I padri della Chiesa
fra teatro e internet
XLV Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali, 2011
Verità, annuncio e autenticità di vita nell’era digitale
[Francese, Inglese, Italiano, Portoghese, Spagnolo, Tedesco]
di Leonardo Lugaresi
Il messaggio del Santo Padre per la Giornata mondiale delle comunicazioni sociali reso noto il 24 gennaio scorso attira la nostra attenzione sui problemi posti da "alcuni limiti tipici della comunicazione digitale: la parzialità dell'interazione, la tendenza a comunicare solo alcune parti del proprio mondo interiore, il rischio di cadere in una sorta di costruzione dell'immagine di sé, che può indulgere all'autocompiacimento". Si tratta di fenomeni di vitale importanza, poiché il coinvolgimento sempre maggiore dell'esistenza di tante persone nel mondo virtuale di internet pone ormai in modo del tutto nuovo "la questione non solo della correttezza del proprio agire, ma anche dell'autenticità del proprio essere".
Tuttavia, se le circostanze con cui i cristiani devono misurarsi, nella dimensione sempre più ampia e pervasiva del mondo virtuale della Rete, rappresentano una sfida senza precedenti, le parole di Benedetto XVI ci ricordano anche che la questione di fondo è sempre la stessa: quella dell'autenticità dell'esperienza umana, cioè in definitiva quella dell'identità.
L'identità umana, infatti, non si dà mai come qualcosa di assoluto, quasi fosse una sorta di monade che può prescindere dal rapporto con gli altri, ma vive sempre in una rete di relazioni, e soprattutto di relazioni "amicali", di fronte alle quali bisogna continuamente prendere posizione, raccogliendo la sfida "dell'essere autentici, fedeli a se stessi, senza cedere all'illusione di costruire artificialmente il proprio "profilo" pubblico".
Ora, è vero che anche in quello che possiamo chiamare il "primo mondo", cioè quello dell'esistenza ordinaria, fatto di rapporti diretti e di incontri faccia a faccia con gli altri uomini, ciascuno di noi, per rispondere alla propria esigenza di autenticità, deve tener conto del complesso meccanismo dei ruoli che la "vita quotidiana come rappresentazione" (come recita il titolo di un libro ormai classico del sociologo Erving Goffman) ci assegna e in un certo senso ci impone; ma è soprattutto nel "secondo mondo", quello virtuale, che la finzione - nel senso etimologico, da fictio - cioè la possibilità per chiunque di plasmare a proprio piacimento una o più identità con cui rapportarsi con gli altri, si dilata fino all'estremo, rendendo quanto mai insidioso il cammino verso l'autenticità dell'esperienza di sé. Nella sin troppo facile moltiplicazione degli avatar e dei nicknames, "maschere" con cui il nostro io gioca a rimpiattino nei mille e mille contatti che la Rete rende possibili, non rischiamo di perdere il senso della nostra vera identità?
E se pensiamo ai social network in cui molti, soprattutto giovani, ormai trascorrono una parte considerevole del loro tempo, gli "amici", con cui, magari da un capo all'altro del mondo, entriamo in un rapporto che a volte può sembrarci più ricco e umanamente rilevante di quello che abbiamo col vicino di casa o con il collega di lavoro, saranno persone reali o personae nel senso di maschere, attori di una rappresentazione che va scena nello spazio virtuale del Web?
Posta così la questione, è interessante osservare che il richiamo del Papa, pur riferendosi a un fenomeno completamente nuovo, presenta delle significative analogie con una problematica antica, su cui la riflessione critica dei Padri della Chiesa si è esercitata in modo magistrale, e dalla quale può dunque essere utile riprendere qualche spunto, per una più profonda comprensione di questo insegnamento di Benedetto XVI. I Padri non hanno ovviamente conosciuto internet, ma il "mondo virtuale" con cui hanno dovuto fare i conti era per loro costituito - in una "società dello spettacolo", per dirla con Debord, quale in larga misura era quella greco-romana di età imperiale - dalla dimensione del ludus, cioè della rappresentazione scenica e più ampiamente di quella teatralità che invadeva tanti aspetti della vita civile tardoantica, anche al di fuori delle mura di teatri, anfiteatri e circhi e delle pur numerose festività del calendario. La condanna degli spettacoli, così decisa e senza sfumature nella Chiesa antica, non è infatti motivata, in ultima istanza, dai loro contenuti idolatrici o immorali, come spesso si continua a ripetere, ma da una profonda preoccupazione per la minaccia a quella che Tertulliano, nel suo De spectaculis, chiama la ratio veritatis, il criterio della verità.
Quella degli spettacoli, infatti, si presentava agli occhi dei Padri come una realtà profondamente ambivalente, in cui il vero e il falso si confondevano, sino a mettere in crisi la stessa validità epistemologica di tale opposizione: basti pensare al fatto che l'attore, nell'atto di interpretare un personaggio, è "vero" proprio nel suo essere falso, in quanto è e al tempo stesso non è il personaggio che rappresenta.
La sua capacità di trasformarsi, superando tutti i limiti "normali" posti dalle distinzioni di età, di genere, di status, per cui lo stesso individuo può essere a seconda dei momenti uomo e donna, giovane e vecchio, re e schiavo, appare quindi come una pericolosa minaccia all'identità naturale dell'uomo: come se l'ombra di Proteo si levasse ad oscurare il volto di Adamo.
