martedì 10 gennaio 2012

I primi cento giorni di padre Antonio Spadaro, dal 1° ottobre alla guida della «Civiltà Cattolica» (Giovanni Maria Vian)




Il nostro direttore a colloquio con padre Antonio Spadaro,
dal 1° ottobre alla guida della «Civiltà Cattolica»

I primi cento giorni

Se oggi la rivoluzione digitale modifica il modo di vivere e di pensare,
ciò non finirà per riguardare anche la fede?


di Giovanni Maria Vian

Non è difficile intervistare il direttore della «Civiltà Cattolica» dopo i primi cento giorni alla guida della storica testata. A semplificare l’incontro non è infatti soltanto il rapporto ultracentenario che lega il quotidiano della Santa Sede alla rivista più nota e autorevole dei gesuiti italiani né la colleganza, ma soprattutto la grande disponibilità di padre Antonio Spadaro e la sua cordiale amicizia, nel ricordo comune di tante persone care e nello sguardo al futuro in eodem spiritu.

Cosa ha significato la nomina a direttore della «Civiltà Cattolica»? E qual è il bilancio dopo i primi fatidici cento giorni?

Ho vissuto la nomina con trepidazione. Il mio primo articolo sulla rivista risale al 1994, quando avevo 27 anni. Tuttavia esserne il direttore significa vedere le cose da una prospettiva differente. La rivista ha 162 anni di vita e ha giocato un ruolo molto importante nella storia culturale e politica del nostro Paese, oltre che nella formazione dei cattolici italiani: la responsabilità è grande. Oggi, dopo cento giorni di lavoro, avverto con forza il desiderio di dare il massimo, in un momento in cui il mondo delle riviste e quello della comunicazione culturale sta cambiando profondamente. «La Civiltà Cattolica» è la più antica rivista culturale d’Italia tuttora viva. Nacque nel 1850, un tempo di grandi cambiamenti, facendo delle proposte innovative: era una rivista culturale ecclesiastica non in latino, ma in lingua italiana, e faceva uso di un linguaggio piano anche trattando temi specialistici; era diffusa in tutta Italia quando l’Italia non esisteva. I primi gesuiti della rivista furono innovatori anche immaginando l’uso della stampa, che era il mezzo stesso di cui si servivano rivoluzionari, liberali e anarchici. Per rimanere se stessa la nostra rivista è stata in grado di trasformarsi, solcando decenni nei quali il significato stesso della comunicazione, oltre alle sue modalità, è mutato. È chiaro, ad esempio, che la rivista dovrà oggi confrontarsi adeguatamente con l’ambiente digitale. Gli elementi di innovazione della «Civiltà Cattolica» sono già dentro la sua storia e la sua tradizione. È mio compito quello di cogliere questi elementi per tenerli sempre attivi e dinamici.

Quali sono oggi le urgenze cui bisogna dar risposta?

In un mio recente editoriale scrivevo che oggi abbiamo bisogno di testimonianze efficaci che non solo ci aiutino a sperare che dopo la notte venga il giorno, ma a vedere che nel buio della notte brillano le stelle. Dal mio punto di vista la vera grande emergenza del nostro tempo è una crisi diffusa di “generatività”. La nostra società non è in grado di “generare” le nuove generazioni alla vita pubblica: ama la giovinezza come mito, ma non ama i giovani. E oggi vale più la prestanza che la saggezza. È in crisi la figura della vita «adulta», quella che si arrischia nella partita seria della vita. Così la società diventa sterile. Benedetto XVI nella sua recente esortazione apostolica Africae munus ha significativamente chiesto di coinvolgere direttamente i giovani nella vita della società e della Chiesa, perché essi non si abbandonino a sentimenti di frustrazione e di rifiuto di fronte all’impossibilità di prendere in mano il proprio avvenire. Bisogna vincere una crisi di futuro.

Qual è la proposta culturale della rivista?

Ciò che «La Civiltà Cattolica» intende offrire è la condivisione di un’esperienza intellettuale illuminata dalla fede cristiana e inserita nella vita culturale, sociale, economica, politica di oggi. Il lettore, che condivida o meno le nostre scelte, potrà contare sul fatto che le nostre opzioni siano conformi con il Magistero della Chiesa. Ma vogliamo condividere le nostre riflessioni con ogni uomo impegnato seriamente e desideroso di avere fonti di formazione affidabili, capaci di far pensare e di far maturare il giudizio personale. È nel codice genetico della rivista fare da ponte, interpretando il mondo per la Chiesa e la Chiesa per il mondo. Soprattutto «La Civiltà Cattolica» non intende esprimere lamenti per il presente o nostalgie per il passato. Il suo scopo è quello di dare chiavi di lettura capaci di nutrire l’impegno e non la fuga o il pessimismo. E intende farlo in maniera incisiva e insieme aperta e serena, evitando ogni estremismo ed esasperazione.

In che senso la rivista è «cattolica»?

