giovedì 3 febbraio 2011

Libertà religiosa e diritti umani nella società multiculturale "E il mondo si accorse che Dio non era morto" (Paolo Becchi)


Libertà religiosa e diritti umani nella società multiculturale

E il mondo si accorse
che Dio non era morto


Venerdì 4 febbraio, nella chiesa evangelica riformata di Bellinzona, si svolgerà la giornata di studio "Libertà religiosa e società multiculturale". Anticipiamo quasi integralmente una delle relazioni.


di Paolo Becchi
Università di Genova

Bisogna essere ciechi per non vedere un fenomeno che, cresciuto negli ultimi decenni forse un po' in disordine, sta diventando una delle novità salienti del nuovo millennio: il ritorno della religione sulla scena pubblica. Per lungo tempo confinata nell'ambito privato della coscienza si era pensato che questo sarebbe stato l'inizio del suo inarrestabile declino. Ma così non è stato. Dio non era morto, si era soltanto addormentato e ora assistiamo con stupore al suo vigoroso risveglio. Ciò che infatti sta sotto gli occhi di tutti è il riemergere prepotente della religione, dal forum internum della coscienza, dal privato in cui era stata confinata, e questo anche in società come le nostre che sino a poco tempo fa si ritenevano ampiamente secolarizzate. L'Europa continentale può ormai essere definita una società post-secolare, poiché in essa la religione nelle diverse forme in cui essa storicamente si manifesta, avanza nuovamente la pretesa di valere come forza sociale vincolante, chiudendo in tal modo l'epoca della sua neutralizzazione pubblica. Molteplici sono le ragioni di questa rinascita della religione anche laddove veniva considerata ormai in via di estinzione.

Comincio con un aspetto che forse è quello decisivo, anche se nell'analisi degli osservatori - con l'eccezione di Jürgen Habermas, che a partire da Glauben und Wissen ha continuato a insistervi - è rimasto piuttosto sullo sfondo. Di fronte a una ragione sempre più strumentale e assoggettata al dominio della tecnoscienza la religione si presenta come un grosso serbatoio di senso, non ancora esaurito. La secolarizzazione con il suo disincantamento (Entzauberung) ha provocato il dissolvimento dell'immagine religiosa del mondo, la sua sdivinizzazione (Entgötterung), ma il risultato - oggi palpabile - è stato un inaridimento di senso. I nostri cervelli e i nostri corpi sono ormai colonizzati dalle macchine, contaminazioni fra l'organico e l'inorganico, tra il naturale e l'artificiale, tra l'umano e il non umano, lasciano già intravvedere l'orizzonte del postumano.

Siamo tutti in rete, ma anche tutti intrappolati nella rete. Video sempre accesi e schermi onnipresenti. Persino la crisi economica attuale è stata paragonata a un videogame in cui appena è stato sconfitto un mostro ne ricompare subito un altro. E così il gioco può continuare all'infinito.

L'effetto di tutto ciò è un vuoto di relazioni e una sempre più accentuata estraneazione dell'uomo dal mondo reale e dal senso della sua esistenza.

Non c'è in fondo da stupirsi se Dio e la religione siano di nuovo evocati come possibili risposte all'attuale crisi nichilistica. Basti un esempio: di fronte alla "situazione limite" dell'eugenetica che mira alla creazione di una nuova stirpe postumana riaffiora il bisogno di ripensare la propria origine riconducendola a un inizio indisponibile.

Ma come soddisfare un tale bisogno se non rielaborando razionalmente contenuti di senso che ci provengono da rappresentazioni in ultima istanza religiose? Tornerò su questa domanda nella conclusione di questo intervento: qui basti sottolineare come essa tocchi il nodo cruciale del rapporto tra fede e sapere.

