martedì 31 gennaio 2012

Francesco Moraglia è il nuovo Patriarca di Venezia



Francesco Moraglia è il nuovo Patriarca di Venezia

Mons. Francesco Moraglia è il nuovo Patriarca di Venezia.
L'annuncio è stato dato questa mattina, a Venezia, La Spezia e in Città del Vaticano.
Queste le prime parole del nuovo Patriarca:


A S. E. il Cardinale Marco Cè, Patriarca Emerito,
A S. E. Mons. Beniamino Pizziol, Amministratore Apostolico,
a tutti i sacerdoti, i diaconi, i consacrati, le consacrate, fedeli laici,
a tutti gli uomini e le donne, dimoranti nel territorio diocesano.

Carissimi amici,
fin dal primo momento in cui sono stato informato che il Santo Padre mi aveva destinato alla sede patriarcale di Venezia, ho provato un forte sentimento di trepidazione, ma anche una grande fiducia nel Signore; di tale stato d’animo desidero, in primo luogo, farvi parte. Tutti, infatti, - pastore e fedeli - siamo coinvolti nella scelta di Benedetto XVI. Il servizio nel difficile compito della presidenza ecclesiale richiede doti tali di prudenza, di saggezza, di cuore e d’intelletto che nessuno può pensare di possedere; per questo mi rivolgo a Voi chiedendo, fin d’ora, preghiera e aiuto.

Per la Chiesa che è a Venezia e il suo nuovo pastore inizia un tempo in cui ciascuno - per la sua parte - è chiamato ad affidarsi, con più libertà e più fede al Signore e al Suo piano provvidenziale che va sempre oltre quanto gli uomini possono immaginare; è il tempo in cui ciascuno, facendo meno conto su di sé, é chiamato ad aprirsi maggiormente, nella sua vita, al senso della paternità di Dio. E’ il tempo - se vogliamo - della comunione a priori, in cui, pastore e fedeli sono invitati, nella fede, a innalzare lo sguardo all’unico Maestro e Signore.

Sono mandato a voi - nella successione apostolica - come vostro Vescovo; non conto su particolari doti e doni personali, non vengo a voi con ricchezza di scienza e intelligenza ma col desiderio e il fermo proposito d’essere il primo servitore della nostra Chiesa che è in Venezia. Faccio mie le parole dell’apostolo Paolo che, nella seconda lettera ai Corinzi, scrive: «non intendiamo fare da padroni sulla vostra fede; siamo invece i collaboratori della vostra gioia, perché nella fede voi siete saldi» (2 Cor 1, 24). Il Vescovo, infatti, non è chiamato, innanzitutto, a portare qualcosa di suo, ma qualcosa che va oltre le sue personali capacità e risorse; in altre parole, la pienezza del sacerdozio di Cristo che - sul piano ministeriale - costituisce la Chiesa.

Sono conscio d’essere mandato a una Chiesa viva, ben presente sul territorio, a una Chiesa che sa esprimere con una fede capace di farsi cultura ma, soprattutto, a una Chiesa che ha una lunga storia scandita dalla santità, anche ordinaria, di molti suoi figli e figlie; una santità confermata, anche recentemente, dalle figure di alcuni suoi grandi pastori come Giuseppe Melchiorre Sarto - San Pio X -, Angelo Giuseppe Roncalli - Beato Giovanni XXIII -, Albino Luciani - Servo di Dio Giovanni Paolo I -. Una Chiesa che, nei suoi membri, può contare su molteplici risorse per dire, oggi, la bellezza di Gesù risorto, il vivente. E tale testimonianza, nella così detta società “liquida” - in cui le situazioni mutano prima di consolidarsi in abitudini e procedure -, è oltremodo urgente.

Il Vescovo è chiamato a servire nella presidenza e, proprio per non venir meno in tale compito sa che, come prima cosa, deve amare la sua Chiesa, perché solo chi ama vede bene ed è in grado di cogliere tutto nella logica del Vangelo. Vengo col desiderio di ascoltare, per capire e conoscere quanto lo Spirito vuol dire a questa Chiesa, nella logica sinodale del comune cammino delle diocesi del Triveneto verso Aquileia 2. Si tratta di molteplici strade e di un comune percorso guardando, con occhi nuovi, alle realtà ecclesiali e socio-culturali, per una nuova evangelizzazione, in dialogo con le culture del tempo, avendo come meta il bene comune. Tale convenire delle Chiese del Nordest s’inserisce nel più ampio orizzonte degli orientamenti pastorali della Chiesa che è in Italia; così a cinquant’anni dall’inizio del Concilio Ecumenico Vaticano II, il più grande evento ecclesiale che ha segnato il XX secolo, siamo invitati a rinnovarci personalmente e comunitariamente in una fede capace di farsi cultura.

Il momento che stiamo vivendo deve caratterizzarsi per la comunione che nasce dalla fede nell’unico Signore; siamo chiamati a “narrare” - come Maria nel Magnificat - le grandi cose che Dio opera in noi.

Da quando sono stato messo a conoscenza della decisione del Santo Padre ho voluto idealmente aprire il mio cuore a tutta la città, all’intera diocesi, a ogni uomo e donna che il Signore mi vorrà fare incontrare nel servizio episcopale in mezzo a voi. Tutti porto nella preghiera e a tutti chiedo la carità della preghiera; in modo particolare la chiedo ai piccoli, ai malati, agli anziani, ai bambini, a coloro che Gesù, nel Vangelo, ci dice contano di più agli occhi del Padre celeste. Chiedo d’essere accolto come un fratello che, per un disegno della Provvidenza, è mandato a voi come padre, pur venendo da una regione lontana dalla vostra che ormai, però, avverto già come a me carissima.

A quanti, nelle differenti vocazioni e stati di vita, concorrono a formare il volto della Chiesa di Dio che è in Venezia, domando aiuto, collaborazione e assunzione di corresponsabilità; il Vescovo, infatti, che è garante dell’unità della Chiesa particolare - nella comunione col Vescovo di Roma - da solo non può fare nulla. Infine chiedo la collaborazione dei confratelli, insigniti del sacerdozio di secondo grado, che costituiscono il reale prolungamento del sacerdozio del Vescovo. Fra essi, in primis, mi rivolgo ai parroci, poi a quanti, a diverso titolo, esercitano il ministero nell’ambito della cultura - ricerca e insegnamento - e ai confratelli che, oggi, in un contesto sociale sempre più a rischio povertà, si misurano, quotidianamente, con tutte le tipologie dei bisogni dell’uomo. Conto anche sui diaconi e sul loro prezioso ministero: il servizio della carità che, sempre, nasce dall’altare e ad esso, sempre, ritorna. Ai consacrati e consacrate chiedo che, nella fedeltà al loro carisma specifico, esprimano il volto sinfonico della Chiesa, ne promuovano la crescita compiendone i lineamenti, in vista di una testimonianza pienamente evangelica, incarnata nell’oggi. Ai fedeli laici e alle aggregazioni laicali dico la mia fiducia e stima, guardo a loro come a una vera ricchezza per un’inculturazione della fede nel contesto di una vera e sana laicità, con particolare attenzione e promozione della realtà della famiglia, nella prospettiva del bene comune.

Nell’alveo e secondo la logica di una sana laicità guardo con attenzione allo Studium Generale Marcianum, polo pedagogico e accademico, strumento di formazione e di ricerca, affinché la nostra Chiesa sia in grado d’elaborare una proposta educativa radicata nell’impareggiabile e unica tradizione storica e civile di Venezia e, insieme, in dialogo costante con tutte le culture e gli uomini.

Ai carissimi giovani, con i quali sarebbe - fin d’ora - mio desiderio intrattenermi a lungo, mi limito a dire: voglio incontrarvi al più presto! Un pensiero di vicinanza amica e fraterna va a quanti appartengono alle differenti confessioni cristiane, alla comunità ebraica, ai credenti di altre religioni presenti nel territorio della diocesi. Infine il mio saluto rispettoso va agli uomini e alle donne non credenti, soprattutto a coloro che sono “in ricerca”, auspicando, per quanto possibile, un comune impegno per l’uomo; in una cultura sempre più individualista, profondamente segnata della tecno-scienza, appare discriminante la questione antropologica, vero “caso serio” per il presente e il futuro della nostra società.

