino y la Disciplina de los Sacramentos, y estas cualidades le han dado autoridad entre sus “colegas” de la Curia, que no son un público fácilmente indulgente, y le han abierto muchas puertas, incluso las menos accesibles. Es cosa sabida en Roma que traspasa con alguna frecuencia las del “apartamento” privado de Benedicto XVI.

Esta entrevista ha tenido una negociación fácil. Se le planteó hace ya algún tiempo y su respuesta inmediata fue positiva. Hubiéramos querido aprovechar la fecha de su segundo aniversario como prefecto de la Congregación, pero se retrasó. El cardenal no ha soslayado ni una sola de nuestras preguntas y preferimos que pusiera por escrito lo que hemos hablado en más de una ocasión cara a cara.


Ya lleva en Roma suficiente tiempo para transmitirnos un balance personal de este período. ¿Cuál es?

Han sido dos años intensos, muy intensos; como es obvio, en mi vida y actuación personal al servicio total de la Iglesia se ha dado un gran cambio. ¡Cuántos hechos, cuántas experiencias nuevas y de hondo calado, cuántas vivencias de fe, hondamente eclesiales, se han producido a lo largo de estos años! Una etapa muy rica en todos los sentidos, un tiempo de gracia, un verdadero paso de Dios por mi vida; solo Dios lo sabe. Esto es lo primero y principal.

¿Balance, valoración de estos años? Lo dejo en manos de Dios y de la Iglesia. Particularmente, y con mirada serena y objetiva, veo este tiempo como un camino abierto de esperanza con no pocos proyectos merecedores de toda atención y dedicación, encaminados todos ellos, y en su conjunto, a impulsar un decidido y amplio movimiento para reavivar el genuino sentido y el espíritu de la Liturgia en la Iglesia. Esto es lo que se me ha encomendado, y con el auxilio de Dios y tantos otros auxilios que tanto necesitamos y que nunca faltan, estamos intentando llevarlo a cabo con ánimo agradecido, confianza y gran esperanza. La tarea no es fácil, pero, créame, es apasionante.

¿Le ha defraudado la Curia? ¿La calificaría de organismo necesario, eficaz, respetuoso con las Iglesias particulares?

¿Por qué había de defraudarme, si a ella, sin buscarlo ni pretenderlo, me han llamado a trabajar como jornalero en la viña del Señor? ¿Defraudarme, en qué, si no he puesto condición alguna ni he pedido nada ni ningún “salario”? Con toda sencillez, mi incorporación a los trabajos de la Curia romana para colaborar con el Santo Padre y ayudarle en la misión que me ha encomendado al servicio de la Iglesia universal está siendo para mí un don de Dios; desde aquí, se siente y se vive con una intensidad particular la realidad y el misterio de la Iglesia, la presencia del Señor en ella, los gozos, esperanzas, penas y sufrimientos de la humanidad entera, se amplía la visión eclesial y de fe, etc.

Es verdad que esta incorporación a la Curia ha sido, de alguna manera, una novedad en mi vida de pastor; mi vida ha tomado un rumbo nuevo e inesperado, he vivido la experiencia innegable de un cierto despojamiento, y echo en falta, sin duda, el trabajo pastoral directo y en línea de trinchera, por utilizar un símil de combate inherente siempre a la fe y a la misión. Con todo, no es lo mismo acudir, venir, a la Curia o, incluso, colaborar en alguno de sus organismos, como miembro de una Congregación, por ejemplo, que estar de lleno metido en ella, trabajando en ella, siendo parte de ella, sirviendo a la Iglesia universal en ella.

Desde dentro ves la importancia y el gran servicio que presta la Curia romana a las Iglesias particulares, el trabajo ingente y silencioso que se lleva a cabo, el sumo cuidado que se tiene en atender a sus demandas y necesidades, la labor enorme que se despliega en su conjunto… La Curia es necesaria, y hasta imprescindible, diría, como servicio de comunión y de aliento. Seguramente se podrían y se deberían renovar cosas para hacerla más ágil, rápida, “pastoral” y de mayor interacción y de mayor fecundación mutua entre sus diversos dicasterios y entre los que en ella trabajamos; tal vez, piensan algunos, se requeriría que fuese más dinamizadora y animadora, en cierto modo, como el gran motor de la Iglesia; creo que lo es y puede y debe serlo aún más, sin ahogar nada. Todo eso es posible; depende de todos.

¿Renovación litúrgica?