Vorrei però richiamare l'attenzione su due ulteriori aspetti che riguardano un altro nodo fondamentale: quello tra religione e politica. La caduta del Muro di Berlino e la grave recessione economica mondiale hanno generato le condizioni storiche propizie per un ritorno della religione anche in occidente, proprio laddove sembrava ormai conservare una funzione meramente residuale. Crollata la fiducia nelle ideologie politiche dominanti nel secolo scorso con il collasso del "socialismo reale" e dopo il fallimento di un liberalismo del mercato che con la globalizzazione economica ha mostrato tutti i suoi limiti, la religione è tornata a rappresentare un punto di riferimento per uomini e donne sempre più disorientati da una società in crisi e incapace di uscirne. E qui va pur dato atto alla Chiesa cattolica, proprio presentandosi nella veste comunitaristica e "antimoderna" di Papa Benedetto XVI, di aver saputo cogliere l'occasione meglio delle Chiese protestanti, almeno di quelle organizzate su base nazionale e maggiormente caratterizzate in senso individualistico.

Venuti meno il socialismo e il liberalismo non resta che affidarsi a qualcosa sopravvissuto a entrambi: il cattolicesimo; è questa l'unica "riserva escatologica" rimasta sul mercato, capace, se non altro, di "frenare" i suoi effetti più devastanti. La Chiesa cattolica, in particolare, è così ritornata a esercitare una importante funzione terapeutica: un punto fermo a cui aggrapparsi di fronte al crescente disagio sociale e all'incapacità di uscire dalle contraddizioni prodotte da un capitalismo ipertecnologico.

Ma anche la religione cattolica, pur essendo per sua stessa natura universale e transnazionale, non è più la religione dominante. Essa lo è ancora in Europa, ma l'Europa è ormai diventata un'entità fittizia, un pedone insignificante della scacchiera planetaria e in più proprio in Europa - a seguito del massiccio fenomeno dell'immigrazione - il cristianesimo è chiamato, direi nella vita di tutti i giorni (costruzione di moschee e minareti, crocefisso nelle scuole, dieta alimentare negli asili, e così via), a confrontarsi con la religione di provenienza dei migranti che è in prevalenza musulmana. Non c'è più da tempo un'Europa dominante nel mondo, così come non c'è più una religione dominante, e il fatto nuovo è che gli dei hanno ripreso a combattersi tra loro. E così passo a considerare il terzo aspetto.

Il "politeismo dei valori" che nella vulgata weberiana esprimeva il riconoscimento laico di una pluralità pacificata di visioni del mondo (tutte ugualmente legittime) mostra di nuovo il suo volto conflittuale. Chiamata a rispondere al crescente bisogno di identità, la religione non può soddisfarlo se non agganciandosi a quell'identità di cui è espressione e a cui al contempo vuol dare espressione.

La rinascita prima in America e poi anche in Europa del sentimento religioso cristiano può anche essere spiegata come una risposta ai movimenti musulmani più radicali e al potenziale di violenza che hanno già prodotto e continuano a produrre. Basti qui ricordare l'episodio più recente: la strage cristiana all'uscita di una delle più importanti chiese di Alessandria d'Egitto nella notte di questo nuovo anno. Nel momento in cui da una parte l'islam fondamentalista cerca di affermarsi sulla scena del mondo, è inevitabile che dall'altra parte si riscoprano le radici giudaico-cristiane.

C'è dunque il rischio che il mondo diventi il teatro di una nuova conflittualità interreligiosa? La radicalizzazione dello scontro fra concezioni totalizzanti incompatibili e inconciliabili va sicuramente in questa direzione, ed è un fatto che la distinzione politica per eccellenza, quella tra amico e nemico, passi nuovamente attraverso l'appartenenza confessionale. Come rispondere a questa sfida che porta con sé il ritorno della religione nell'arena politica? Non resta che prendere atto dello scontro tra civiltà e agire di conseguenza o è sufficiente rivitalizzare quel senso di laicità connesso all'idea di uno Stato equidistante e neutrale e incrinato dal "bisogno di sacro"?

Le due soluzioni attualmente in discussione rispondono in modo affermativo o alla prima o alla seconda domanda. Ma entrambe si rivelano insoddisfacenti. Vediamo perché, prima di accennare a una proposta alternativa. La soluzione realista è quella che prende atto dell'insanabilità del conflitto e decide di rispondere colpo su colpo, chiudendosi nella sfera della propria confessione religiosa e auspicando, dopo il "divorzio" della secolarizzazione, una "nuova alleanza" tra religione nazionale e potere politico, tra Chiesa e Stato.

