lunedì 31 maggio 2010

OMELIA DELL’ADORAZIONE EUCARISTICA IN SAN PIETRO di Mons. Charles J. Scicluna


OMELIA DELL’ADORAZIONE EUCARISTICA IN SAN PIETRO
sabato 29 maggio 2010

Mons. CHARLES J. SCICLUNA
Promotore di giustizia della Congregazione per la dottrina della fede

La lettura del testo evangelico ci dà una descrizione sintetica ma stupenda del rapporto dolce e tenero di Gesù con i bambini. Questa scena, senz’altro centrale ed emblematica per chi è chiamato ad essere discepolo di Cristo, segna i versetti 36-37 del capitolo 9 di Marco e si ripete al capitolo 10 nei versetti 13-16: “E preso un bambino, lo pose in mezzo, abbracciandolo” (Mc 9, 36). “Gli presentavano dei bambini perché li accarezzasse… e prendendoli fra le braccia e ponendo le mani sopra di loro, li benediceva” (Mc 10, 13.16).

La nostra presenza qui, oggi; la vostra presenza presso l’altare della Cattedra, alla presenza di Gesù eucaristia vuole fare eco dell’amore, della cura e della sollecitudine che la Chiesa, sposa di Gesù, ha sempre avuto per i bambini e per i deboli.

Mettiamoci alla scuola dei Padri della Chiesa, facendo tesoro del lavoro di San Tommaso d’Aquino nella “Catena Aurea”. Possiamo così trovare che per Teofilatto, apprezzato commentatore dei Sacri Testi, il bambino è l’immagine eloquente dell’innocenza. Giovanni Crisostomo commenta che il Signore ne apprezza l’umiltà e la semplicità “perché questo piccolo era puro dall’invidia e dalla vanagloria e da ogni desiderio di superiorità” (Hom. in Matt. 58). Beda il Venerabile ne esalta l’assenza di malizia, la semplicità senza arroganza, la carità senza invidia, la dedizione senza rancore (Comm. in Marc. 3, 39).

Il bambino diventa icona del discepolo che vuole essere “grande” nel Regno dei Cieli. Il Signore Gesù biasima i suoi perché, appena edotti per la seconda volta dell’esigenza della croce (Mc 9, 30-32), si sono persi per strada, lungo la via, in discussioni tra loro su chi fosse il più grande: “Se uno vuole essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servo di tutti”. Quanti peccati nella Chiesa per l’arroganza, per l’insaziabile ambizione, per il sopruso e l’ingiustizia di chi si approfitta del ministero per fare carriera, per mettersi in mostra, per futili e miseri motivi di vanagloria!

“Chi accoglie uno di questi bambini nel mio nome, accoglie me; chi accoglie me, non accoglie me, ma Colui che mi ha mandato” (Mc 9, 37).

Accogliere il bambino, aprire il cuore all’umiltà del bambino, accoglierlo nel nome di Gesù, significa assumere il cuore di Gesù, gli occhi del Maestro; implica un’apertura al Padre e allo Spirito Santo. Esclama Teofilatto: “Vedi com’è grande l’umiltà! Essa si guadagna la dimora del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo.”

“In verità vi dico: Chi non accoglie il regno di Dio come un bambino, non entrerà in esso” (Mc 10, 15).

Accogliere il regno di Dio come un bambino significa accoglierlo con cuore puro, con docilità, abbandono, fiducia, entusiasmo, speranza. Il bambino ci ricorda tutto questo. Tutto questo rende il bambino prezioso agli occhi di Dio e agli occhi del vero discepolo di Gesù.

Quanto, invece, diventa arida la terra e triste il mondo quando questa immagine così bella, quando questa icona così santa, è calpestata, infranta, infangata, abusata, distrutta. Esce dal cuore di Gesù il grido di eco profonda: “Lasciate che i bambini vengano a me e non glielo impedite!” (Mc 10, 14). Non siate di inciampo sul loro cammino verso di me, non ostacolate il loro progresso spirituale, non lasciate che siano sedotti dal maligno, non fate dei bambini l’oggetto della vostra impura cupidigia.

“Chi scandalizza uno di questi piccoli che credono, è meglio per lui che si metta una macina da asino al collo e venga gettato nel mare” (Mc 9, 42).