¿Hay un retroceso en materia litúrgica? ¿Cuáles son las claves de la “reforma de la reforma”?

No sé si podemos hablar de retroceso, porque primero habría que saber si antes ha habido o no un avance, o en qué puntos y en qué aspectos se ha dado ese progreso; también pudiera suceder que, en algunas ocasiones y subjetivamente, se haya considerado o visto como avance lo que en realidad no lo era, o no lo era suficientemente, o no se apoyaba en los fundamentos en que debería sustentarse. Nadie puede poner en duda que el Vaticano II ha puesto la sagrada liturgia, con la Palabra de Dios, en el centro de la vida y misión de la Iglesia; es muy significativo, en el lenguaje de los acontecimientos por los que Dios habla, el hecho de que la Constitución Sacrosanctum Concilium fuese el primer texto aprobado; es innegable, además, que desde allí se ha producido una gran renovación litúrgica.

Ahora bien, ¿se puede afirmar que todo lo que se ha hecho y hace es la renovación querida por el Concilio? ¿La renovación querida e impulsada en verdad por el Concilio ha penetrado suficientemente y ha llegado a sus aspectos medulares en la vida y misión del Pueblo Dios? ¿Se puede llamar renovación conciliar y desarrollo a todo lo que ha venido después? Hemos de ser humildes y sinceros: ¿la principal y gran llamada del Concilio a que la liturgia fuese la fuente y la meta, la cima de toda la vida cristiana, se está cumpliendo en la conciencia de todos, sacerdotes y laicos, o, al contrario, está aún muy lejos de que sea así? ¿El pueblo de Dios, fieles y pastores, vive de verdad de la liturgia, está en el centro de nuestras vidas? ¿Se han enseñado y asimilado las enseñanzas conciliares, se ha mantenido una fidelidad a las mismas, o se las ha interpretado correctamente en la clave de la continuidad que pide el Papa?

No planteo preguntas retóricas; hoy es muy necesario hacérselas. Las respuestas siempre nos volverán al mismo origen: al Concilio. Por eso, las claves por las que usted me pregunta para la así llamada “reforma de la reforma” no son otras que las ya dadas por el Concilio Vaticano II en Sacrosanctum Concilium y el posterior magisterio de los papas, que indican e interpretan auténticamente sus enseñanzas conforme a una “hermenéutica de la continuidad”.

En eso estamos. Añado: vivimos una situación dramática caracterizada por el olvido de Dios y el vivir como si Dios no existiese; esto, como es evidente y palpable, está teniendo unas gravísimas consecuencias para los hombres. Solo la vida litúrgica puesta en el centro de todo, solo una renovación litúrgica en profundidad, solo el devolver a la liturgia, singularmente a la Eucaristía, el lugar que le corresponde en la vida de la Iglesia, de los sacerdotes y fieles, tal como la Iglesia la entiende, la orienta y la regula, en fidelidad a su naturaleza y a la Tradición, podrá volvernos verdaderamente a Dios, situar a Dios en el centro, fundamento, sentido y meta de todo, y así hacer posible una humanidad nueva, hecha de hombres y mujeres nuevos que adoran a Dios, abrir caminos de esperanza e iluminar el mundo con la luz y belleza de la caridad que de la liturgia brota: la liturgia nos sitúa ante Dios mismo, la acción de Dios, su amor; solo podremos impulsar una urgente y apremiante nueva evangelización si la liturgia recobra el lugar que le pertenece en la vida de todos los cristianos.

Es preciso, según veo, reconocer que la liturgia hoy no está siendo el “alma”, la fuente y la meta de la vida de muchos cristianos, fieles o sacerdotes: ¡cuánta rutina y mediocridad, cuánta trivialización y superficialidad se nos ha metido!; ¡cuántas misas celebradas de cualquier manera o participadas en cualquier disposición!; de ahí nuestra gran debilidad. Es muy necesario llevar a la conciencia de los fieles que la liturgia es, ante todo, obra de Dios, y que nada se puede anteponer a ella. Solo Dios, la “revolución de Dios”, Dios en el centro de todo, podrá renovar y cambiar el mundo.

Se habla mucho de una reestructuración del dicasterio que preside, el cual perdería todo lo correspondiente a la disciplina de los sacramentos. ¿Qué puede decirnos de eso?

