venerdì 7 ottobre 2011

A colloquio con padre Jacques Dupont, priore della certosa di Serra San Bruno, che Benedetto XVI visiterà domenica 9 "Quando il silenzio vale più della parola" (Nicola Gori)




A colloquio con padre Jacques Dupont, priore della certosa di Serra San Bruno,
che Benedetto XVI visiterà domenica 9

Quando il silenzio vale più della parola

di Nicola Gori

I certosini sono dei veri rivoluzionari che si ispirano al Vangelo. Capovolgono i valori che il mondo ritiene fondamentali. Amano il silenzio, non inteso come assenza di parole, ma come apertura all’accoglienza di Cristo. La loro testimonianza non si esprime con parole o scritti, ma con l’offerta della loro stessa vita, convinti, come sono, che se il mondo non impara a trarre vantaggio dal loro silenzio, nemmeno lo farebbe attraverso le loro parole. È il priore Jacques Dupont a descrivere così, in questa intervista al nostro giornale, i principi che regolano l’esistenza quotidiana dei monaci della certosa di Serra San Bruno, dove il Papa si reca domenica pomeriggio 9 ottobre, dopo la visita alla diocesi di Lamezia Terme. Uno stile di vita che suona quasi come una proposta al mondo frenetico di oggi, fatto più di parole che di azione.

In un tempo in cui il chiasso e il rumore riempiono lo scorrere della vita quotidiana, diventa necessario sperimentare il silenzio: una dimensione — ha detto il Papa anche recentemente — che ci «avvicina a Dio» permettendoci di «pensare e meditare senza distrazioni l’essenziale della nostra esistenza». Quale posto occupa nella vostra giornata di monaci?

Il silenzio dovrebbe permeare tutta la nostra esistenza, per permetterci di dedicarci a Dio solo. Il silenzio innanzitutto non è una pratica ascetica, un’osservanza da rispettare, ma è ciò che, insieme alla solitudine, caratterizza la nostra vita. Già Guigo, il quinto priore di Chartreuse, nelle Consuetudini Cartusiae — ossia il primo testo legislativo certosino — affermava che la quies, la solitudine, il silenzio e il desiderio dei beni celesti, superiorum appetitione, è tutto ciò che vi è di meglio nella nostra vocazione, in hac nostra institutione sunt optima. Il silenzio è una chiamata interiore, in modo che dal semplice tacere nasca la sete di un silenzio più profondo. Non lo si deve vedere come l’assenza di parole o di rumore, ma come un’apertura per accogliere il Verbo. Si sceglie di vivere nel silenzio per poter percepire la Parola che si manifesta come un mormorio nel fondo nell’anima, là dove l’uomo è solo davanti a Dio solo. Non è per niente facile raggiungere tale livello di silenzio. Però abbiamo una guida che viene in nostro aiuto. La Vergine Maria è stata puro silenzio per ricevere nello Spirito la Parola del Figlio. Ella ha ricevuto suo Figlio come il silenzio accoglie la Parola di Dio. Insieme a Maria, cerchiamo, nonostante le nostre imperfezioni e le nostre debolezze, di trascorrere la nostra vita nella contemplazione e nell’adorazione di Dio, non nello splendore della visione, ma nell’oscurità della vita quotidiana di Nazaret.

Il connubio tra vita eremitica e cenobitica sembra abbia trovato nella certosa un punto di equilibrio. Può indicarci quali sono le motivazioni profonde di questa scelta di vita entro la società contemporanea?

Abbracciare una vita come la nostra ha una sola motivazione: l’amore di Dio. Il mondo cambia, la società è ben diversa da quella che ha conosciuto san Bruno, però, in tutti i tempi, Dio chiama alcuni a ritirarsi nel deserto per parlare al loro cuore, come fece per il suo popolo. Forse il mondo fa fatica a capire una vita consacrata esclusivamente a Dio. Tuttavia sono attuali le frasi che Bruno scrisse a un amico: «Che cosa c’è di tanto giusto e di tanto utile, che cosa c’è nella natura umana di tanto profondamente radicato e di tanto profondamente conforme a essa, che amare il bene? E c’è altro bene che Dio solo?». La nostra vita di solitari in comunità è una testimonianza resa all’Assoluto di Dio. Ed è del tutto legittimo consacrare totalmente la vita a Lui, soprattutto nell’oggi in cui si insiste tanto sull’uomo. Non dimentichiamo che ogni uomo porta in sé l’archetipo del monaco, che lo sprona ad andare oltre a ciò che passa e a ciò che è molteplice, per ricercare l’Unum necessarium. Fugitiva relinquere, aeterna captare, per riprendere altre parole di Bruno.

Agli occhi di molti sembra che la vostra scelta significhi rinunciare a occuparsi dei problemi dei fratelli e rifugiarsi in un mondo separato. È un’obiezione fondata?