Non posso chiudere questo saluto senza un ricordo del mio predecessore, il Cardinale Angelo Scola, Arcivescovo di Milano, del Cardinale Marco Cè, Patriarca Emerito; un grazie riconoscente e particolarissimo all’Amministratore Apostolico, Monsignor Beniamino Pizziol per quanto sta facendo, con grande generosità, a servizio della Chiesa che è a Venezia. Agli eccellentissimi Vescovi della sede metropolitana patriarcale e agli eccellentissimi Arcivescovi e Vescovi della Conferenza Episcopale Triveneta dico - nell’attesa d’incontrarli di persona - il mio intenso, fraterno affetto collegiale.

Al Sindaco, al Presidente della Provincia, al Presidente della Regione e a tutte le cariche istituzionali rivolgo il mio deferente saluto e assicuro impegno per una collaborazione leale, nella distinzione dei ruoli.

L’intercessione di San Marco Evangelista, del Proto Patriarca San Lorenzo Giustiniani, soprattutto la materna intercessione della Vergine Nicopeia ci ottengano, da Dio, la grazia di rispondere a quanto Egli si attende da ciascuno di noi.

In attesa d’incontrarVi, tutti benedico con affetto.

Tratto da GENTE VENETA, n.5/2012




lunedì 30 gennaio 2012

San Giovanni Bosco secondo Paul Claudel "Chiaro come un mattino di maggio" di Inos Biffi



San Giovanni Bosco secondo Paul Claudel

Chiaro
come un mattino di maggio

«Si vede subito che non è solo un santo ma un uomo onesto.
Dovunque questo Bosco metta la mano vi si sente l’autorità, autorità e dolcezza»

di Inos Biffi

Giovanni Bosco è tra i santi cantati da Paul Claudel nella corona benignitatis anni Dei. Nel suo Journal, il 31 gennaio 1938, festa di don Bosco, il poeta annota: «Mi viene improvvisamente l’idea di scrivere un poema su Giovanni Bosco e la attuo quasi di getto». Ad attrarre Claudel e a infondergli fiducia è anzitutto il volto del santo, definito «patrono dell’eterna adolescenza»: «Si vede subito che non è solo un santo, ma un uomo onesto. È chiaro come un mattino di maggio, tondo come una mela. Mi piacciono questi capelli folti arricciati sulla fronte e questa impressione di forza e di agilità che egli procura. Dovunque questo Bosco metta la mano, vi si sente l’autorità, autorità e dolcezza, amore di Dio e amore di questi suoi fanciulli poveri. Dovunque ci siano fanciulli poveri, egli si ritrova».

In questo accordo tra «autorità e dolcezza» e tra amore di Dio e amore della gioventù, il poeta ha reso con profondo intuito i tratti che contrassegnano il carisma di don Bosco, così come è felice l’immagine della Chiesa da lui auspicata: una Chiesa popolata da questa gioventù e da questa povertà «con la stella del mattino sulla fronte», edificata «a grandi colpi d’ascia e di martello», «che lavora e che canta a squarciagola», e lui, il santo, che sta in mezzo ai giovani, per ordinarli, per renderli saggi, per parlare loro e consolarli, e distribuire i sacramenti.

Scrive Claudel, cogliendo ancora perfettamente i variegati e multiformi aspetti del ministero e della missione di Giovanni Bosco: «E lui in mezzo ad essi, come Mosè, pieno di ordine e di sapienza, e di parole, e di consolazioni e di sacramenti». «È lui — prosegue — che rifarà il mondo, e sa in che modo: Voi altri tenetevi le vostre teorie, le vostre dispute e il vostro Governo. Io ho intorno a me tutta questa folla di ragazzi che cresce e con me impara a conoscere il buon Dio! Tutta questa folla che con me impara a leggere e a servirsi delle proprie dita. “Il Padre mio non cessa di lavorare con Me, e Io lavoro con lui”. Ascoltate questo, figli miei, poiché sono le parole di Gesù Cristo. Nel lavoro nessuno può fare a meno di tutti gli altri; in un turno di braccia, tutti insieme ci si impegna a continuare la creazione, che ci appartiene».

E così è posto in evidenza ed esaltato un terzo aspetto dell’opera educativa di don Bosco: l’educazione al lavoro, inteso come associazione e conformità a Dio e a Cristo, incessantemente all’opera; il lavoro elevato, si direbbe, a dignità teologica. «“Venite a me, voi tutti che siete affaticati e sovraccaricati”, dice il Signore». Ecco «la croce e il Mio corpo quando ne vogliate mangiare»; «Io ve l’avrei detto ci fosse qualcosa di migliore».

La croce e il corpo di Cristo: sono il dono e il ristoro largiti a fine settimana a chi ha lavorato. «Domani sarà domenica, l’operaio, impregnato di ferrugine e di olio si lava, ha indossato la sua camicia bianca. Ed esigendo ciò che gli è stato insegnato, che è simile a pane e simile ad acqua, come un figlio e come un ragazzo si getta tra le braccia di san Giovanni Bosco»: è l’aperto e vivace oratorio domenicale salesiano.

E qui il poema si fa preghiera perché accolga con animo paterno, qualunque sia la sua età, chi lavora per il pane quotidiano: «Ecco, padre, tra le vostre braccia quest’uomo colmo di semplicità e di confidenza e di meccanica: Diteci, è vero che andremo tutti in cielo? Padre, adesso so lavorare e mi cresce la barba sul mento, ma non è una ragione perché cessi di essere il vostro ragazzetto»; «Apro il cuore e apro la bocca, e voi, Padre, dite a Dio che mi doni il pane quotidiano, che doni a tutti i miei compagni la giustizia, poiché si è cristiani. Si è ricominciato a credere in Dio»; «L’essere vecchio non è un motivo per cessare di essere dei fanciulli»; «I fanciulli, gli uomini, le donne: sono stretti da un solo vincolo, tutti insieme sono intimamente uniti: nella loro piccolezza sono una cosa immensa »; «Pregate per noi, Giovanni Bosco, patrono dell’eterna adolescenza!».

Alla sua scuola Paul Claudel vede rinascere la dignità e la fede popolare. Nel fanciullo educato nell’oratorio si fissa un’impronta, che resterà incancellabile e che lo accompagnerà fino all’età adulta e fino alla vecchiaia, nel permanere della freschezza operosa e gioiosa dello spirito.

© L'Osservatore Romano 31 gennaio 2012

San Giovanni Bosco (m) 31 gennaio



31 GENNAIO
Sacerdote (1815-1888)
Memoria

Confessoris

Di famiglia povera, ma ricco di doti, fu mosso da speciale vocazione divina a dedicarsi totalmente alla gioventù. Dinamico e concreto, da ragazzo fondò fra i coetanei la «società dell’allegri», sulla base di «guerra al peccato».

Fatto sacerdote, sentì e affermò sempre di dovere la sua opera a Maria Ausiliatrice. Iniziò con i giovani in cerca di lavoro: diede loro una casa, un cuore amico, istruzione e protezione, assicurando per essi onesti contratti di lavoro; creò scuole professionali, laboratori. Offrì uguale assistenza agli studenti. Indirizzò i giovani a conquistare un posto nel mondo, aiutandoli a raggiungere competenza e abilità professionali; li orientò alla vita cristiana, curando molto la formazione religiosa, la frequenza ai sacramenti, la devozione a Maria. Zelò le vocazioni.

Cercò fra i suoi ragazzi i migliori collaboratori alla sua opera, avendo l’ineguagliabile arte di formare ciascuno secondo la sua personalità. Con loro formò i «Salesiani» e intraprese una vasta opera missionaria. Con santa Maria Domenica Mazzarello fondò le«Figlie di Maria Ausiliatrice; come collaboratori esterni, uomini e donne, creò i «Cooperatori», salesiani nel mondo. Anticipatore in molti campi della vita ecclesiale, Don Bosco, tanto bonario e semplice, ma di acuto ingegno e di forte capacità di azione, è tipo di apostolo dei tempi nuovi. La sua pedagogia cristiana, attuata con abilità di genio ed efficacia di santo, mira a «prevenire» i mali a«preservare» la gioventù con l’intelligente comprensione, l’adattamento alle sue esigenze, con ragionevolezza, confidenza, carità, allegria, espressioni tutte della «presenza» costante dell’educatore: «Che i giovani sappiano di essere amati». Già vecchio, poteva dire di sé: «Ho promesso a Dio che fin l’ultimo mio respiro sarebbe stato per i miei poveri giovani».