Entre los proyectos inmediatos, en el marco de la respuesta que la Congregación ha de dar a los presentes desafíos, tenemos el de la reestructuración del dicasterio, que afecta, por ejemplo, a la creación de una sección nueva para la música y el arte sagrados al servicio de la liturgia; otro aspecto de esta misma reestructuración se refiere a la transferencia a otro organismo de la Santa Sede del “oficio matrimonial” para el caso del matrimonio “rato y no consumado”; ya pasó, hace años, a Clero, la dispensa de las obligaciones sacerdotales.

Por ahí ha corrido, como usted dice, que ya no se va a ocupar de los sacramentos, o que va a desaparecer de nuestra competencia el aspecto de la “disciplina” de los sacramentos; ambas cosas son imposibles, ya que liturgia y sacramentos van unidos, son una misma cosa, y, además, la disciplina pertenece a la misma entraña de los sacramentos y de la liturgia; la liturgia siempre comporta una regula, una regulación, también canónica, y esto es algo que se debe cuidar y atender con suma diligencia: se trata, en último término también, del ius divinum, que está en juego en la disciplina de los sacramentos.

Hay normas que cumplir, un derecho que acatar –el de Dios– y también abusos que corregir. Por eso, en modo alguno desaparece de la Congregación la “disciplina de los sacramentos”; al contrario, quedará reforzada. Por lo demás, todo ello permitirá dedicar y concentrar la mayoría de los no pocos esfuerzos y trabajos que se necesitan en todo aquello que posibilite intensificar el movimiento litúrgico que sigue vivo, como obra del Espíritu Santo, del Vaticano II.

“El Papa de lo esencial”

Algunos piensan que está usted demasiado tiempo fuera de Roma. ¿Tiene algo que responder al respecto?

Uno puede pensar o imaginar lo que quiera, es muy libre de hacerlo. No me importa que algunos piensen así. Pero la verdad es otra. Siento de veras desmentirlo; sencillamente, no es así. De todas las maneras, permítame decirle que me sorprende saber que algunos estén pendientes de si yo salgo o entro, de si estoy o no en mi despacho, cuando hay tantas cosas que son mucho más importantes para la liturgia relacionadas con la actual labor que desempeño. Ignoraba, por lo demás, que tuviese vigilantes de mis pasos, pues solo vigilando mis entradas y salidas se podría hacer, con verdad y fundamento, tal aserto, o se podría pensar de semejante manera; lamento que no acierten o no informen bien mis presuntos vigilantes u observadores. Vivo, en estos momentos, por completo para la Congregación; mis salidas fuera de Roma –muchas menos de las que me solicitan– son en claro y total beneficio de la misión eclesial encomendada. Y las horas que dedico en casa y en días de fiesta solo Dios las conoce.

¿Cómo son actualmente sus relaciones con el Santo Padre? ¿Mantienen otros contactos además de las entrevistas de trabajo?

Siempre he recibido la gracia inmensa y regalo inmerecido de recibir del Santo Padre un trato exquisito y fraterno, maravilloso; el tiempo que llevo en Roma puedo asegurarle que su cercanía, su afecto, su ayuda, su aliento, su atención, aún las siento todavía mayores, y nunca se lo agradeceré suficientemente: esto da mucho ánimo. Creo, además, que así es con todos y para todos nuestro queridísimo Papa. Con el Papa se tienen encuentros de muchas maneras, a veces, por ejemplo, en reuniones con otros responsables de dicasterios.

Benedicto XVI va a cumplir 84 años y lleva ya casi seis al frente de la Iglesia. Le pido que defina su mayor aportación a la Iglesia.

Me pide usted que “defina”; eso es imposible; sería una osadía por mi parte. “Definir” es siempre recortar; y una persona tan rica y una obra tan enorme y grandiosa como la que él está llevando a cabo yo no sabría “definirla”, sin mutilarla y empobrecerla. De todos modos, siendo muy atrevido, le digo que es el “Papa de lo esencial”, y que lo “esencial”, ya nos lo dijo en la homilía de la Santa Misa con que oficialmente iniciaba su pontificado, es “hacer la voluntad de Dios”, ser testigo de Dios y de lo que Dios quiere, hacer lo que Él quiere, y su voz es muy clara. Es el Papa que está poniendo a Dios en el centro de todo, que nos recuerda permanentemente a Dios, y la centralidad de Dios, que tiene un rostro humano, su Hijo único, Jesucristo, que es Amor, y que su “pasión” es el hombre, inseparable enteramente de Dios. Esta es la cuestión fundamental de todas, siempre, sobre todo en estos momentos.