Il tema della critica all'ambivalenza della rappresentazione è di matrice platonica, ma conosce nel cristianesimo un decisivo approfondimento: l'identità che viene minacciata, infatti, è sentita come identità creaturale, in quanto nella natura di ciascun essere umano si riflette l'immagine originaria che Dio vi ha impresso.
Il pensiero patristico riconosce perciò, in questo stravolgimento della realtà naturale operato dalla fictio spettacolare e nella costruzione di pseudorealtà tanto capaci di suscitare passioni ed emozioni negli spettatori quanto prive di consistenza ontologica, la mano del diavolo, cioè di colui che è per definizione il "cattivo imitatore" di Dio, la simia Dei che, incapace di creare, può solo adulterare la natura creata da Dio. Tertulliano parla, in proposito, esplicitamente del diavolo come aemulator e interpolator dell'opera divina. Quando il Papa solleva con franchezza la questione dell'autenticità dell'amicizia nel mondo virtuale: "chi è il mio prossimo in questo nuovo mondo? Esiste il pericolo di essere meno presenti verso chi incontriamo nella nostra vita quotidiana ordinaria? Esiste il rischio di essere più distratti, perché la nostra attenzione è frammentata e assorta in un mondo "differente" rispetto a quello in cui viviamo?" si avverte, nelle sue parole, l'eco di una profonda riflessione patristica.
In una pagina famosa delle Confessioni (3, 2), Agostino, ricordando la sua esperienza giovanile di appassionato frequentatore del teatro, nota acutamente come agli spettatori piaccia soffrire contemplando sulla scena vicende dolorose e tragiche che dovrebbero suscitare misericordia se le incontrassero nella vita reale, e si chiede "quale sia, in definitiva la misericordia che si prova nei riguardi delle finzioni del teatro.
Lo spettatore, infatti, non è sollecitato a soccorrere, ma soltanto invitato a dolersi, e si apprezza tanto più l'attore di quelle scene quanto più si soffre".
Questo passo meriterebbe una approfondita esegesi, qui evidentemente impossibile, ma il punto essenziale è molto chiaro: per Agostino, una relazione veramente umana si realizza solo là dove c'è responsabilità.
L'altro, nel momento in cui lo incontro, mi rende in qualche modo responsabile, nel senso chiarito in modo perfetto la parabola del buon samaritano, con la quale Gesù risponde alla stessa domanda che Benedetto XVI, non a caso, ci ripropone con riferimento al mondo virtuale: "Chi è il mio prossimo?". La relazione di prossimità, che è la sola veramente umana, implica sempre l'elemento della responsabilità, nel senso che l'altro con la sua stessa esistenza mi interpella, costituisce per me una sfida a cui devo rispondere.
Agostino nega appunto che questo possa avvenire nella pseudorelazione tra lo spettatore e l'attore, e certo non possiamo che dargli ragione, se applichiamo la sua analisi alla televisione, il mezzo che per eccellenza ci mette in una posizione di "falsa vicinanza" alla realtà, dove vediamo tutto ma da spettatori completamente passivi e deresponsabilizzati.
Internet, si dice, è un'altra cosa e anzi proprio l'interazione capillare e diffusa, con la possibilità per ogni utente di essere soggetto attivo nella rete comunicativa entro cui si inserisce, sembra essere la sua caratteristica più innovativa e seducente. C'è però una condizione imprescindibile perché ciò avvenga, ed è l'impegno per (e con) la verità. "La verità che è Cristo", ci ricorda il Papa. "In ultima analisi è la risposta piena e autentica a quel desiderio umano di relazione, di comunità e di senso che emerge anche nella partecipazione massiccia ai vari social network".
Ma l'impegno con la verità esige continuità di attenzione, concretezza, concentrazione su ciò che è essenziale. Entra qui in gioco un altro fattore di ambivalenza tipico del mondo virtuale: l'enorme molteplicità degli spunti di interesse, delle occasioni, delle attrazioni e la straordinaria facilità dei nessi che si possono stabilire con i campi più diversi dell'esperienza umana - in una dimensione che sembra annullare gli ostacoli posti dal tempo e dallo spazio nel mondo reale - sono sì una grande ricchezza, ma anche un potentissimo stimolo alla distrazione, anzi alla dispersione dell'io dal "dentro" al "fuori" di sé (secondo una dinamica psicologica ben nota a ogni navigatore nella Rete, quando si accorge di aver perso, di link in link, ore preziose, ma forse mai tanto lucidamente analizzata come da Agostino).
È quella malattia dello spirito che il pensiero antico aveva diagnosticato come polypragmosyne, curiositas, e sulla quale - nell'ambito della polemica contro gli spettacoli - i Padri hanno pure detto cose memorabili. Ci sarebbe qui un ulteriore spunto di riflessione che non possiamo sviluppare: basti ricordare la formula pregnante con cui Tertulliano (De praescriptione haereticorum, 7,12) indica la novità della posizione cristiana: nobis curiositate opus non est post Christum Iesum nec inquisitione post evangelium. Non c'è più spazio per la curiositas dopo l'incontro con la Verità, né abbiamo bisogno di Google per sapere chi siamo. L'antica condanna cristiana del teatro non è certo riproponibile oggi, né tantomeno la Chiesa vuole prendere le distanze da internet, a cui anzi guarda con sincera simpatia, ma alcune delle ragioni che allora sostennero, con grande forza di pensiero, quel giudizio meritano di essere oggetto anche oggi della nostra riflessione, per aiutarci ad incarnare quello "stile cristiano di presenza anche nel mondo digitale" che il Papa auspica.
(©L'Osservatore Romano - 16 febbraio 2011)