L'esempio forse più eclatante può essere offerto dalla rivendicazione dell'esposizione del crocefisso nei luoghi pubblici come risposta alla richiesta sempre più pressante di costruire moschee e minareti. Ma altre misure vanno nella stessa direzione, come quelle che facilitano - se non subordinano - l'accesso al territorio a immigrati che professano la religione dominante in esso o attribuiscono particolari agevolazioni alle attività di tale religione - spazi privilegiati nell'istruzione, sovvenzioni, sgravi fiscali e così via. A venir meno sarebbe l'equidistanza dello Stato da tutte le confessioni; lo Stato sarebbe invece chiamato ad accordarsi con quell'unica religione nazionale riconosciuta fattore di coesione sociale.

Questa soluzione sembrerebbe far rivivere il sogno ottocentesco (antiliberale e antiindividualistico) di uno Stato cristiano. Sia ciò desiderabile o meno, essa presuppone l'esistenza di un ethos cristiano condiviso e di uno Stato capace di appropriarsene. Entrambe le condizioni oggi mancano. Lo Stato - nella forma in cui si è affermato nella modernità - sta tramontando: da soggetto che ha esercitato il controllo monopolistico della decisione politica è divenuto esso stesso oggetto di decisioni prese in larga parte altrove. Anche l'idea di un mondo diviso in "grandi spazi", quale ultimo distillato della crisi dello jus publicum Europaeum, come preconizzava Carl Schmitt, è superata.

La globalizzazione dei mercati e della tecniche esige un unico spazio: l'impero invasivo e pervasivo del nuovo capitalismo immateriale, e tutti, indistintamente, siamo incapsulati in esso. Uscirne è impossibile. D'altronde proprio in Europa risulta sempre più difficile parlare di un ethos cristiano condiviso. All'Europa dei burocrati e banchieri di Bruxelles gliene importa tanto poco della civiltà cristiana da aver imposto nel suo Trattato costitutivo l'esclusione delle radici giudaico-cristiane. Inoltre, nolens volens il cristianesimo non può non confrontarsi con la religione musulmana di migranti, sempre più massicciamente presenti. La soluzione, insomma, non può essere crocefissi contro moschee e minareti e neppure laicità contro crocefisso e velo islamico, ma ampia libertà religiosa per tutti, e diritto alla libera espressione pubblica purché ciò non comporti odio, violenza e prevaricazione nei confronti di quanti hanno convinzioni differenti.

Spesso si tende a spiegare la "neutralità" dello Stato nei confronti della religione come corollario della sua riduzione ad affare privato di coscienza; "neutralità" qui però significa qualcosa di più della mera indifferenza, perché lo Stato è tutt'altro che neutrale nel momento in cui la religiosità assume forme pubbliche (esempio: divieto di esposizione del crocefisso in luoghi pubblici, divieto di indossare il velo islamico); ma neutralità potrebbe anche, in una maniera più debole, semplicemente indicare che lo Stato tratta in modo eguale, e cioè senza discriminazioni, la pluralità delle forme religiose, consentendo a tutte di manifestarsi liberamente (esempio: libertà di esposizione del crocefisso, libertà di indossare il velo). La seconda soluzione - che, per opposizione alla prima, definirei "idealista" - memore delle "tragiche esperienze del passato" continua a far affidamento sullo Stato, e precisamente nella forma costituzionale che esso ora ha assunto "con la sua capacità di accoglienza e di integrazione pluralista tramite principi di libertà e di uguaglianza". I passi citati sono di Gustavo Zagrebelsky, e ci presentano un'immagine alquanto idealizzata dello Stato: se avesse funzionato la capacità di accoglienza e di integrazione, probabilmente non staremmo qui a parlare di quella grande minaccia per l'umanità che, seguendo questo approccio, porta con sé quella che con una felice espressione è stata definita "la rivincita di Dio".