A partir de aquí entiendo su pontificado: por ejemplo, sus tres encíclicas, sus exhortaciones apostólicas, su máximo interés y atención a la liturgia y a la Eucaristía, a la Palabra de Dios, su llamada constante a la purificación de la Iglesia, a la conversión de los mismos cristianos en el sentido radical que él la entiende, su labor incanable en favor de la unidad, y su defensa, como nadie, de la verdad y de la razón, y, por tanto, de la libertad verdadera de todo hombre.

En este momento, díganos cuáles son sus mayores preocupaciones en torno al futuro de la Iglesia en España.

Lo he dicho muchas veces y en repetidas ocasiones: mi gran preocupación es que los hombres crean, porque no da lo mismo creer que no creer: el problema radical de España, el que está en la base de la situación tan grave que atraviesa, como si estuviese desangrándose y desplomándose, tiene su raíz en el olvido de Dios, en pretender vivir como si Dios no existiese, y al margen de Él, la laicización tan grande y radical que algunas corrientes pretenden, o la secularización interna de la misma Iglesia, el olvido de su identidad y raíces y su rica aportación a la Iglesia y al mundo. Por eso la Iglesia en España debería releer y meditar todo cuanto nos dijo el Papa en su reciente viaje a España, y volver a meditar el propio magisterio de los obispos españoles, tan rico y sugerente, por ejemplo, su Instrucción del 2006 Orientaciones morales, o también, La verdad os hará libres, o Testigos del Dios vivo, para ver que el gran desafío que tenemos es una nueva, apremiante y valiente evangelización, una decidida renovación de una nueva pastoral para la “iniciación cristiana”, para hacer cristianos.

Ahí se condensa todo, y ahí está todo su futuro y sus quehaceres inaplazables. El Papa, en el fondo, nos dijo lo mismo que Juan Pablo II dijo desde Santiago a Europa: “España, sé tú misma”, con la riqueza, la fuerza de tu fe, la capacidad evangelizadora, y de creación de cultura que comporta esa fe y esas raíces profundamente cristianas, etc.

Un gran desafío de la Iglesia en España es recobrar el vigor de una fe vivida capaz de edificar una humanidad nueva, tener más confianza en sí misma, no tener miedo, ser libre, vivir una profunda unidad, renovar el tejido de la sociedad renovando inseparablemente el tejido de nuestras comunidades. El aliento y el vigor de los sacerdotes, las vocaciones sacerdotales, las vocaciones religiosas, la iniciación cristiana, la presencia de los fieles cristianos en la vida pública, no a pesar de su fe, sino precisamente por ella, la pastoral de la santidad, el fortalecimiento de la unidad y de la comunión… son desafíos que tenemos. Una gran esperanza es la Jornada Mundial de la Juventud, un don de Dios a la Iglesia en España en estos momentos. La gran consigna es la que nos dejó Juan Pablo II en su último viaje a nuestra patria: “España evangelizada, España evangelizadora. Ese es tu camino”.

La Iglesia española, ¿le parece preparada para afrontar estos desafíos?

Naturalmente que sí. La Iglesia en España tiene una gran vitalidad que, a veces, nosotros, los españoles, no sabemos reconocer y apreciar en su justa medida: somos así; desde fuera se aprecia y valora más y mejor la fuerza interior de la Iglesia en España, manifestada en su fidelidad largamente probada al Evangelio, en su sin par actividad evangelizadora y en su amplia presencia misionera, en tantas iniciativas, en tantas tomas de posición, en tantos empeños apostólicos, en esa su gran historia, que, a pesar de lagunas y errores humanos, es digna de admiración y aprecio; esa historia debería ser inspiración y estímulo para ofrecer el ejemplo a proseguir y mejorar el futuro.

Estimo necesario reavivar la confianza en las capacidades de la Iglesia en España; no son otras que las de Jesucristo presente en ella, la muchedumbre de santos y de mártires que llenan su historia, las familias todavía con principios y fundamentos cristianos, la riqueza oculta y la fuerza tan extraordinaria de la vida contemplativa en España, la religiosidad popular, su rico y vivo patrimonio cultural y social cristiano, su sentido profundamente mariano, la escuela católica y las universidades de la Iglesia… Los temores y los complejos pueden agarrotarnos.

