Il discorso alla città del cardinale arcivescovo di Milano per la festa di sant’Ambrogio
Scocca l’ora
delle iniziative virtuose
«Crisi e travaglio. All’inizio del terzo miillennio» è il tema affrontato dal cardinale arcivescovo di Milano nel suo primo discorso alla città pronunciato nel pomeriggio di oggi, martedì 6, nella basilica di Sant’Ambrogio alla vigilia della ricorrenza liturgica del santo patrono della metropoli lombarda. Ne pubblichiamo ampi stralci.
Da più di cinquant’anni è tradizione che l’arcivescovo di Milano, ai primi vespri della solennità di sant’Ambrogio, si rivolga alla città, rappresentata da tutte le sue autorità istituzionali, civili e militari, e a tutta la diocesi, per proporre alcune considerazioni su aspetti particolarmente urgenti della vita comune. Inserendomi in questa tradizione ho trovato particolarmente efficace una preziosa riflessione che l’allora cardinale Montini svolse in occasione di questa stessa festa il 6 dicembre 1962: «Siamo ormai così abituati noi moderni a considerare questa distinzione del profano dal sacro, che facilmente pensiamo i due campi non solo distinti, ma separati; e sovente non solo separati, ma ciascuno a sé sufficiente e dimentico della coessenzialità dell’uno e dell’altro nella formula integrale e reale della vita».
Nel rispetto della netta distinzione tra quanto tocca al vescovo e ciò che spetta alle autorità civili della polis, sono ben consapevole dell’orizzonte in cui va posto ogni intervento del magistero ecclesiale. Tanto più che il dovere del Papa e dei vescovi consiste soprattutto nel proporre a ogni uomo e a tutta la famiglia umana l’avvenimento di Gesù Cristo. A questo scopo, senza avanzare pretese sulle questioni opinabili, il vescovo è chiamato a porgere ai cristiani il suo insegnamento su quelle di principio che concernono il senso — significato e direzione — della vita umana. Questo suo dovere si presenta particolarmente arduo nelle cosiddette «questioni miste», per usare un’efficace espressione di Maritain. Quelle cioè in cui talune scelte pratiche mettono in campo, in termini molto delicati e spesso controversi, i principi stessi — penso a quelli relativi al matrimonio e alla famiglia, alla nascita e alla morte, alla giustizia sociale. Né si può tacere, soprattutto se si vuol tener conto della storia delle nostre terre ma anche dell’intera Italia, che l’insegnamento dei vescovi va oltre i confini della Chiesa e, se liberamente assunto, può favorire un utile confronto per tutta la polis, indipendentemente dalle diverse mondo-visioni che la abitano. È proprio la figura di Ambrogio a confermare, dopo sedici secoli, la solidità di una simile impostazione. Quel nobile romano, uomo di stato e di governo che pose le sue competenze al servizio della Chiesa, operò secondo gli studiosi in un’epoca di angoscia per i mutamenti radicali e continui, sotto la pressione dei popoli barbari, per le incertezze e per le difficoltà dell’economia a causa di carestie e guerre. In questo quadro l’azione di Ambrogio è in grado di offrire preziose indicazioni per il delicato momento storico in cui versiamo.
Ambrogio richiama con forza il senso autentico della proprietà privata: i beni ci sono dati in uso e in primis in funzione del bene comune. Fa sentire alto il suo monito contro la cupidigia e l’avidità, in particolare presso coloro che ricoprono cariche pubbliche. Da qui consegue l’attenzione ai poveri (soprattutto ai poveri «vergognosi», che non avevano il coraggio di manifestare la propria situazione di indigenza) ai malati, ai condannati a morte, ai prigionieri, ai forestieri, agli affamati, alle vedove e agli orfani. Tra le tante fragilità del suo tempo non dimentica nemmeno quella degli anziani trascurati e lasciati a se stessi e invita i figli ad assistere i genitori anziani. Particolarmente significativo il soccorso a chi affollava le città arrivando da fuori, soprattutto gli immigrati, in particolare i contadini, colpiti da carestie e guerre, e i profughi.
Questa sua sensibilità e l’impegno sul piano sociale ed economico poggiano su una strenua difesa della verità, incurante di rischi e difficoltà, nella consapevolezza che la morale cristiana perfeziona quella naturale senza contraddirla. Ciò lo rende particolarmente attento all’etica matrimoniale e familiare. Alla ferma condanna dell’aborto fa seguire una decisa valorizzazione, profetica per il suo tempo, del ruolo della donna.
Con lo sguardo orientato al nostro patrono intendo ora offrire qualche riflessione sul delicato frangente che stiamo attraversando. Parlare di travaglio e non limitarsi a parlare di crisi economico-finanziaria, vuol dire non fermarsi alle pur necessarie misure tecniche per far fronte alle gravi difficoltà.
Secondo molti esperti la radice della cosiddetta crisi starebbe nel rovesciamento del rapporto tra sistema bancario-finanziario ed economia reale. Le banche sarebbero state spinte a dirottare molte risorse che avevano in gestione — e quindi anche il risparmio delle famiglie — verso forme di investimento di tipo puramente finanziario. Anche a proposito della nostra città si è potuto affermare: a Milano è rimasta solo la finanza. Non spetta a me confermare o meno tale diagnosi. Voglio, invece, far emergere un dato che reputo decisivo: nonostante l’ostinato tentativo di mettere tra parentesi la dimensione antropologica ed etica dell’attività economico-finanziaria, in questo momento di grave prova il peso della persona e delle sue relazioni torna testardamente a farsi sentire. Prima di offrire qualche suggerimento in vista della necessaria ricentratura antropologica ed etica dell’economia — domandata a ben vedere dalla stessa ragione economica — è giusto riconoscere, come da più parti si è fatto, che la radice patologica della crisi sta nella mancanza di fiducia e di coesione.