Prima di assumere l’incarico di direttore ho trascorso del tempo a sfogliare i primi volumi della rivista. Sono un tesoro immenso. Nell’editoriale del primo fascicolo del 1850 si legge questa frase: «Una Civiltà cattolica non sarebbe cattolica, cioè universale, se non potesse comporsi con qualunque forma di cosa pubblica». Credo che sia una espressione profetica. Grazie alla molteplicità e all’ampiezza degli argomenti trattati, il nostro lettore, oggi come 160 anni fa, può familiarizzarsi con una quantità di temi dibattuti e attuali. Ma non intendo semplicemente guidare una rivista che “segue” gli eventi. Per quanto sarà possibile proveremo a intuire ciò che sarà, anticipare le tendenze e i fenomeni, prevederne l’impatto, tenere desta l’attenzione dei nostri lettori, dunque. Così intendiamo rispondere all’appello che Benedetto XVI ci ha rivolto nel febbraio 2006 ricevendoci in udienza, quando ci disse che in questo nostro tempo non ci si può dispensare dalla ricerca di nuovi approcci alla situazione storica in cui oggi vivono gli uomini e le donne, per presentare a essi in forme efficaci l’annuncio del Vangelo. Sarà questo il nostro contributo specifico alla nuova evangelizzazione.

«La Civiltà Cattolica» è una rivista di gesuiti. Alcuni ritengono che oggi la Compagnia di Gesù non abbia più tra le sue priorità la cultura. È così?

Penso che non sia affatto vero. Basterebbe considerare i luoghi nei quali i gesuiti nel mondo vivono il loro impegno al servizio del Vangelo: università, riviste, centri culturali, scuole di ogni genere. Negli Stati Uniti, ad esempio, abbiamo ben 28 università, dalle quali provengono la grande maggioranza delle vocazioni di quel Paese, tra l’altro. Un decreto della nostra trentaquattresima Congregazione generale è tutto dedicato alla cultura come campo specifico della nostra missione. Anche in Italia i gesuiti sono impegnati molto in questo settore con riviste, due facoltà teologiche, un centro di studi filosofici, centri culturali e scuole. Ma, al di là delle istituzioni, che pure sono fondamentali, è da considerare che noi gesuiti abbiamo compreso che quella intellettuale è una dimensione che deve plasmare tutte le nostre attività e opere (incluse le parrocchie, i centri giovanili e di spiritualità, le stesse attività sociali). Il nostro ministero intende essere “colto”, qualunque esso sia. L’obiettivo è soprattutto quello di accompagnare quanti, nei diversi contesti, stanno vivendo transizioni difficili, offrendo uno sguardo attento ed evangelico alle istanze più positive ed emergenti della cultura contemporanea.

Il direttore della «Civiltà Cattolica» è da tempo impegnato sul fronte digitale. Perché?

Internet è uno spazio di esperienza che sempre di più sta diventando parte integrante, in maniera fluida, della vita di ogni giorno. È un nuovo contesto esistenziale. Dal suo influsso dipende in qualche modo la percezione di noi stessi, degli altri e del mondo che ci circonda e di quello che ancora non conosciamo. La domanda a questo punto sorge spontanea: se oggi la rivoluzione digitale modifica il modo di vivere e di pensare, ciò non finirà per riguardare anche, in qualche modo, la fede? Se la Rete entra nel processo di formazione dell’identità personale e delle relazioni, non avrà anche un impatto sull’identità religiosa e spirituale degli uomini del nostro tempo e sulla stessa coscienza ecclesiale? Benedetto XVI alla plenaria del Pontificio Consiglio per le Comunicazioni Sociali ha indicato una strada in maniera chiara e decisa, con alcuni interrogativi: «Quali sfide il cosiddetto “pensiero digitale” pone alla fede e alla teologia? Quali domande e richieste?». La Rete e la cultura del cyberspazio interrogano la nostra capacità di formulare e ascoltare un linguaggio simbolico che parli della possibilità e dei segni della trascendenza nella nostra vita. Forse è giunto il momento di considerare la possibilità anche di quella che io chiamo una cyberteologia, cioè l’intelligenza della fede al tempo della Rete. È il frutto della fede che sprigiona da se stessa un impulso conoscitivo in un tempo in cui la logica della Rete segna il modo di pensare, conoscere, comunicare, vivere.

E quali le idee come nuovo consultore di due Pontifici Consigli: della Cultura e delle Comunicazioni Sociali?

Cerco sempre di ricordare, giorno per giorno, ciò che prima Paolo VI e poi Benedetto XVI hanno detto a chiare lettere a noi gesuiti: siamo chiamati a essere «ovunque nella Chiesa, anche nei campi più difficili e di punta, nei crocevia delle ideologie, nelle trincee sociali, vi è stato e vi è il confronto fra le esigenze brucianti dell’uomo e il perenne messaggio del Vangelo». Le due recenti nomine mi hanno ricordato questo impegno evangelico oggi così urgente: sono dicasteri “di trincea”. Il loro lavoro è, soprattutto oggi, centrale e radicalmente interconnesso: la comunicazione genera cultura, e non è possibile fare cultura senza comunicare. Ho già collaborato in precedenza con i due Pontifici Consigli e ho trovato l’esperienza davvero stimolante e arricchente. Spero di essere utile al loro impegno, portando con me anche il bagaglio culturale della «Civiltà Cattolica».

© L'Osservatore Romano 11 gennaio 2012