Tra i più bei frutti della sua pedagogia, san Domenico Savio, quindicenne, che aveva capito la sua lezione: «Noi, qui, alla scuola di Don Bosco, facciamo consistere la santità nello stare molto allegri e nell’adempimento perfetto dei nostri doveri». (CC Salesiano)




Imitare Gesù e lasciarsi guidare dall'amore
Dalle «Lettere di san Giovanni Bosco

Se vogliamo farci vedere amici del vero bene dei nostri allievi, e obbligarli fare il loro dovere, bisogna che voi non dimentichiate mai che rappresentate i genitori di questa cara gioventù, che fu sempre tenero oggetto delle mie occupazioni, dei miei studi, del mio ministero sacerdotale, e della nostra Congregazione salesiana. Se perciò sarete veri padri dei vostri allievi, bisogna che voi ne abbiate anche il cuore; e non veniate mai alla repressione o punizione senza ragione e senza giustizia, e solo alla maniera di chi vi si adatta per forza e per compiere un dovere.

Quante volte, miei cari figliuoli, nella mia lunga carriera ho dovuto persuadermi di questa grande verità! E’ certo più facile irritarsi che pazientare: minacciare un fanciullo che persuaderlo: direi ancora che è più comodo alla nostra impazienza e alla nostra superbia castigare quelli che resistono, che correggerli col sopportarli con fermezza e con benignità. La carità che vi raccomando è quella che adoperava san Paolo verso i fedeli di fresco convertiti alla religione del Signore, e che sovente lo facevano piangere e supplicare quando se li vedeva meno docili e corrispondenti al suo zelo.

Difficilmente quando si castiga si conserva quella calma, che è necessaria per allontanare ogni dubbio che si opera per far sentire la propria autorità, o sfogare la propria passione.

Riguardiamo come nostri figli quelli sui quali abbiamo da esercitare qualche potere. Mettiamoci quasi al loro servizio, come Gesù che venne a ubbidire e non a comandare, vergognandoci di ciò che potesse aver l’aria in noi di dominatori; e non dominiamoli che per servirli con maggior piacere. Così faceva Gesù con i suoi apostoli, tollerandoli nella loro ignoranza e rozzezza, nella loro poca fedeltà, e col trattare i peccatori con una dimestichezza e familiarità da produrre in alcuni lo stupore, in altri quasi scandalo, e in molti la Santa speranza di ottenere il perdono da Dio. Egli ci disse perciò di imparare da lui ad essere mansueti e umili di cuore (Mt 11,29).

Dal momento che sono i nostri figli, allontaniamo ogni collera quando dobbiamo reprimere i loro falli, o almeno moderiamola in maniera che sembri soffocata del tutto. Non agitazione dell’animo, non disprezzo negli occhi, non ingiuria sul labbro; ma sentiamo la compassione per il momento, la speranza per l’avvenire, e allora voi sarete i veri padri e farete una vera correzione.

In certi momenti molto gravi, giova più una raccomandazione a Dio, un atto di umiltà a lui, che una tempesta di parole, le quali, se da una parte non producono che male in chi le sente, dall’altra parte non arrecano vantaggio a chi le merita.

Ricordatevi che l’educazione è cosa del cuore, e che Dio solo ne è il padrone, e noi non potremo riuscire a cosa alcuna, se Dio non ce ne insegna l’arte, e non ce ne mette in mano le chiavi.

Studiamoci di farci amare, di insinuare il sentimento del dovere, del santo timore di Dio, e vedremo con mirabile facilità aprirsi le porte di tanti cuori e unirsi a noi per cantare le lodi e le benedizioni di colui, che volle farsi nostro modello, nostra via, nostro esempio in tutto, ma particolarmente nell’educazione della gioventù.

domenica 29 gennaio 2012

Benedetto XVI alla Recita dell'Angelus in Piazza San Pietro (29 gennaio 2012)



BENEDETTO XVI

ANGELUS

Piazza San Pietro
Domenica, 29 gennaio 2012


Cari fratelli e sorelle!

Il Vangelo di questa domenica (Mc 1,21-28) ci presenta Gesù che, in giorno di sabato, predica nella sinagoga di Cafarnao, la piccola città sul lago di Galilea dove abitavano Pietro e suo fratello Andrea. Al suo insegnamento, che suscita la meraviglia della gente, segue la liberazione di «un uomo posseduto da uno spirito impuro» (v. 23), che riconosce in Gesù il «santo di Dio», cioè il Messia. In poco tempo, la sua fama si diffonde in tutta la regione, che Egli percorre annunciando il Regno di Dio e guarendo i malati di ogni genere: parola e azione. San Giovanni Crisostomo fa osservare come il Signore «alterni il discorso a beneficio degli ascoltatori, procedendo dai prodigi alle parole e passando di nuovo dall’insegnamento della sua dottrina ai miracoli» (Hom. in Matthæum 25, 1: PG 57, 328).

La parola che Gesù rivolge agli uomini apre immediatamente l’accesso al volere del Padre e alla verità di se stessi. Non così, invece, accadeva agli scribi, che dovevano sforzarsi di interpretare le Sacre Scritture con innumerevoli riflessioni. Inoltre, all’efficacia della parola, Gesù univa quella dei segni di liberazione dal male. Sant’Atanasio osserva che «comandare ai demoni e scacciarli non è opera umana ma divina»; infatti, il Signore «allontanava dagli uomini tutte le malattie e ogni infermità. Chi, vedendo il suo potere … avrebbe ancora dubitato che Egli fosse il Figlio, la Sapienza e la Potenza di Dio?» (Oratio de Incarnatione Verbi 18.19: PG 25, 128 BC.129 B). L’autorità divina non è una forza della natura. È il potere dell’amore di Dio che crea l’universo e, incarnandosi nel Figlio Unigenito, scendendo nella nostra umanità, risana il mondo corrotto dal peccato. Scrive Romano Guardini: «L’intera esistenza di Gesù è traduzione della potenza in umiltà… è la sovranità che qui si abbassa alla forma di servo» (Il Potere, Brescia 1999, 141.142).

Spesso per l’uomo l’autorità significa possesso, potere, dominio, successo. Per Dio, invece, l’autorità significa servizio, umiltà, amore; significa entrare nella logica di Gesù che si china a lavare i piedi dei discepoli (cfr Gv 13,5), che cerca il vero bene dell’uomo, che guarisce le ferite, che è capace di un amore così grande da dare la vita, perché è Amore. In una delle sue Lettere, santa Caterina da Siena scrive: «E’ necessario che noi vediamo e conosciamo, in verità, con la luce della fede, che Dio è l’Amore supremo ed eterno, e non può volere altro se non il nostro bene» (Ep. 13 in: Le Lettere, vol. 3, Bologna 1999, 206).


Cari amici, giovedì prossimo 2 febbraio, celebreremo la festa della Presentazione del Signore al tempio, Giornata Mondiale della Vita Consacrata. Invochiamo con fiducia Maria Santissima, affinché guidi i nostri cuori ad attingere sempre dalla misericordia divina, che libera e guarisce la nostra umanità, ricolmandola di ogni grazia e benevolenza, con la potenza dell’amore.




Dopo l'Angelus
Cari fratelli e sorelle,

oggi, a Vienna, viene proclamata Beata Hildegard Burjan, laica, madre di famiglia, vissuta tra Ottocento e Novecento e fondatrice della Società delle Suore della Caritas socialis. Lodiamo il Signore per questa bella testimonianza del Vangelo!

In questa domenica ricorre la Giornata mondiale dei malati di lebbra. Nel salutare l’Associazione Italiana Amici di Raoul Follereau, vorrei far giungere il mio incoraggiamento a tutte le persone affette da questa malattia, come pure a quanti li assistono e, in diversi modi, si impegnano per eliminare la povertà e l’emarginazione, vere cause del permanere del contagio.

Ricordo inoltre la Giornata internazionale di intercessione per la pace in Terra Santa. In profonda comunione con il Patriarca Latino di Gerusalemme e il Custode di Terra Santa, invochiamo il dono della pace per quella Terra benedetta da Dio.

J’accueille avec joie les pèlerins de langue française. Dans l’Évangile de ce dimanche nous voyons Jésus parler avec autorité, et sa Parole, qui nous délivre de l’esprit du mal, nous révèle l’inlassable fidélité de Dieu pour tout homme. Aujourd’hui encore, cette Parole nous rend libres et elle nous invite à sortir de notre silence. L’Esprit-Saint, que nous avons reçu, fait de nous des prophètes. Notre vocation chrétienne nous pousse donc à accueillir et à annoncer autour de nous la Bonne Nouvelle de Jésus. Que la Vierge Marie nous aide à être des témoins intrépides de l’Évangile ! Bon dimanche à tous !