Es la hora de la fe y de la confianza; es la hora de la verdad y de ser libres con la libertad de quien se apoya en Dios; es la hora de la esperanza que no defrauda; la hora de vivir y anunciar su gran y única riqueza –Jesucristo–: esta no la puede olvidar, ni silenciar ni dejar morir. Es preciso recordarnos, en el preciso momento histórico de hoy, aquellas lapidarias palabras del papa Juan Pablo II al llegar a Barajas en su primer viaje: “Es necesario que los católicos españoles sepan recobrar el vigor pleno del espíritu, la valentía de una fe vivida, la lucidez evangélica iluminada por el amor profundo al hermano”. Esa es la preparación que se necesita.

La prensa en general, y la que se ocupa más específicamente de la información religiosa, ¿está distraída con otros temas?

Algunos parece que están distraídos, no se enteran o no se quieren enterar. Los problemas de fondo frecuentemente no están donde los señalan; por ejemplo, no está en si el Gobierno dicta esta u otra ley, o si tiene tal o cual gesto o palabra y si se da tal o cual reacción; ni se juega todo en el tablero de la política, ni la Iglesia entra en ese juego, ni se puede ver todo en clave política, ni reducir todo a una simple interpretación política de la presencia y relaciones de la Iglesia con el mundo, con los hombres de hoy; ni juzgarlo todo con el esquema de conservadores y progresistas, modernos o ajenos a la modernidad que se lleva en el ambiente; no está tampoco en las cuestiones de “política eclesiástica” o en comentarios “clericales de sacristía” que hacen tanto daño y no construyen ni siembran nada. No. Eso no es entrar en lo que es la Iglesia y en lo que esta puede y debe aportar a las gentes y a nuestro país. Reconozco que me gustaría encontrar una visión más amplia y abierta, más centrada en lo que verdaderamente es e importa, más honda y profundizada de las reales cuestiones, que son las que aportan y construyen.

La necesaria unidad

Van a celebrarse elecciones en la Conferencia Episcopal Española. ¿Ha llegado el momento de la renovación?

Siempre es el momento de elegir conforme al querer de Dios y buscando el bien únicamente de la Iglesia –fuera otras cosas–, sin olvidar el momento concreto que vivimos. Así sucederá en las próximas elecciones. Lo que a mí me toca –y a todos– es orar a Dios por mis hermanos obispos –todos los días lo hago– para que Dios los ilumine y elijan conforme al querer divino. Pido a Dios que todo fortalezca la unidad, tan urgente y necesaria, y avive la esperanza, en la actual situación que vivimos. Unas elecciones siempre son importantes. El momento difícil y crucial que vivimos, los desafíos que tenemos hacen de estas elecciones una de las más interesantes e importantes de la historia de la Conferencia. La responsabilidad y la prudencia de nuestros obispos está más que asegurada y probada en la rica y larga historia de la Conferencia Episcopal.

Se registran ciertas tensiones entre los obispos y los religiosos. ¿Qué opinión le merece este fenómeno?

Siempre es necesaria la unidad. En estos momentos, todavía más. La escuela católica, por ejemplo, está en grave riesgo y entre todos –obispos, religiosos… muy unidos– hemos de salvarla y fortalecerla. Todos a una, hemos de apoyar decididamente a la escuela católica. Dividirnos, por ejemplo, a causa de esta cuestión sería de una ceguera notabilísima, sería un pecado contra la obra de evangelización, que siempre es obra del Espíritu.

Ciertos comentaristas opinan que el suyo a Roma es un viaje de ida y vuelta. ¿Piensa volver a una “vida activa” en España?

Nunca me he ido ni me iré de España; como todos los españoles, y como hombre de Iglesia, siempre trabajaré y serviré hasta la extenuación por España. Me ha ayudado mucho a pensar así la figura del gran Juan Pablo II, y, particularmente, su obra autobiográfica Memoria e identidad. Otra cosa no podría entenderla. Eso no está reñido con mi actual trabajo en la Iglesia como prefecto de la Congregación para el Culto, ni le resta tampoco nada; más aún, eso le da concreción y vitalidad a esta misma misión. Con todo, tengo que decirle que nunca he elegido yo dónde ir; como sacerdote, siempre he hecho lo que era la voluntad de mi obispo; y como obispo, en todo he secundado y obedecido libremente y sin condiciones lo que el Papa ha decidido y me ha pedido: esa es la voluntad de Dios. Haré siempre, con su ayuda, lo que Dios quiera.

¿Está dividido el episcopado español?