I nostri statuti dicono che «se aderiamo veramente a Dio, non ci trinceriamo in noi stessi, ma al contrario la nostra mente si apre e il cuore si dilata tanto da poter abbracciare l’universo intero e il mistero salvifico di Cristo. Separati da tutti, siamo uniti a tutti, per stare a nome di tutti al cospetto del Dio vivente». Certo, solo con gli occhi della fede si possono riconoscere questa vicinanza e questa solidarietà. Pur vivendo nascosti con Cristo in Dio, siamo nel cuore dell’umanità. La nostra testimonianza non si esprime con delle parole, né con degli scritti — questa intervista è un’eccezione dovuta dalle circostanze — ma mediante la vita stessa offerta a Dio. Ciò significa che, molto discretamente, la nostra presenza può svegliare il «monaco» che sonnecchia in ogni uomo, ossia ravvivare la sua sete di Dio. Peraltro, secondo il monaco Isacco il siriaco, il frutto della vita monastica è la compassione. Mi viene in mente l’immagine dello staretz russo, spesso presente nella letteratura del XIX secolo: una figura di alto livello spirituale, che, con tutto il suo essere, vive un’intensa unione con Dio, però a un tempo il suo cuore si è spalancato per farsi vicino al prossimo, e in primo luogo al povero, al sofferente.

Nella nostra società è riservato un posto privilegiato al profitto e all’efficienza. La vostra testimonianza capovolge questa visione della vita sociale e individuale?

Senza volerne fare una provocazione, la vita certosina mette al primo posto dei valori che non sono tra i più ambiti in questo mondo e in questo momento. Mentre, di solito, si valuta tutto, incluso la persona umana, dall’efficienza, che a sua volta deve produrre un profitto economico, il monaco cerca di vivere nella gratuità: non qualunque gratuità ma quella dell’amore. Tanto più uno ama gratuitamente, tanto più raggiunge la sua pienezza in Dio che è totalmente Amore gratuito. È ovvio che secondo i criteri del mondo, siamo inutili. Ma ricordiamoci che, in un certo modo, l’inutilità è un valore evangelico (cfr. Luca, 17, 10). Il beato Giovanni Paolo II ha paragonato la nostra vita nascosta alla croce silenziosa piantata nel cuore dell’umanità, perciò essa è segno eloquente e richiamo permanente del fatto che ogni uomo può lasciarsi afferrare da Colui che è solo amore.

Una certosa nel cuore della Calabria, terra spesso alla ribalta delle cronache per la criminalità organizzata e la mala amministrazione, come può essere un faro di valori evangelici?

La Calabria è una regione carica di contraddizioni, grandissime ricchezze umane e spirituali unite a gravi fragilità e povertà. L’affetto della gente che ci circonda avvolge la nostra presenza con grande sollecitudine; d’altra parte, il nostro modo di vivere ci impedisce di avere un ruolo attivo nel teatro delle vicende umane. Se gli altri riescono a cogliere in questo una testimonianza di vita cristiana, allora potrebbe venire un esempio in cui essi possono trovare stimolo e confronto. Per il resto non siamo abituati a fare interventi pubblici perché, come dicono i nostri Statuti, se il mondo non trae profitto dal nostro silenzio, tanto meno ne trarrà dalla nostra parola.

Tutto l’anno la giornata del monaco è sempre uguale. La visita di un Papa come Benedetto XVI per la certosa è solo un salto fuori dalla routine?

La visita del Papa è per noi la conferma che, nonostante il fatto che siamo pochi, nascosti ed esenti da attività pastorale, abbiamo un posto nella Chiesa. Smisurato è il nostro ringraziamento al Sommo Pontefice per la sua attenzione nei nostri confronti. Egli viene a Serra San Bruno per pregare con noi. Aspettiamo questo momento, in cui insieme canteremo le lodi del Signore e presenteremo alla divina Maestà le intenzioni di tutta la Chiesa, riunita attorno al Successore di Pietro. Attendiamo con fiducia e gratitudine le parole che il Papa ci rivolgerà durante la celebrazione dei Vespri, per essere confermati nella fede e nella vocazione.


Cosa ha cambiato nella vita dei monaci la visita di Giovanni Paolo II alla certosa nel 1984?

Pochi mesi fa è morto l’ultimo dei monaci di questa comunità che avevano vissuto quell’evento. Sicuramente la visita e i messaggi che Giovanni Paolo II ha indirizzato a questa comunità hanno confermato la vicinanza della Chiesa alla nostra vocazione e al nostro ordine, spronandoci a essere sempre più coerenti nel nostro quotidiano. Le sue parole risuonano ancora forti nel nostro animo quando ci disse: «Date con la vita testimonianza del vostro amore a Dio. Il mondo vi guarda e, forse inconsapevolmente, molto si attende dalla vostra vita contemplativa. Continuate a porre sotto i suoi occhi la provocazione di un modo di vivere che, pur intriso di sofferenza, di solitudine e di silenzio, fa zampillare in voi la sorgente di una gioia sempre nuova». Ora, in questo ultimo giorno di attesa, aspettiamo con il cuore e la mente aperti ciò che Benedetto XVI vorrà donarci con il suo insegnamento.

© L'Osservatore Romano 8 ottobre 2011