I offer a warm welcome to the English-speaking pilgrims and visitors present at this Angelus prayer. In this Sunday’s Gospel we hear how the unclean spirit recognizes Jesus as the “Holy One of God”. Let us pray that, despite the distractions of life and the apparent progress of evil, we may continue to put our faith in the Lord Jesus who is “the way, the truth and the life”. I wish all of you a good Sunday. May God bless you!

Ganz herzlich grüße ich die Pilger und Besucher deutscher Sprache und verbinde mich in besonderer Weise mit allen Gläubigen, die heute nachmittag im Wiener Stephansdom an der Seligsprechung von Hildegard Burjan teilnehmen. Sie sagte: „Ich weiß sicher, daß es nur ein wahres Glück gibt, und das ist die Liebe Gottes! Alles andere kann erfreuen, aber Wert hat es nur, wenn es aus dieser Liebe stammt, in ihr begründet ist.“ Aus dieser Liebe hat Hildegard Burjan gelebt. Und als Gründerin der Schwesterngemeinschaft Caritas Socialis hat sie Frauen um sich geschart, die bis heute Quelle dieser Liebe sein wollen, um den notleidenden Menschen Hilfe und Trost und Hilfe zukommen zu lassen. Nach dem Beispiel von Hildegard Burjan versuchen auch wir Boten der helfenden Liebe Gottes zu sein. Einen guten Sonntag euch allen!

Saludo cordialmente a los peregrinos de lengua española presentes en esta oración mariana, en particular a los alumnos del Instituto Diego Sánchez, de Talavera la Real, del Colegio San Atón, de Badajoz, así como a los fieles procedentes de Valencia, Cádiz, Ceuta y Jérez. Con el salmista invito a todos a escuchar la voz de Dios y a no endurecer el corazón. Busquemos tiempo para meditar cuanto el Señor nos propone en la divina Palabra y respondamos a ella con una oración sincera, constante y humilde. De ahí sacaremos fuerzas para afrontar las dificultades de la vida y servir con sencillez a los que nos rodean, sobre todo a quienes pasan por pruebas diversas. Feliz Domingo.

Z serdecznym pozdrowieniem zwracam się do Polaków. W tym tygodniu, w święto Ofiarowania Pańskiego, obchodzimy dzień życia konsekrowanego. Wdzięczni zakonnikom i zakonnicom za ich posługę modlitwy, działalność apostolską i charytatywną w Kościele, módlmy się o nowe powołania. Niech Duch Święty rozpala w wielu sercach pragnienie całkowitego oddania siebie Chrystusowi w ubóstwie, posłuszeństwie i czystości. Niech Bóg wam błogosławi.

[Con un cordiale saluto mi rivolgo ai polacchi. In questa settimana, nella festa della Presentazione del Signore, celebreremo la Giornata della Vita Consacrata. Grati ai religiosi e alle religiose per il loro ministero di preghiera, per l’attività apostolica e caritativa nella Chiesa, preghiamo per le nuove vocazioni. Lo Spirito Santo susciti in tanti cuori il desiderio della totale dedizione a Cristo nella povertà, nell’obbedienza e nella castità. Dio vi benedica!]

E saluto con affetto i pellegrini di lingua italiana, in particolare i fedeli venuti da Taranto, Bari e Civitavecchia, e i numerosi ragazzi dell’Azione Cattolica di Roma con i loro educatori e familiari. Cari ragazzi, anche quest’anno avete dato vita alla “Carovana della Pace”. Vi ringrazio e vi incoraggio a portare dappertutto la pace di Gesù. E accanto a me ci sono due di voi. Adesso ascoltiamo il messaggio letto da Noemi.

[lettura del messaggio]

Grazie Noemi, hai fatto molto bene! Ed ora liberiamo le colombe, che i ragazzi hanno portato, come segno di pace per la città di Roma e per il mondo intero.

[lancio delle colombe]

Vogliono stare nella casa del Papa!

Buona domenica a voi tutti! Buona Domenica!

© Copyright 2012 - Libreria Editrice Vaticana

sabato 28 gennaio 2012

Il Volto di Gesù Gesù Cristo Nostro Signore (11)



Il Volto di Gesù Gesù Cristo Nostro Signore

Se nascondi il tuo volto, vengono meno,
togli loro il respiro, muoiono e ritornano nella loro polvere.

Dal salmo 104,29

venerdì 27 gennaio 2012

IV Domenica del T.O. Anno B - Domínica quarta post Epiphaníam (29 gennaio 2012)




29 GENNAIO 2012





Profeta, personaggio scomodo

La prima lettura e il vangelo si richiamano e si completano, così come la promessa esige il dono, e l’attesa invoca la venuta. Oggetto della promessa e dell’attesa è il grande profeta che Dio susciterà come un secondo Mosè.

La storia della salvezza è storia di Dio che parla con il suo popolo; in questa storia il profetismo appare come una delle linee di forza che percorrono tutta l’esistenza di Israele come popolo, e caratterizzano la sua esperienza religiosa fin dai tempi di Mosè.

Susciterò un profeta in mezzo a loro
Il profeta non è soltanto colui che predice o svela un evento futuro. Egli è prima di tutto un intermediario con l’Assoluto, portatore fedele della parola di Dio. Il profetismo s’innesta in questo contesto di bisogno della parola di Dio e si caratterizza come punto di incontro dell’uomo con la verità e la volontà di Dio. Molto spesso il profeta denuncia le mancanze che si commettono contro la Legge anche se c’è un’osservanza legale della lettera; egli lotta contro le vuote abitudini di un passato che viene confuso con le sue morte sopravvivenze. Egli condanna il culto esteriore e i sacrifici che nascondono l’ipocrisia e l’ingiustizia.

Il profeta è costituito da Dio «per sradicare e demolire, per distruggere e abbattere, per edificare e piantare» (Ger 1,10). Per questo il suo impatto con il popolo è più sovente uno scontro che un incontro.

La Legge era per l’ebreo luogo privilegiato d’incontro con la vo­lontà di Dio, ma portava con sé il rischio di un’osservanza letterale, giuridica, senza anima né cuore. L’incontro fra il profeta e il popolo di Dio avviene proprio sul terreno della Legge. Profetismo e Legge (istituzioni, tradizioni e culto) non esprimono due opzioni o due contenuti divergenti, si tratta di funzioni distinte, di settori che non sono tra loro isolati.

Ci sono anche dei falsi profeti (prima lettura), ci sono persone che si illudono di essere portatori della parola di Dio, quando sono solo eco di parole umane.

Gesù viene presentato nel vangelo non solo come colui che chiude storicamente la serie dei profeti antichi, ma come colui che porta a compimento le promesse, colui nel quale si svela e si realizza il progetto di Dio sull’umanità.

Egli non si limita come gli scribi e i farisei a ripetere e a ricordare la parola di Dio, egli « insegna come uno che ha autorità » e accompagna le sue parole con la potenza dei miracoli. La guarigione dell’indemoniato diventa segno profetico di una liberazione in atto, della venuta del regno di Dio, dell’inizio del nuovo popolo.

Profeti e comunità profetiche nella Chiesa
Esistono ancora oggi i profeti? Quale è il loro compito nella Chiesa? Con quali segni si presentano?

La visione della storia umana secondo la logica di Dio ci è data dalla parola che egli ha affidato alla comunità degli uomini. Tale parola non è sepolta in un libro, ma vive in una comunità; anzi costruisce la comunità e la comunità, rileggendo e attualizzando la parola, la arricchisce, l’approfondisce.

La denuncia profetica
La funzione del profeta è primariamente « critica ». La Chiesa come realtà umana è soggetta alla tentazione di adagiarsi sulle conquiste fatte, o sul rimpianto di equilibri perduti. La tentazione di dare ad istituzioni, ad espressioni religiose il carattere di definitività e assolutezza, è ad ogni passo del suo cammino. Ê facile ritenere acquisito per sempre ciò che è solo un momento della storia. La comunità cristiana ha bisogno di denuncia critica proprio quando ritiene di essere ormai testimonianza trasparente della comunione con Dio.

La denuncia profetica non è iniziativa della Chiesa ma dello Spirito Santo. I profeti si incontrano dove meno e quando meno li attendiamo. Lo Spirito suscita i profeti anche al di là dei confini sociologici della Chiesa. Ogni uomo, ogni comunità umana può diventare profezia.