La laicità, si badi, sarebbe messa in pericolo non dalla penetrazione dell'islam in occidente, ma dal "Grande Inquisitore" cattolico che, uscito dal romanzo di Dostoevskij, si aggirerebbe ora per l'Europa mettendo a repentaglio il "futuro della Costituzione". Ognuno è certo libero di farsi i sogni (o gli incubi) che vuole, l'importante però è che non li scambi per la realtà. E la realtà è che se oggi la religione è riapparsa sulla scena pubblica è perché è entrato in crisi il progetto di quella razionalità laica su cui si fonda la modernità con tutti i suoi corollari.

Se la fede è ritornata a battere nel cuore degli uomini, è perché la ragione li stava facendo collassare. Se la religione è ritornata al centro dell'attenzione è perché la politica si è rivelata fallimentare. Se la Chiesa cattolica ha ripreso quota è perché lo Stato si è rivelato incapace di rispondere alle sfide della globalizzazione del mercato. Se gli dei hanno ripreso a combattersi tra loro, è perché destra e sinistra, democratici e repubblicani, conservatori e progressisti, non costituiscono più forze concrete capaci di far risaltare autentiche contrapposizioni politiche.

Può il richiamo alla Costituzione e ai suoi valori, il cosiddetto "patriottismo della Costituzione", essere la soluzione alla grave crisi che stiamo attraversando? Non si può nascondere l'impressione che questa soluzione, presentata come una difesa della laicità, messa a rischio dal ritorno della religione, trasformi la Costituzione in un "testo sacro". Al posto di Dio qui c'è la Costituzione divinizzata con tutti i suoi valori fondamentali. Ma i valori, come ci ha mostrato Carl Schmitt, sono tiranni.

Qualunque entità che oggi possa essere fissata come valore già domani può trasformarsi in disvalore ed essere sostituita da un altro valore. L'unico modo per frenare il conflitto sta nel loro bilanciamento. Ma a chi tocca questo compito se non ai giudici (costituzionali), i quali, ricoperti da un'aura di sacralità, diventano i sacerdoti di questa nuova Chiesa di cui i cittadini non possono che esserne i fedeli?

Ciò che semmai si sviluppa è una "giuristocrazia": la Costituzione è infatti in mano ai giudici costituzionali e ai giudici ordinari che possono applicarla direttamente anche nelle controversie tra i privati, al limite persino disapplicando la legge ordinaria, perché ciò che conta è la legge. Insomma, questa soluzione è solo in apparenza "laica" e "neutrale": teme il ritorno della religione, perché è essa stessa una subdola forma di religione, la quale vede messa seriamente in pericolo la sua attuale fortuna dall'emergere di una forza spirituale che percepisce come antagonista.

Spesso oggi, dal versante laicista, si accusa la Chiesa cattolica per la sua invadenza nel dibattito pubblico su temi etici come la morale sessuale o la difesa della famiglia e sui grandi temi bioetici dell'inizio e della fine della vita, ma la Chiesa in fondo non fa altro che tornare a rivendicare quel primato sulla coscienza che lo Stato costituzionale ha cercato di sottrarle.

Lungi dall'essere "neutrale", quello Stato si basa su un diritto onnicomprensivo e onnipotente che tende a invadere ogni campo della vita umana. Ambiti che prima erano di pertinenza della morale e della religione sono stati occupati dallo Stato - il nemico è un criminale, il peccato è un delitto - e la religione oggi vuole nuovamente riappropriarsene. In fondo il ritorno della religione è anche una risposta alla moralizzazione del diritto che diventa evidente nel momento in cui l'organizzazione costituzionale ha la pretesa di giuridificare l'intera esistenza umana.

Come soddisfare allora il bisogno autentico di religiosità senza cadere nel conflitto tra i fondamentalismi e su cosa può nel contempo reggersi la Costituzione se vuole sfuggire alle trappole del relativismo giudiziale? Solo un principio universale in grado di superare i particolarismi delle diverse verità rivelate, assumendo nel contempo il ruolo di una sorta di Grundnorm al vertice delle organizzazioni positive, potrebbe costituire un ponte tra fede e sapere, tra religione e politica.