Dalla crisi si esce solo insieme, ristabilendo la fiducia vicendevole. E questo perché un approccio individualistico non rende ragione dell’esperienza umana nella sua totalità. Ogni uomo, infatti, è sempre un «io-in-relazione». Per scoprirlo basta osservarci in azione: ognuno di noi, fin dalla nascita, ha bisogno del riconoscimento degli altri. Quando siamo trattati umanamente, ci sentiamo pieni di gratitudine e il presente ci appare carico di promessa per il futuro. Con questo sguardo fiducioso diventiamo capaci di assumere compiti e di fare, se necessario, sacrifici. Da qui è bene ripartire per ricostruire una idea di famiglia, di vicinato, di città, di Paese, di Europa, di umanità intera, che riconosca questo dato di esperienza, comune — nella sua sostanziale semplicità — a tutti gli uomini.
Non basta la competenza fatta di calcolo e di esperimento. Per affrontare la crisi economico-finanziaria occorre anche un serio ripensamento della ragione, sia economica che politica, come ripetutamente ci invita a fare il Papa. È davvero urgente liberare la ragione economico-finanziaria dalla gabbia di una razionalità tecnocratica e individualistica di cui, con la crisi, abbiamo potuto toccare con mano i limiti. Ed è altrettanto urgente liberare la ragione politica dalle secche di una realpolitik incapace di capire il cambiamento e coglierne le sfide. La politica, nell’attuale impasse nazionale e nel monco progetto europeo, ha bisogno di una rinnovata responsabilità creativa perché la società non può fare a meno del suo compito di impostazione e di guida. A questa assunzione di responsabilità da parte della politica deve corrispondere l’accettazione, da parte di tutti i cittadini, dei sacrifici che l’odierna situazione impone. Per sollevare la nazione è necessario il contributo di tutti, come succede in una famiglia: soprattutto in tempi di grave emergenza ogni membro è chiamato, secondo le sue possibilità, a dare di più. Chi ha il compito istituzionale di imporre sacrifici dovrà però farlo con criteri obiettivi di giustizia ed equità inserendoli in una prospettiva di sviluppo integrale (cfr. Caritas in veritate) che non si misura solo con la pur indicativa crescita del Pil.
Nel quadro delle considerazioni antropologiche, etiche e culturali è opportuno individuare percorsi esistenti in cui impegnarsi sia a livello personale che comunitario. Sono iniziative virtuose che, non a caso, ci stanno domandando un cambiamento degli stili di vita e delle politiche sociali ed economiche.
Il lavoro, nel suo senso profondo, dice l’interagire della persona con le cose, con gli altri, con il grande mistero di Dio, che non smette mai di agire nei confronti del creato, come non a caso Gesù dice del Padre (cfr. Giovanni, 5, 17). Il lavoro remunerato, e il tanto non remunerato, deve essere difeso con opportune politiche che favoriscano la libera intrapresa. Anche un profano riesce a far proprie le indicazioni degli esperti in proposito. Occorre che obiettivo primario di queste politiche sia la rivalutazione della responsabilità personale tanto dei lavoratori quanto degli imprenditori, la creazione di nuovi servizi che favoriscano la crescita professionale e affianchino a percorsi di riqualificazione e formazione un sostegno economico e, infine, la valorizzazione e la creazione di spazi di partecipazione. Perché non riprendere in seria considerazione la proposta che tutti i lavoratori abbiano parte agli utili di impresa? Gli esperti insistono poi sulla necessità di politiche di sostegno al sistema che opera attorno all’impresa in modo che sia accresciuto il livello qualitativo dei prodotti, il rafforzamento dei patrimoni, la promozione dell’esportazione e gli interventi del cosiddetto «welfare aziendale». Si tratta di realtà già in atto nel nostro tessuto lombardo che chiedono di essere ulteriormente potenziate.
Nel caso della finanza, in particolare, è davvero urgente che chi vi opera e chi la studia, chi la commenta e chi ne fruisce, maturino la consapevolezza che quello della finanza è — per sua natura — un patto potente e delicato, che serve realmente lo sviluppo quando crea relazioni solide e stabili nel tempo. L’appiattimento sul breve periodo dell’orizzonte di chi fa finanza e la spersonalizzazione dei rapporti finanziari, non «pagano» realmente. Anzi, l’esperienza c’insegna che hanno già ripetutamente portato il sistema a momenti critici. Il mercato non deve essere concepito come un moloch che non può essere scalfito: esso non è un fatto di natura, ma di cultura.
Ancora una volta gli esperti ci dicono che indicatori dell’impatto della crisi economico-finanziaria sulle famiglie sono l’andamento dei consumi, l’indebitamento e l’impoverimento dei nuclei già in condizione di difficoltà. A questi si aggiunge la sempre più preoccupante questione demografica, che porta inevitabilmente con sé quelle della procreazione e dello scambio intergenerazionale, con tutte le implicazioni sociali del caso. Un’attenzione del tutto particolare va riservata, quindi, alle giovani generazioni, le più colpite dall’odierna situazione economica. In questa prospettiva integrale è un’urgenza primaria favorire la formazione e il lavoro delle nuove generazioni, anche attraverso un’innovativa concezione delle istituzioni scolastiche e universitarie, in modo che si promuova con realismo la possibilità di edificare nuovi nuclei familiari. Il compito delle parrocchie, degli oratori e delle aggregazioni di fedeli assume in proposito sempre maggior rilevanza. Ho spesso avuto modo di ricordare ai giovani, e voglio farlo anche oggi a tutti noi, che non potranno essere il futuro della nostra società — quante volte questa ovvietà è riproposta demagogicamente! — se non si impegnano fin da ora a esserne il presente.