Non esiste solo una profezia all’interno della Chiesa, ma la stessa comunità cristiana è « profezia » nei confronti di tutta la comunità umana: fonte di critica contro ogni assolutizzazione, o ideologia disumanizzante, o potere opprimente. Denuncia di razzismo, sfruttamento economico, mancanza di rispetto della vita. Tutto questo presuppone una comunità in verifica continua della sua fedeltà al messaggio, perché la sua profezia non sia alienante controtestimonianza. (CC Salesiano)




Cristo ci ha chiamati al suo regno e alla sua gloria
Dalla «Lettera ai cristiani di Smirne» di sant'Ignazio di Antiochia, vescovo e martire
(Intr.; Capp. 1, 1 -4, 1 Funk 1, 235-237)

Ignazio, detto anche Teoforo, si rivolge alla chiesa di Dio e del diletto Figlio suo Gesù Cristo. A questa chiesa, che si trova a Smirne in Asia, augura di godere ogni bene nella purezza dello spirito e nella parola di Dio: essa ha ottenuto per divina misericordia ogni grazia, è piena di fede e di carità e nessun dono le manca. E' degna di Dio e feconda di santità.

Ringrazio Gesù Cristo Dio che vi ha resi così saggi. Ho visto infatti che siete fondati su una fede incrollabile, come se foste inchiodati, carne e spirito, alla croce del Signore Gesù Cristo, e che siete pieni di carità nel sangue di Cristo. Voi credete fermamente nel Signore nostro Gesù, credete che egli discende veramente «dalla stirpe» di Davide secondo la carne» (Rm 1, 3) ed è figlio di Dio secondo la volontà e la potenza di Dio; che nacque veramente da una vergine; che fu battezzata da Giovanni per adempiere ogni giustizia (cfr. Mt 3, 15); che fu veramente inchiodato in croce per noi nella carne sotto Ponzio Pilato e il tetrarca Erode. Noi siamo infatti il frutto della sua croce e della sua beata passione. Avete ferma fede inoltre che con la sua risurrezione ha innalzato nei secoli il suo vessillo per riunire i suoi santi e i suoi fedeli, sia Giudei che Gentili, nell'unico corpo della sua Chiesa.

Egli ha sofferto la sua passione per noi, perché fossimo salvi; e ha sofferto realmente, come realmente ha risuscitato se stesso.

Io so e credo fermamente che anche dopo la risurrezione egli è nella sua carne. E quando si mostrò a Pietro e ai suoi compagni, disse loro: Toccatemi, palpatemi e vedete che non sono uno spirito senza corpo (cfr. Lc 24, 39). E subito lo toccarono e credettero alla realtà della sua carne e del suo spirito. Per questo disprezzarono la morte e trionfarono di essa. Dopo la sua risurrezione, poi, Cristo mangiò e bevve con loro proprio come un uomo in carne ed ossa, sebbene spiritualmente fosse unito al Padre.

Vi ricordo queste cose, o carissimi, quantunque sappia bene che voi vi gloriate della stessa fede mia.

Benedetto XVI al partecipanti alla Plenaria della Congregazione per la Dottrina della Fede (27 gennaio 2012)




DISCORSO DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI
AI PARTECIPANTI ALLA PLENARIA
DELLA CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE

Sala Clementina
Venerdì, 27 gennaio 2012


Signori Cardinali,
venerati Fratelli nell'Episcopato e nel Sacerdozio,
cari fratelli e sorelle!

Per me è sempre motivo di gioia potermi incontrare con voi in occasione della Sessione Plenaria ed esprimervi il mio apprezzamento per il servizio che svolgete per la Chiesa e specialmente per il Successore di Pietro nel suo ministero di confermare i fratelli nella fede (cfr Lc 22, 32). Ringrazio il Cardinale William Levada per il suo cordiale indirizzo di saluto, nel quale ha ricordato alcuni importanti impegni assolti dal Dicastero in questi ultimi anni. E sono particolarmente riconoscente alla Congregazione che, in collaborazione con il Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione, prepara l’Anno della fede, cogliendo in esso un momento propizio per riproporre a tutti il dono della fede nel Cristo risorto, il luminoso insegnamento del Concilio Vaticano II e la preziosa sintesi dottrinale offerta dal Catechismo della Chiesa Cattolica.


Come sappiamo, in vaste zone della terra la fede corre il pericolo di spegnersi come una fiamma che non trova più alimento. Siamo davanti ad una profonda crisi di fede, ad una perdita del senso religioso che costituisce la più grande sfida per la Chiesa di oggi. Il rinnovamento della fede deve quindi essere la priorità nell’impegno della Chiesa intera ai nostri giorni. Auspico che l’Anno della fede possa contribuire, con la collaborazione cordiale di tutti le componenti del Popolo di Dio, a rendere Dio nuovamente presente in questo mondo e ad aprire agli uomini l’accesso alla fede, all’affidarsi a quel Dio che ci ha amati sino alla fine (cfr Gv 13, 1), in Gesù Cristo crocifisso e risorto.

Il tema dell’unità dei cristiani è strettamente collegato con questo compito. Vorrei quindi soffermarmi su alcuni aspetti dottrinali riguardanti il cammino ecumenico della Chiesa, che è stato oggetto di un’approfondita riflessione in questa Plenaria, in coincidenza con la conclusione dell’annuale Settimana di Preghiera per l’Unità dei Cristiani. Infatti, lo slancio dell’opera ecumenica deve partire da quell’«ecumenismo spirituale», da quell’«anima di tutto il movimento ecumenico» (Unitatis redintegratio, 8), che si trova nello spirito della preghiera perché «tutti siano una cosa sola» (Gv 17,21).


La coerenza dell’impegno ecumenico con l’insegnamento del Concilio Vaticano II e con l’intera Tradizione è stata uno degli ambiti cui la Congregazione, in collaborazione con il Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani, ha sempre prestato attenzione. Oggi possiamo constatare non pochi frutti buoni arrecati dai dialoghi ecumenici, ma dobbiamo anche riconoscere che il rischio di un falso irenismo e di un indifferentismo, del tutto alieno alla mente del Concilio Vaticano II, esige la nostra vigilanza. Questo indifferentismo è causato dalla opinione sempre più diffusa che la verità non sarebbe accessibile all’uomo; sarebbe quindi necessario limitarsi a trovare regole per una prassi in grado di migliorare il mondo. E così la fede sarebbe sostituita da un moralismo, senza fondamento profondo. Il centro del vero ecumenismo è invece la fede nella quale l’uomo incontra la verità che si rivela nella Parola di Dio. Senza la fede tutto il movimento ecumenico sarebbe ridotto ad una forma di «contratto sociale» cui aderire per un interesse comune, una «prasseologia» per creare un mondo migliore. La logica del Concilio Vaticano II è completamente diversa: la ricerca sincera della piena unità di tutti i cristiani è un dinamismo animato dalla Parola di Dio, dalla Verità divina che ci parla in questa Parola.


Il problema cruciale, che segna in modo trasversale i dialoghi ecumenici, è perciò la questione della struttura della rivelazione – la relazione tra Sacra Scrittura, la Tradizione viva nella Santa Chiesa e il Ministero dei successori degli Apostoli come testimone della vera fede. E qui è implicita la problematica dell’ecclesiologia che fa parte di questo problema: come arriva la verità di Dio a noi. Fondamentale, tra l’altro, è qui il discernimento tra la Tradizione con maiuscola, e le tradizioni. Non vorrei entrare in dettagli, solo un’osservazione. Un importante passo di tale discernimento è stato compiuto nella preparazione e nell’applicazione dei provvedimenti per gruppi di fedeli provenienti dall’Anglicanesimo, che desiderano entrare nella piena comunione della Chiesa, nell’unità della comune ed essenziale Tradizione divina, conservando le proprie tradizioni spirituali, liturgiche e pastorali, che sono conformi alla fede cattolica (cfr Cost. Anglicanorum coetibus, art. III). Esiste, infatti, una ricchezza spirituale nelle diverse Confessioni cristiane, che è espressione dell’unica fede e dono da condividere e da trovare insieme nella Tradizione della Chiesa.