No; claramente no; gracias a Dios no es un episcopado monocolor ni homogéneo; hay diversidad de pareceres y normales preferencias. De ahí no se puede deducir división. Nada ni nadie, ni de dentro ni de fuera, debería palidecer o debilitar esa unión en la diversidad; todo lo que sea fortalecer, como una piña, la unidad es clave para una nueva evangelización y para un futuro de esperanza. Si antes dije “España evangelizada, España evangelizadora, ese es tu camino”, ahora añado que solo es posible andar este camino con una fuerte unidad del episcopado; creo que todos somos conscientes de ello.

En el nº 2.743 de Vida Nueva

VIII Domenica del Tempo Ordinario, Anno A - Domínica in Sexagésima (27 febbraio 2011)


MISSALE ROMANUM
Domenica, 27 Febbraio 2011

FORMA ORDINARIA


FORMA STRAORDINARIA

L'uomo semplice e retto, timorato di Dio

Dai «Commento al libro di Giobbe» di san Gregorio Magno, papa
(Lib. 1, 2. 36; PL 75, 529-530. 543-544)

C'è un genere di semplicità che meglio sarebbe chiamare ignoranza. Essa consiste nel non sapere neppure che cosa sia rettitudine. Molti abbandonano l'innocenza della vera semplicità, proprio perché non sanno elevarsi alla virtù e all'onestà. Poiché sono privi della vera prudenza che consiste nella vita buona, la loro semplicità non sarà mai sinonimo di innocenza.

Perciò Paolo ammonisce i discepoli: «Voglio che siate saggi nel bene e immuni dal male» (Rm 10, 19). E soggiunge: «Non comportatevi da bambini nei giudizi; siate come bambini quanto a malizia (1 Cor 14, 20).

Per questo anche la stessa Verità ingiunge ai discepoli: «Siate prudenti come i serpenti e semplici come le colombe» (Mt 10, 16). Ha unito necessariamente l'una e l'altra cosa nel suo ammonimento, in modo che l'astuzia del serpente ammaestri la semplicità della colomba, e la semplicità della colomba moderi l'astuzia del serpente.

Per questo lo Spirito Santo ha manifestato la sua presenza agli uomini sotto forma non soltanto di colomba, ma anche di fuoco. Nella colomba viene indicata la semplicità, nel fuoco l'entusiasmo per il bene. Si mostra nella forma di colomba e nel fuoco perché quanti sono ricolmi di lui, praticano una forma tale di mitezza e di semplicità da infiammarsi d'entusiasmo per le cose sante e belle e di odio per il male.

«Uomo integro e retto, temeva Dio ed era alieno dal male» (Gb 1, 1). Chiunque tende alla patria eterna vive indubbiamente con semplicità e rettitudine: è semplice cioè nell'operare, retto nella fede; semplice nel bene materiale che compie, retto nei beni spirituali che percepisce nel suo intimo. Vi sono infatti certuni che non sono semplici nel bene che fanno, poiché ricercano in esso non la ricompensa all'interno, ma il plauso all'esterno. Perciò ha detto bene un sapiente: «Guai al peccatore che cammina su due strade!» (Sir 2,12). Ora il peccatore cammina su due strade, quando compie quello che è di Dio, ma desidera e cerca quello che è del mondo.

Bene anche è detto: «Temeva Dio ed era alieno dal male»; perché la santa Chiesa degli eletti intraprende nel timore le strade della sua semplicità e rettitudine, ma le conduce a termine nella carità. Uno si allontana completamente dal male, quando per amore di Dio comincia a non voler più peccare. Se invece fa ancora il bene per timore, non si è del tutto allontanato dal male; e pecca per questo, perché sarebbe disposto a peccare, se lo potesse fare impunemente.

Perciò quando si dice che Giobbe teme Dio, giustamente è detto anche che si teneva lontano dal male, poiché mentre la carità sostituisce il timore, la colpa che viene abbandonata dalla coscienza, viene pure calpestata dal proposito della volontà.

Maranatha.it "mobile" - Messale & Liturgia delle Ore aggiornata (26 febbraio 2011)


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L'edizione "mobile" del Messale & Liturgia delle Ore e stata aggiornata oggi
per il download delle 4 settimane del calendario liturgico
(VIII e IX settimana del T.O., I e II settimana di Quaresima ).