Io credo che questo principio sia il principium dignitatis, il quale da un lato consente di conservare l'eredità più profonda della nostra civiltà giudaico-cristiana e, dall'altro, di individuare un punto di riferimento che, a differenza dei diritti fondamentali, non è esposto alla trappola delle ponderazioni e delle limitazioni. Oggi esiste un ampio dibattito sul tema della dignità umana e molteplici sono le letture che di essa vengono date: non mi avventurerò ora su questi sentieri.

Ai fini del mio discorso mi limiterò a sottolineare come è anzitutto proprio grazie all'idea giudaico-cristiana di dignità che si è affermata nella storia del mondo l'universalità di quel principio. È infatti la teologia dell'uomo creato a immagine di Dio ad aver aperto la via a una lettura potenzialmente egualitaria della dignità.

Questa idea non implica infatti il privilegio dell'uomo di fede poiché ogni uomo, indipendentemente dalla confessione di appartenenza o anche se non appartiene ad alcuna confessione, per il solo fatto di essere uomo, è un'icona di Dio. Per dirla con il filosofo cattolico Spaemann ciascun uomo non è "qualcosa", ma "qualcuno". Si potrà replicare che la dignità può pure essere fondata sulla libertà e sulla responsabilità morale dell'uomo e dunque indipendentemente dal rapporto di trascendenza. Dall'umanesimo italiano a Pascal, da Pufendorf a Kant emerge certamente nella storia del pensiero europeo una difesa della dignità priva di giustificazione teologica. Avremmo comunque raggiunto un risultato non privo di rilievo: vale a dire un punto d'incontro tra fede e sapere, ragione laica e teologia, religione e politica nella comune difesa del principio della dignità umana.

Ma questo punto d'incontro, va pur detto, riguarderebbe essenzialmente l'occidente e le sue radici giudaico-cristiane. Per l'islam l'uomo non è l'immagine di Dio. Con ciò non voglio affatto dire che il tema della dignità non sia presente nella religione islamica, ma certo assume un rilievo diverso. E allora non corriamo forse il rischio che con la "dignità umana" avvenga qualcosa di simile a quello che è già successo per i "diritti umani", usati spesso come grimaldelli con i quali gli occidentali aggrediscono, invadono, bombardano, occupano Paesi e popoli, con la pretesa di fare il loro bene?

A "immagine e somiglianza di Dio" o "a immagine e somiglianza dell'occidente, con i suoi valori e le sue istituzioni"? E, inoltre, la stessa convergenza tra fede giudaico-cristiana e ragione illuministica potrebbe essere piuttosto fragile dal momento che il pluralismo delle visioni del mondo è un dato di fatto ineliminabile. Anche i contenuti della dignità, allora, potrebbero essere molto diversi - l'embrione è già titolare di dignità? E che cosa significa che bisogna garantire a tutti condizioni di vita dignitose? Il conflitto tra i valori si ripropone dunque come conflitto tra visioni - tanto in ambito interreligioso quanto all'interno del confronto tra fede e ragione - tra loro inconciliabili della dignità umana. Così anche la nostra soluzione sembra messa sotto scacco e neppure la dignità essere in grado di offrire la base per un principio comune. Forse l'esito è meno fallimentare di quanto pare a prima vista.

Consideriamo anzitutto la cosa dal punto di vista delle diverse prospettive religiose. Anche se l'islam ha una concezione della dignità diversa da quella delle due altre grandi religioni monoteiste, questo non significa che vi sia fra entrambe un'assoluta incompatibilità. La concezione islamica della dignità è inconciliabile solo con quella versione moderna della dignità che la riconnette strettamente, e unilateralmente, all'autonomia e all'autodeterminazione dei singoli individui, ma questo non fa venir meno l'idea che anche per l'islam solo l'uomo sia titolare di dignità poiché è l'unico essere del creato ad aver accettato di stringere un patto con Dio.

Sotto questo profilo la dignità viene dunque riconosciuta a tutti gli uomini e non solo a quelli di fede musulmana, esattamente come a tutti gli uomini (e non soltanto agli ebrei ed ai cristiani) viene riconosciuto il loro essere "immagine di Dio".