Oggi, poi, una delle questioni fondamentali è costituita dalla problematica dei metodi adottati nei vari dialoghi ecumenici. Anche essi devono riflettere la priorità della fede. Conoscere la verità è il diritto dell’interlocutore in ogni vero dialogo. È la stessa esigenza della carità verso il fratello. In questo senso, occorre affrontare con coraggio anche le questioni controverse, sempre nello spirito di fraternità e di rispetto reciproco. È importante inoltre offrire un’interpretazione corretta di quell’«ordine o “gerarchia” nelle verità della dottrina cattolica», rilevato nel Decreto Unitatis redintegratio (n. 11), che non significa in alcun modo ridurre il deposito della fede, ma farne emergere la struttura interna, l’organicità di questa unica struttura. Hanno anche grande rilevanza i documenti di studio, prodotti dai vari dialoghi ecumenici. Tali testi non possono essere ignorati, perché costituiscono un frutto importante, pur provvisorio, della riflessione comune maturata negli anni. Nondimeno, essi vanno riconosciuti nel loro giusto significato come contributi offerti alla competente Autorità della Chiesa, che sola è chiamata a giudicarli in modo definitivo. Ascrivere a tali testi un peso vincolante o quasi conclusivo delle spinose questioni dei dialoghi, senza la dovuta valutazione da parte dell’Autorità ecclesiale, in ultima analisi, non aiuterebbe il cammino verso una piena unità nella fede.

Un'ultima questione che vorrei finalmente menzionare è la problematica morale, che costituisce una nuova sfida per il cammino ecumenico. Nei dialoghi non possiamo ignorare le grandi questioni morali circa la vita umana, la famiglia, la sessualità, la bioetica, la libertà, la giustizia e la pace. Sarà importante parlare su questi temi con una sola voce, attingendo al fondamento nella Scrittura e nella viva tradizione della Chiesa. Questa tradizione ci aiuta a decifrare il linguaggio del Creatore nella sua creazione. Difendendo i valori fondamentali della grande tradizione della Chiesa, difendiamo l’uomo, difendiamo il creato.

A conclusione di queste riflessioni, auspico una stretta e fraterna collaborazione della Congregazione con il competente Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani, al fine di promuovere efficacemente il ristabilimento della piena unità fra tutti i cristiani. La divisione fra i cristiani, infatti, «non solo si oppone apertamente alla volontà di Cristo, ma è anche di scandalo al mondo e danneggia la più santa delle cause: la predicazione del Vangelo ad ogni creatura» (Decr. Unitatis redintegratio, 1). L’unità è quindi non solo il frutto della fede, ma anche un mezzo e quasi un presupposto per annunciare in modo sempre più credibile la fede a coloro che non conoscono ancora il Salvatore. Gesù ha pregato: «Come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch'essi in noi una cosa sola, perché il mondo creda che tu mi hai mandato» (Gv 17, 21).

Nel rinnovare la mia gratitudine per il vostro servizio, vi assicuro la mia costante vicinanza spirituale e imparto di cuore a voi tutti la Benedizione Apostolica. Grazie.

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San Tommaso d'Aquino, sacerdote e dottore della Chiesa (m) 28 gennaio




29 GENNAIO
Sacerdote e dottore della Chiesa
(1225?-1274)
Memoria

Nato nel castello di Roccasecca, presso Montecassino, entrò a 18 anni fra i Domenicani; fu studente e poi maestro di teologia a Parigi; insegnò pure nello « studio » della corte papale ad Anagni, a Orvieto, Roma, Viterbo, Napoli. Discepolo di sant’Alberto Magno, nutrito della dottrina della sacra Scrittura e dei Padri, si servì della filosofia, specialmente di Aristotile e dei suoi commentatori arabi ma anche di Platone: accoglieva la verità da chiunque fosse espressa per illustrarne la fede ma respingeva l’errore da chiunque proposto. Ogni verità, egli riteneva, viene da Dio. Poté così operare una grande sintesi dottrinale (Summa contra Gentes, Summa Theologiae, ecc.) nella quale la Chiesa riconosce tuttora una delle più perfette espressioni del suo insegnamento.

Il Vaticano II ha attinto abbondantemente al suo pensiero. E’ onorato col titolo di « Dottore Angelico ».

Semplice, servizievole, silenzioso, raccolto, si faceva amare da tutti; più di ogni altro intese lo studio e la scienza come strumenti di santificazione. Amante del popolo, predicava di preferenza alla povera gente con semplicità e bonarietà anche più volte al giorno, come afferma il suo primo biografo.



Nessun esempio di virtù è assente dalla croce
Dalle «Conferenze» di san Tommaso d'Aquino, sacerdote
(Conf. 6 sopra il «Credo in Deum»)

Fu necessario che il Figlio di Dio soffrisse per noi? Molto, e possiamo parlare di una duplice necessità: come rimedio contro il peccato e come esempio nell'agire.

Fu anzitutto un rimedio, perché è nella passione di Cristo che troviamo rimedio contro tutti i mali in cui possiamo incorrere per i nostri peccati.
Ma non minore è l'utilità che ci viene dal suo esempio. La passione di Cristo infatti è sufficiente per orientare tutta la nostra vita.
Chiunque vuol vivere in perfezione non faccia altro che disprezzare quello che Cristo disprezzò sulla croce, e desiderare quello che egli desiderò. Nessun esempio di virtù infatti è assente dalla croce.

Se cerchi un esempio di carità, ricorda: «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici» (Gv 15, 13).

Questo ha fatto Cristo sulla croce. E quindi, se egli ha dato la sua vita per noi, non ci deve essere pesante sostenere qualsiasi male per lui.

Se cerchi un esempio di pazienza, ne trovi uno quanto mai eccellente sulla croce. La pazienza infatti si giudica grande in due circostanze: o quando uno sopporta pazientemente grandi avversità, o quando si sostengono avversità che si potrebbero evitare, ma non si evitano.

Ora Cristo ci ha dato sulla croce l'esempio dell'una e dell'altra cosa. Infatti «quando soffriva non minacciava» (1 Pt 2, 23) e come un agnello fu condotto alla morte e non apri la sua bocca (cfr. At 8, 32). Grande è dunque la pazienza di Cristo sulla croce: «Corriamo con perseveranza nella corsa, tenendo fisso lo sguardo su Gesù, autore e perfezionatore della fede. Egli, in cambio della gioia che gli era posta innanzi, si sottopose alla croce, disprezzando l'ignominia» (Eb 12, 2).

Se cerchi un esempio di umiltà, guarda il crocifisso: Dio, infatti, volle essere giudicato sotto Ponzio Pilato e morire.

Se cerchi un esempio di obbedienza, segui colui che si fece obbediente al Padre fino alla morte: «Come per la disobbedienza di uno solo, cioè di Adamo, tutti sono stati costituiti peccatori, così anche per l'obbedienza di uno solo tutti saranno costituiti giusti» (Rm 5, 19).

Se cerchi un esempio di disprezzo delle cose terrene, segui colui che è il Re dei re e il Signore dei signori, «nel quale sono nascosti tutti i tesori della sapienza e della scienza» (Col 2, 3). Egli è nudo sulla croce, schernito, sputacchiato, percosso, coronato di spine, abbeverato con aceto e fiele.

Non legare dunque il tuo cuore alle vesti ed alle ricchezze, perché «si sono divise tra loro le mie vesti» (Gv 19, 24); non gli onori, perché ho provato gli oltraggi e le battiture (cfr. Is 53, 4); non alle dignità, perché intrecciata una corona di spine, la misero sul mio capo (cfr. Mc 15, 17); non ai piaceri, perché «quando avevo sete, mi han dato da bere aceto» (Sal 68, 22).

Il Volto di Gesù Gesù Cristo Nostro Signore (10)



Il Volto di Gesù Gesù Cristo Nostro Signore

Perché, Signore, mi respingi,
perché mi nascondi il tuo volto?

Dal salmo 88,15

Benedetto XVI ai Superiori e Seminaristi dei Pontifici Seminari Campano, Calabro e Umbro in occasione del centenario di fondazione (26 gennaio 2012)




DISCORSO DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI
AI SUPERIORI E SEMINARISTI
DEI PONTIFICI SEMINARI CAMPANO, CALABRO E UMBRO
IN OCCASIONE DEL CENTENARIO DI FONDAZIONE

Sala Clementina
Giovedì, 26 gennaio 2012


Signori Cardinali, venerati Fratelli e cari Seminaristi!