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venerdì 25 febbraio 2011

Gli edifici simbolo del dialogo tra Dio e l'uomo. "Cattedrali cuore d'Europa" (Timothy Verdon)


Gli edifici simbolo del dialogo tra Dio e l'uomo

Cattedrali cuore d'Europa


di Timothy Verdon

Al cuore di ogni città europea di qualche importanza, vi è una cattedrale, segno della presenza - in un arco di secoli più o meno lungo - di una comunità cristiana operosa. Tipicamente grande, questa struttura s'impone sulla coscienza del cittadino come del turista, costituendosi un tratto significativo della fisionomia del luogo. Depositaria d'innumerevoli cimeli del passato, invita a cogliere l'identità storica degli abitanti del posto, e a collegarla allo slancio creativo ingenerato dalla fede; la bellezza dell'edificio e dell'arte che l'arricchisce infatti fornisce una chiave di lettura della vita interiore di coloro che l'hanno voluta, costruita e mantenuta, cifra sicura dei valori collettivi che da due millenni plasmano l'esperienza spirituale d'Europa.

Il primo di questi valori è religioso: quello di un rapporto privilegiato con Dio. Le cattedrali sono emblematiche di questo rapporto: sono chiese ossia case di preghiera per un popolo che si crede convocato da Dio.

Sono chiese speciali, poi, normalmente più grandi e belle di altre perché - come il biblico tempio di Gerusalemme - accolgono la vita non dei soli abitanti del posto ma di tutti coloro che Dio chiama; ogni cattedrale infatti simboleggia l'universalità della vocazione cristiana e merita il nome che la Bibbia attribuisce all'antico tempio ebraico: "Una casa di preghiera per tutti i popoli" (Isaia, 56, 7). Proprio questa frase verrà citata da Gesù quando, prima della sua passione, Egli libera il tempio di Gerusalemme da venditori e cambiavalute, dicendo: "Non sta forse scritto: La mia casa sarà chiamata casa di preghiera per tutte le genti? Voi invece ne avete fatto una spelonca di ladri!" (Marco, 2, 17; cfr. Matteo, 21, 12-13; Luca, 19, 46).

Ogni cattedrale simboleggia cioè l'universalità di un rapporto con Dio purificato da Cristo, e si offre come quel "luogo" di cui egli parlava alla Samaritana, dove "i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità; perché il Padre cerca tali adoratori" (Giovanni, 4, 23). Le cattedrali sono case di preghiera per coloro che, rispondendo a Dio, si lasciano trasformare in veri adoratori; sono segni permanenti di un rapporto dinamico, che trasforma l'uomo nei suoi rapporti con altri uomini, anzi con "tutti i popoli".

All'interno di questi edifici vi è poi un altro segno, che spiega pienamente il senso del termine "cattedrale": la cattedra o sedia del vescovo, spesso realizzata in materiali nobili e forme monumentali. Ciò che distingue una cattedrale da altre chiese è infatti la presenza di questa sedia del ministro ecclesiastico considerato un successore degli apostoli inviati da Cristo a tutte le nazioni, l'episcopus o vescovo.


L'universalità della cattedrale dipende, in effetti, dall'universalità della missione affidata da Cristo ai suoi apostoli dopo la risurrezione, quando disse loro: "Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato" (Matteo, 28, 19-20). In pratica, la cattedra posta in prossimità all'altare esplicita le funzioni assegnate in quell'occasione da Cristo, di ammaestrare e santificare tutte le nazioni. Il magistero dei vescovi al servizio della santificazione di successive generazioni, nei luoghi dove sorgono cattedre e cattedrali, è poi un elemento costitutivo della promessa trasformazione dei credenti in veri adoratori del Padre.

Insieme all'insegnamento e alla santificazione dei popoli loro affidati, i vescovi hanno una terza funzione, pure questa comunicata dalla cattedra e dall'associata struttura architettonica: quella di governare in persona Christi.

Il comando di ammaestrare e battezzare tutte le nazioni, nell'appena citato brano del Vangelo, viene infatti introdotto e completato da frasi che riguardano l'eccelsa autorità del Salvatore perdurante nei suoi inviati. "Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra", dice; e poi: "Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo" (Matteo, 28, 18 e 20b).

La frequente presentazione della cattedra come trono e della cattedrale come aula regia (basilica) derivano da quest'ultima funzione, in cui sono effettivamente compendiate le altre due, perché l'obbedienza dei fedeli ai loro vescovi già implica l'acquisizione di una sapienza che santifica, secondo un principio enunciato da Cristo. Parlando agli apostoli, egli disse: "Chi accoglie voi accoglie me, e chi accoglie me accoglie Colui che mi ha mandato" (Matteo, 10, 40).