Così le tre religioni monoteistiche convergono almeno in un punto: l'uomo è al centro del creato e proprio per questa posizione centrale, del tutto privilegiata, possiede una dignità. Questo significa che egli è un essere costitutivamente aperto alla trascendenza, e proprio in virtù di questa apertura è chiamato a un agire responsabile sulla terra. Si potrebbe vedere in tutto ciò una convergenza piuttosto superficiale e concludere che non abbia molto senso cercare una parentela tra islam e cristianesimo. Bisogna pur ammettere che le verità rivelate necessariamente contengono elementi di chiusura: proprio se vogliono rimanere fedeli al messaggio originario non possono che essere esclusiviste. Ma questo riguarda il piano dei dogmi, il che non impedisce che un accordo si possa trovare, per così dire, non su Dio e il modo di intendere la divinità, ma sull'uomo e il modo di intendere l'umanità.

Se il rinvio alla dignità in sé può forse dir poco per il dialogo interreligioso, diventa di assoluto rilievo quando appellandosi a essa, si vuole fare riferimento all'unicità che rappresenta l'uomo nel disegno della creazione e alla responsabilità che da ciò ne deriva. Sono consapevole che il punto sarebbe meritevole di un approfondimento, ma qui, in conclusione, vorrei almeno accennare all'altro tema: quello che riguarda il significato che assume la dignità nel confronto tra fede e sapere.

Anche qui, a prima vista, pare si fronteggino due visioni opposte della dignità: quella laica che insiste sulla dignità di ciascuno, nel senso che è ognuno di noi, in ultima istanza, a decidere su cosa sia per lui degno o non degno, e quella di matrice religiosa, che vede nella dignità, in ultima istanza, una dote, un dono specifico fatto all'uomo da Dio. Tanto la concezione laica si adatta perfettamente al persistente pluralismo che caratterizza le nostre società occidentali, quanto quella religiosa sembra invece connessa ad un mondo ormai scomparso. Ma siamo proprio certi che sia così?

La rinascita attuale del sentimento religioso pone seri dubbi su questa diagnosi. Beninteso, è incontestabile che il valore dell'autonomia, dell'autodeterminazione, sia ormai entrato a far parte delle nostre vite, perlomeno in occidente, ma è sufficiente a spiegare il significato della dignità umana? Impedire a una donna di prostituirsi, di assumere una parte in un film a luci rosse o di esibirsi nuda, poiché tutto ciò offende la dignità umana potrebbe essere considerato un'insopportabile invadenza nella sfera privata di un individuo. Ma ci spingeremmo fino al punto di accettare, con le medesime argomentazioni, che una persona si sottometta volontariamente a rapporti di schiavitù o venda i suoi organi? Con molta probabilità no (o quantomeno sarebbe piuttosto difficile argomentare convincentemente a sostegno di questa tesi). In tale modo però abbiamo già implicitamente posto un limite oggettivo alla pretesa dignità soggettiva.

Insomma, l'autonomia da sola non basta a spiegare la dignità e questo diventa tanto più evidente quanto passiamo dall'etica individuale all'etica che riguarda l'identità della nostra specie. E così ritorniamo al punto da cui avevamo preso le mosse.

È giustificabile grazie agli interventi di ingegneria genetica modificare il codice genetico dell'uomo mutando così la sua identità? Come uscire dalla palude dell'attuale nichilismo per cui tutto ciò che è possibile è anche permesso? Qui si rivela insufficiente la dignità dei moderni e si apre di nuovo uno spazio per un dialogo fruttuoso tra fede antica e sapere tecnologico. La coscienza del proprio limite, il rispetto che sentiamo verso qualcosa che non dipende in fondo dal nostro accordo, ma che è dato a ciascuno di noi in modo indisponibile apre di nuovo l'uomo alla trascendenza. Così il risveglio di Dio è al contempo il risveglio dell'uomo, che rischiava di rimanere prigioniero di un incubo: quello della "morte di dio" e, con lui, della morte dell'uomo.

(©L'Osservatore Romano - 4 febbraio 2011)