Sono molto lieto di accogliervi in occasione del centenario di fondazione dei Pontifici Seminari Campano, Calabro e Umbro. Saluto i Confratelli nell’Episcopato e nel Sacerdozio, i tre Rettori con i collaboratori e i docenti, e soprattutto saluto con affetto voi, cari Seminaristi! La nascita di questi tre Seminari Regionali, nel 1912, va compresa nella più ampia opera di incremento della formazione dei candidati al sacerdozio portata avanti dal Papa san Pio X, in continuità con Leone XIII. Per venire incontro alle accresciute esigenze formative, la strada intrapresa fu quella dell’aggregazione dei Seminari diocesani in nuovi Seminari regionali, insieme con la riforma degli studi teologici, la quale produsse un sensibile innalzamento del livello qualitativo, grazie all’acquisizione di una cultura di base comune a tutti e ad un periodo di studio sufficientemente lungo e ben strutturato. Un ruolo importante svolse al riguardo la Compagnia di Gesù. Ai Gesuiti, infatti, fu affidata la direzione di cinque Seminari regionali, tra cui quello di Catanzaro, dal 1926 al 1941, e quello di Posillipo dalla fondazione ad oggi. Ma non fu la sola formazione accademica a trarne benefici, poiché la promozione della vita comune tra giovani seminaristi provenienti da realtà diocesane differenti favorì un notevole arricchimento umano. Singolare è il caso del Seminario Campano di Posillipo, che dal 1935 si aprì a tutte le regioni meridionali, dopo che ebbe riconosciuta la possibilità di concedere i gradi accademici.

Nell’attuale contesto storico ed ecclesiale l’esperienza dei Seminari regionali si presenta ancora assai opportuna e valida. Grazie al collegamento con Facoltà ed Istituti teologici, consente di avere accesso a percorsi di studio di livello elevato, favorendo una preparazione adeguata al complesso scenario culturale e sociale nel quale viviamo. Inoltre, il carattere interdiocesano si rivela una efficace “palestra” di comunione, che si sviluppa nell’incontro con sensibilità diverse da armonizzare nell’unico servizio alla Chiesa di Cristo. In questo senso, i Seminari regionali forniscono un incisivo e concreto contributo al cammino di comunione delle Diocesi, favorendo la conoscenza, la capacità di collaborazione e l’arricchimento di esperienze ecclesiali tra i futuri presbiteri, tra i formatori e tra gli stessi Pastori delle Chiese particolari. La dimensione regionale si pone inoltre come valida mediazione tra le linee della Chiesa universale e le esigenze delle realtà locali, evitando il rischio del particolarismo. Le vostre regioni, cari amici, sono ricche di grandi patrimoni spirituali e culturali, mentre vivono non poche difficoltà sociali. Pensiamo, ad esempio, all’Umbria, patria di san Francesco e di san Benedetto! Impregnata di spiritualità, l'Umbria è meta continua di pellegrinaggi. Al tempo stesso, questa piccola regione soffre come e più di altre la sfavorevole congiuntura economica. In Campania e in Calabria la vitalità della Chiesa locale, alimentata da un senso religioso ancora vivo grazie a solide tradizioni e devozioni, deve tradursi in una rinnovata evangelizzazione. In quelle terre, la testimonianza delle comunità ecclesiali deve fare i conti con forti emergenze sociali e culturali, come la mancanza di lavoro, soprattutto per i giovani, o il fenomeno della criminalità organizzata.

Il contesto culturale di oggi esige una solida preparazione filosofico-teologica dei futuri presbiteri. Come ho scritto nella mia Lettera ai Seminaristi, a conclusione dell’Anno Sacerdotale, «non si tratta soltanto di imparare le cose evidentemente utili, ma di conoscere e comprendere la struttura interna della fede nella sua totalità, che non è un sommario di tesi, ma è un organismo, una visione organica, così che essa diventi risposta alle domande degli uomini, i quali cambiano, dal punto di vista esteriore, di generazione in generazione, e tuttavia restano in fondo gli stessi» (cfr n. 5). Inoltre, lo studio della teologia deve avere sempre un legame intenso con la vita di preghiera. E’ importante che il seminarista comprenda bene che, mentre si applica a questo oggetto, è in realtà un “Soggetto” che lo interpella, quel Signore che gli ha fatto sentire la sua voce invitandolo a spendere la vita a servizio di Dio e dei fratelli. Così potrà realizzarsi nel seminarista oggi, e nel presbitero domani, quella unità di vita auspicata dal documento conciliare Presbyterorum Ordinis (n. 14), la quale trova la sua espressione visibile nella carità pastorale, «il principio interiore, la virtù che anima e che guida la vita spirituale del presbitero in quanto configurato a Cristo capo» (Giovanni Paolo II, Esort. ap. postsinodale Pastores dabo vobis, 23). E’ indispensabile, infatti, l’armoniosa integrazione tra il ministero con le sue molteplici attività e la vita spirituale del presbitero. «Per il sacerdote, il quale dovrà accompagnare altri lungo il cammino della vita e fino alla porta della morte, è importante che egli stesso abbia messo in giusto equilibrio cuore e intelletto, ragione e sentimento, corpo e anima, e che sia umanamente “integro”» (Lettera ai Seminaristi, 6). Sono queste le ragioni che spingono a prestare molta attenzione alla dimensione umana della formazione dei candidati al sacerdozio. È infatti nella nostra umanità che ci presentiamo davanti a Dio, per essere davanti ai nostri fratelli degli autentici uomini di Dio. Infatti, «chi vuole diventare sacerdote, dev’essere soprattutto un “uomo di Dio”, come lo scrive san Paolo al suo allievo Timoteo (1 Tm 6,11). ... Perciò la cosa più importante nel cammino verso il sacerdozio e durante tutta la vita sacerdotale è il rapporto personale con Dio in Gesù Cristo» (cfr Lettera ai Seminaristi, 1).

Il beato Papa Giovanni XXIII, nel ricevere i Superiori e gli alunni del Seminario Campano, in occasione del 50° di fondazione, alle soglie del Concilio Vaticano II, espresse questa ferma convinzione così: «A questo tende la vostra educazione, in attesa della missione che vi verrà affidata a gloria di Dio e per la salvezza delle anime: formare la mente, santificare la volontà. Il mondo aspetta dei santi: questo soprattutto. Prima ancora che sacerdoti colti, eloquenti, aggiornati, si vogliono sacerdoti santi e santificatori». Queste parole risuonano ancora attuali, perché forte più che mai è nella Chiesa tutta, come nelle vostre particolari regioni di provenienza, la necessità di operai del Vangelo, testimoni credibili e promotori di santità con la loro stessa vita. Possa ciascuno di voi rispondere a questa chiamata! Per questo assicuro la mia preghiera, mentre vi affido alla guida materna della Beata Vergine Maria e di cuore vi imparto una speciale Benedizione Apostolica. Grazie.

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giovedì 26 gennaio 2012

Il Volto di Gesù Gesù Cristo Nostro Signore (09)



Il Volto di Gesù Gesù Cristo Nostro Signore

Rialzaci, Signore, nostro Dio,
fa’ splendere il tuo volto e noi saremo salvi
.

Dal salmo 80

mercoledì 25 gennaio 2012

Benedetto XVI alla Festa della Conversione di San Paolo Apostolo - Celebrazione dei Vespri (25 gennaio 2012)




OMELIA DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI

Festa della Conversione di San Paolo Apostolo
Mercoledì, 25 gennaio 2012



Cari fratelli e sorelle!

È con grande gioia che rivolgo il mio caloroso saluto a tutti voi che vi siete radunati in questa Basilica nella Festa liturgica della Conversione di San Paolo, per concludere la Settimana di Preghiera per l’Unità dei Cristiani, in quest’anno nel quale celebreremo il cinquantesimo anniversario dell’apertura del Concilio Vaticano II, che il beato Giovanni XXIII annunciò proprio in questa Basilica il 25 gennaio 1959. Il tema offerto alla nostra meditazione nella Settimana di preghiera che oggi concludiamo, è: “Tutti saremo trasformati dalla vittoria di Gesù Cristo nostro Signore” (cfr 1 Cor 15,51-58).

Il significato di questa misteriosa trasformazione, di cui ci parla la seconda lettura breve di questa sera, è mirabilmente mostrato nella vicenda personale di san Paolo. In seguito all’evento straordinario accaduto lungo la via di Damasco, Saulo, che si distingueva per lo zelo con cui perseguitava la Chiesa nascente, fu trasformato in un infaticabile apostolo del Vangelo di Gesù Cristo. Nella vicenda di questo straordinario evangelizzatore appare chiaro che tale trasformazione non è il risultato di una lunga riflessione interiore e nemmeno il frutto di uno sforzo personale. Essa è innanzitutto opera della grazia di Dio che ha agito secondo le sue imperscrutabili vie. È per questo che Paolo, scrivendo alla comunità di Corinto alcuni anni dopo la sua conversione, afferma, come abbiamo ascoltato nel primo brano di questi Vespri: “Per grazia di Dio ... sono quello che sono, e la sua grazia in me non è stata vana” (1 Cor 15,10). Inoltre, considerando con attenzione la vicenda di san Paolo, si comprende come la trasformazione che egli ha sperimentato nella sua esistenza non si limita al piano etico – come conversione dalla immoralità alla moralità –, né al piano intellettuale – come cambiamento del proprio modo di comprendere la realtà –, ma si tratta piuttosto di un radicale rinnovamento del proprio essere, simile per molti aspetti ad una rinascita. Una tale trasformazione trova il suo fondamento nella partecipazione al mistero della Morte e Risurrezione di Gesù Cristo, e si delinea come un graduale cammino di conformazione a Lui. Alla luce di questa consapevolezza, san Paolo, quando in seguito sarà chiamato a difendere la legittimità della sua vocazione apostolica e del Vangelo da lui annunziato, dirà: “Non vivo più io, ma Cristo vive in me. E questa vita, che io vivo nel corpo, la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha consegnato se stesso per me” (Gal 2,20).