Dagli inizi del cristianesimo, questo principio di obbedienza è stato riconosciuto come fondamentale alla comunione ecclesiale. Uno scrittore del II secolo, sant'Ignazio d'Antiochia, afferma che "Gesù Cristo, nostra vita inseparabile, opera secondo la volontà del Padre, come i vescovi, costituiti in tutti i luoghi sino ai confini della terra, agiscono secondo la volontà di Gesù Cristo". A questa frase il santo fa seguire poi l'appassionato invito "di operare in perfetta armonia con il volere del vostro vescovo", notando che il clero della comunità destinataria del suo testo era già "così armonicamente unito al vescovo, come le corde di una cetra; in tal modo, nell'accordo dei vostri sentimenti e nella perfetta armonia del vostro amore fraterno, s'innalzerà un concerto di lodi a Gesù Cristo" (Efesini, 2, 2; cfr. Franz Xaver Funk, Karl Bihlmeyer, Die apostolischen Väter, seconda edizione, Tübingen 1956, 1, pp. 175-177).

Nella logica di questo sistema spirituale, è facile comprendere i segni materiali che c'interessano. La cattedra in prossimità all'altare simboleggia l'armonica unità dei fedeli con il loro vescovo, del vescovo con Cristo e di Cristo con il Padre; e l'edificio che ospita la cattedra e l'altare a sua volta magnifica il simbolo.


Come afferma un moderno padre della Chiesa, Paolo VI: "La cattedrale è di Cristo, a Cristo ogni cattedrale appartiene. Per Lui si è innalzata una cattedra, sulla quale il suo apostolo, in sua vece, parlerà; per Lui un trono, sul quale chi tiene il suo posto siederà; per Lui un altare, dal quale chi lo rivive farà salire al Padre il suo stesso sacrificio; per Lui è qui riunita la Ecclesia, il popolo col suo vescovo, ed a Lui innalza il suo inno di gloria e la sua gemente preghiera; è da Lui che questo tempio acquista la sua misteriosa maestà" (discorso pronunciato nel rinnovato duomo di Crema nel 1959).

Ogni cattedra in ogni cattedrale va quindi visualizzata nei termini già suggeriti in un mosaico romano degli inizi del V secolo, dove a sedere sul trono in mezzo all'assemblea è Cristo stesso, glorioso sopra l'altare eucaristico. L'ubicazione di questo mosaico in una basilica romana, poi Santa Pudenziana, e la presentazione di Cristo come un imperator tra apostoli trasformati in patrizi togati, suggeriscono un altro aspetto del nostro tema: la compenetrazione della vita ecclesiastica cristiana dai simboli dell'antico impero romano. Già il linguaggio usato da Ignazio d'Antiochia per descrivere l'organizzazione della Chiesa nel II secolo (il periodo di massima espansione dell'impero romano), s'ispirava alla retorica dello stato avvezza di metafore musicali, e con l'accettazione ufficiale del cristianesimo al tempo di Costantino e l'assunzione da parte dei prelati cristiani di insegne derivanti dalla gerarchia civile quali i ceri e l'incenso, la metafora si traduceva in realtà.

Con la successiva definizione delle circoscrizioni ecclesiastiche secondo la ripartizione territoriale dell'impero in "diocesi" il sogno romano di unità politica e culturale venne assimilato alla visione cristiana di comunione ecclesiale che Ignazio d'Antiochia vide radicata nel rapporto tra Cristo e Dio Padre.

Consegue che, dalla fine dell'antichità e per tutto il medioevo, la sedia vescovile in una chiesa cattedrale evocava - oltre alla comunione della Chiesa locale col suo capo - l'aspirazione di ricostituire l'onnicomprensiva armonia dell'antico impero unito intorno al trono.

Questo grazie anche al ruolo legittimante del Pontefice romano, il Papa, la cui autorità sull'antica capitale sostituiva quella dei Cesari; la comunione col vescovo di Roma dei vescovi dell'Europa post-antica in qualche modo perpetuava, infatti, la struttura dell'antico stato, e l'identità ecclesiale cristiana, di nazione santa, s'innestava sull'identità civica tramandata dal tardo impero, il concetto giudeo-cristiano "popolo di Dio" sovrapponendosi a quello romano di plebs, un popolo autonomo con diritti e doveri, capace di difendersi e pronto al sacrificio.

Questa sovrapposizione concettuale contribuisce al prestigio delle cattedrali, che erano normalmente le uniche strutture cittadine con residue valenze universali, segni della trasformazione dell'antico sogno imperiale in dinamico progetto ecclesiastico.

(©L'Osservatore Romano - 26 febbraio 2011)