L’esperienza personale vissuta da san Paolo gli permette di attendere con fondata speranza il compimento di questo mistero di trasformazione, che riguarderà tutti coloro che hanno creduto in Gesù Cristo ed anche tutta l’umanità ed il creato intero. Nella seconda lettura breve che è stata proclamata questa sera, san Paolo, dopo avere sviluppato una lunga argomentazione destinata a rafforzare nei fedeli la speranza della risurrezione, utilizzando le immagini tradizionali della letteratura apocalittica a lui contemporanea, descrive in poche righe il grande giorno del giudizio finale, in cui si compie il destino dell’umanità: “In un istante, in un batter d’occhio, al suono dell’ultima tromba ... i morti risorgeranno incorruttibili e noi saremo trasformati” (1 Cor 15,52). In quel giorno, tutti i credenti saranno resi conformi a Cristo e tutto ciò che è corruttibile sarà trasformato dalla sua gloria: “È necessario infatti - dice san Paolo - che questo corpo corruttibile si vesta di incorruttibilità e questo corpo mortale si vesta di immortalità” (v. 15,53). Allora il trionfo di Cristo sarà finalmente completo, perché, ci dice ancora san Paolo mostrando come le antiche profezie delle Scritture si realizzano, la morte sarà vinta definitivamente e, con essa, il peccato che l’ha fatta entrare nel mondo e la Legge che fissa il peccato senza dare la forza di vincerlo: “La morte è stata inghiottita nella vittoria. / Dov’è, o morte, la tua vittoria? / Dov’è, o morte, il tuo pungiglione? / Il pungiglione della morte è il peccato e la forza del peccato è la Legge” (vv. 54-56). San Paolo ci dice, dunque, che ogni uomo, mediante il battesimo nella morte e risurrezione di Cristo, partecipa alla vittoria di Colui che per primo ha sconfitto la morte, cominciando un cammino di trasformazione che si manifesta sin da ora in una novità di vita e che raggiungerà la sua pienezza alla fine dei tempi.

È molto significativo che il brano si concluda con un ringraziamento: “Siano rese grazie a Dio, che ci dà la vittoria per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo!” (v. 57). Il canto di vittoria sulla morte si tramuta in canto di gratitudine innalzato al Vincitore. Anche noi questa sera, celebrando le lodi serali di Dio, vogliamo unire le nostre voci, le nostre menti e i nostri cuori a questo inno di ringraziamento per ciò che la grazia divina ha operato nell’Apostolo delle genti e per il mirabile disegno salvifico che Dio Padre compie in noi per mezzo del Signore Gesù Cristo. Mentre eleviamo la nostra preghiera, siamo fiduciosi di essere trasformati anche noi e conformati ad immagine di Cristo. Questo è particolarmente vero nella preghiera per l’unità dei cristiani. Quando infatti imploriamo il dono dell’unità dei discepoli di Cristo, facciamo nostro il desiderio espresso da Gesù Cristo alla vigilia della sua passione e morte nella preghiera rivolta al Padre: “perché tutti siano una cosa sola” (Gv 17,21). Per questo motivo, la preghiera per l’unità dei cristiani non è altro che partecipazione alla realizzazione del progetto divino per la Chiesa, e l’impegno operoso per il ristabilimento dell’unità è un dovere e una grande responsabilità per tutti.

Pur sperimentando ai nostri giorni la situazione dolorosa della divisione, noi cristiani possiamo e dobbiamo guardare al futuro con speranza, in quanto la vittoria di Cristo significa il superamento di tutto ciò che ci trattiene dal condividere la pienezza di vita con Lui e con gli altri. La risurrezione di Gesù Cristo conferma che la bontà di Dio vince il male, l’amore supera la morte. Egli ci accompagna nella lotta contro la forza distruttiva del peccato che danneggia l’umanità e l’intera creazione di Dio. La presenza di Cristo risorto chiama tutti noi cristiani ad agire insieme nella causa del bene. Uniti in Cristo, siamo chiamati a condividere la sua missione, che è quella di portare la speranza là dove dominano l’ingiustizia, l’odio e la disperazione. Le nostre divisioni rendono meno luminosa la nostra testimonianza a Cristo. Il traguardo della piena unità, che attendiamo in operosa speranza e per la quale con fiducia preghiamo, è una vittoria non secondaria, ma importante per il bene della famiglia umana.

Nella cultura oggi dominante, l’idea di vittoria è spesso associata ad un successo immediato. Nell’ottica cristiana, invece, la vittoria è un lungo e, agli occhi di noi uomini, non sempre lineare processo di trasformazione e di crescita nel bene. Essa avviene secondo i tempi di Dio, non i nostri, e richiede da noi profonda fede e paziente perseveranza. Sebbene il Regno di Dio irrompa definitivamente nella storia con la risurrezione di Gesù, esso non è ancora pienamente realizzato. La vittoria finale avverrà solo con la seconda venuta del Signore, che noi attendiamo con paziente speranza. Anche la nostra attesa per l’unità visibile della Chiesa deve essere paziente e fiduciosa. Solo in tale disposizione trovano il loro pieno significato la nostra preghiera ed il nostro impegno quotidiani per l’unità dei cristiani. L’atteggiamento di attesa paziente non significa passività o rassegnazione, ma risposta pronta e attenta ad ogni possibilità di comunione e fratellanza, che il Signore ci dona.

In questo clima spirituale, vorrei rivolgere alcuni saluti particolari, in primo luogo al Cardinale Monterisi, Arciprete di questa Basilica, all’Abate e alla Comunità dei monaci benedettini che ci ospitano. Saluto il Cardinale Koch, Presidente del Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani, e tutti i collaboratori di questo Dicastero. Rivolgo i miei cordiali e fraterni saluti a Sua Eminenza il Metropolita Gennadios, rappresentante del Patriarcato ecumenico, ed al Reverendo Canonico Richardson, rappresentante personale a Roma dell’Arcivescovo di Canterbury, e a tutti i rappresentanti delle diverse Chiese e Comunità ecclesiali, qui convenuti questa sera. Inoltre, mi è particolarmente gradito salutare alcuni membri del Gruppo di lavoro composto da esponenti di diverse Chiese e Comunità ecclesiali presenti in Polonia, che hanno preparato i sussidi per la Settimana di Preghiera di quest’anno, ai quali vorrei esprimere la mia gratitudine e il mio augurio di proseguire sulla via della riconciliazione e della fruttuosa collaborazione, come pure i membri del Global Christian Forum che in questi giorni sono a Roma per riflettere sull’allargamento della partecipazione al movimento ecumenico di nuovi soggetti. E saluto anche il gruppo di studenti dell’Istituto Ecumenico di Bossey del Consiglio Ecumenico delle Chiese.

All’intercessione di san Paolo desidero affidare tutti coloro che, con la loro preghiera e il loro impegno, si adoperano per la causa dell’unità dei cristiani. Anche se a volte si può avere l’impressione che la strada verso il pieno ristabilimento della comunione sia ancora molto lunga e piena di ostacoli, invito tutti a rinnovare la propria determinazione a perseguire, con coraggio e generosità, l’unità che è volontà di Dio, seguendo l’esempio di san Paolo, il quale di fronte a difficoltà di ogni tipo ha conservato sempre ferma la fiducia in Dio che porta a compimento la sua opera. Del resto, in questo cammino, non mancano i segni positivi di una ritrovata fraternità e di un condiviso senso di responsabilità di fronte alle grandi problematiche che affliggono il nostro mondo. Tutto ciò è motivo di gioia e di grande speranza e deve incoraggiarci a proseguire il nostro impegno per giungere tutti insieme al traguardo finale, sapendo che la nostra fatica non è vana nel Signore (cfr 1 Cor 15,58). Amen.

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