Gregorio Magno così commenta queste terribili parole di Gesù: “Misticamente espresso nella macina da asino è il ritmo duro e tediante della vita secolare, mentre il profondo del mare sta a significare la dannazione più terribile. Perciò chi, dopo essersi portato ad una professione di santità, distrugge altri tramite la parola o l’esempio, sarebbe davvero meglio per lui che i suoi malfatti gli fossero causa di morte essendo secolare, piuttosto che il suo sacro officio lo imponesse come esempio per altri nelle sue colpe; perché, senza dubbio, se fosse caduto da solo, il suo tormento nell’inferno sarebbe di qualità più sopportabile” (1).

Ma il Signore, che non gode della perdita dei suoi servi e non vuole la morte eterna delle sue creature, subito aggiunge rimedio alla condanna, farmaco alla malattia, sollievo al pericolo di eterna dannazione. Le sue sono le parole forti del chirurgo divino che taglia per guarire, amputa per risanare, pota perché la vite porti molto frutto: “Se la tua mano ti scandalizza, tagliala” (Mc 9, 43). “Se il tuo piede ti scandalizza, taglialo” (Mc 9, 45). “Se il tuo occhio ti scandalizza, cavalo” (Mc 9, 47).

Diversi santi Padri interpretano “la mano”, “il piede”, “l’occhio” come l’amico caro al nostro cuore con cui condividiamo la nostra vita, a cui siamo legati con legami di affetto, concordia e solidarietà. C’è un limite a questo legame. L’amicizia cristiana si sottomette alla legge di Dio. Se il mio amico, il mio compagno, la persona a me cara è per me occasione di peccato, è per me un inciampo nel mio peregrinare, io non ho altra scelta, secondo il criterio del Signore, se non di tagliare questo legame. Chi negherebbe lo strazio di una tale scelta? Non è forse questa una crudele amputazione? Eppure il Signore è chiaro: È meglio per me entrare da solo nel Regno (senza una mano, senza un piede, senza un occhio), che con il mio amico andare “nella Geenna, nel fuoco inestinguibile” (Mc 9, 43; cfr. Mc 9, 45.47).

Questa immagine così forte delle membra del corpo ci mette senza troppa confusione di fronte allo specchio della nostra coscienza. Il riferimento alla mano, al piede, all’occhio ci ricordano le parole sofferte dell’apostolo Paolo nella lettera ai Romani:

“Io trovo dunque in me questa legge: quando voglio fare il bene, il male è accanto a me. Infatti acconsento nel mio intimo alla legge di Dio, ma nelle mie membra vedo un’altra legge, che muove guerra alla legge della mia mente e mi rende schiavo della legge del peccato che è nelle mie membra. Sono uno sventurato! Chi mi libererà da questo corpo votato alla morte? Siano rese grazie a Dio per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore!” (Rom 7, 21-25).

L’apostolo delle Genti, fattosi testimone del Vangelo della grazia (cfr. Rom 1, 16a), non si arrende alla nostra propensione al peccato. Esorta i romani con parole di fuoco che invitano alla conversione e alla fedeltà: “Come avete messo le vostre membra a servizio dell’impurità e dell’iniquità, così ora mettete le vostre membra a servizio della giustizia per la vostra santificazione” (Rom 6, 19).

Il Signore ci insegna quindi un’altra esigenza sublime del discepolato, una medicina preventiva che Gesù eucaristia, fuoco di amore, oggi propone anche a voi giovani impegnati nella formazione al ministero sacro ed ecclesiale: “Ciascuno sarà salato con il fuoco” (Mc 9, 49).

Il fuoco arde, divampa, purifica. È segno eloquente dello Spirito Santo. Nelle parole bellissime del Santo Padre, pronunciate in questa basilica di San Pietro domenica scorsa, solennità di Pentecoste:

“Il fuoco di Dio, il fuoco dello Spirito Santo, è quello del roveto che divampa senza bruciare (cfr. Es 3, 2). È una fiamma che arde, ma non distrugge; che, anzi, divampando fa emergere la parte migliore e più vera dell’uomo, come in una fusione fa emergere la sua forma interiore, la sua vocazione alla verità e all’amore. Un Padre della Chiesa, Origene, in una delle sue omelie su Geremia, riporta un detto attribuito a Gesù, non contenuto nelle Sacre Scritture ma forse autentico, che recita così: ‘Chi è presso di me è presso il fuoco’ (Omelia su Geremia I, III). In Cristo, infatti, abita la pienezza di Dio, che nella Bibbia è paragonato al fuoco. Abbiamo osservato poco fa che la fiamma dello Spirito Santo arde ma non brucia. E tuttavia essa opera una trasformazione, e perciò deve consumare qualcosa nell’uomo, le scorie che lo corrompono e lo ostacolano nelle sue relazioni con Dio e con il prossimo. Questo effetto del fuoco divino però ci spaventa, abbiamo paura di essere ’scottati’, preferiremmo rimanere così come siamo. Ciò dipende dal fatto che molte volte la nostra vita è impostata secondo la logica dell’avere, del possedere e non del donarsi. Molte persone credono in Dio e ammirano la figura di Gesù Cristo, ma quando viene chiesto loro di perdere qualcosa di se stessi, allora si tirano indietro, hanno paura delle esigenze della fede. C’è il timore di dover rinunciare a qualcosa di bello, a cui siamo attaccati; il timore che seguire Cristo ci privi della libertà, di certe esperienze, di una parte di noi stessi. Da un lato vogliamo stare con Gesù, seguirlo da vicino, e dall’altro abbiamo paura delle conseguenze che ciò comporta.

“Cari fratelli e sorelle, abbiamo sempre bisogno di sentirci dire dal Signore Gesù quello che spesso ripeteva ai suoi amici: ‘Non abbiate paura’. Come Simon Pietro e gli altri, dobbiamo lasciare che la sua presenza e la sua grazia trasformino il nostro cuore, sempre soggetto alle debolezze umane. Dobbiamo saper riconoscere che perdere qualcosa, anzi, se stessi per il vero Dio, il Dio dell’amore e della vita, è in realtà guadagnare, ritrovarsi più pienamente. Chi si affida a Gesù sperimenta già in questa vita la pace e la gioia del cuore, che il mondo non può dare, e non può nemmeno togliere una volta che Dio ce le ha donate. Vale dunque la pena di lasciarsi toccare dal fuoco dello Spirito Santo! Il dolore che ci procura è necessario alla nostra trasformazione. È la realtà della croce: non per nulla nel linguaggio di Gesù il fuoco è soprattutto una rappresentazione del mistero della croce, senza il quale non esiste cristianesimo. Perciò, illuminati e confortati da queste parole di vita, eleviamo la nostra invocazione: Vieni, Spirito Santo! Accendi in noi il fuoco del tuo amore! Sappiamo che questa è una preghiera audace, con la quale chiediamo di essere toccati dalla fiamma di Dio; ma sappiamo soprattutto che questa fiamma – e solo essa – ha il potere di salvarci. Non vogliamo, per difendere la nostra vita, perdere quella eterna che Dio ci vuole donare. Abbiamo bisogno del fuoco dello Spirito Santo, perché solo l’Amore redime”.

“Ciascuno sarà salato con il fuoco” (Mc 9, 49).

Il sale preserva dalla corruzione e dà sapore. I Santi Padri vedono qui l’immagine della continenza e della saggezza. L’apostolo Paolo esortava i colossesi (Col 4, 6): “Il vostro parlare sia sempre con grazia, condito con sale, per sapere come rispondere a ciascuno”. Il sale quindi è il Signore Gesù Cristo che ha preservato tutto il mondo dalla corruzione e ha concesso ai suoi, a noi, di essere sale e luce della terra (Matt 5, 13).

“Buona cosa il sale, ma se il sale diventa senza sapore, con che cosa lo salerete? Abbiate sale in voi stessi e siate in pace gli uni con gli altri” (Mc 9, 49).

È questo l’invito che il maestro Gesù rivolge a tutti noi oggi, in questa solenne adorazione di riparazione e di preghiera di intercessione in sintonia con il Santo Padre Benedetto XVI. Noi sentiamo la chiamata del Signore. Non vogliamo dissipare l’entusiasmo della nostra risposta. Non vogliamo che il nostro sale perda il suo sapore. Ai piedi dell’eucaristia facciamo nostra la preghiera che la Chiesa indirizza a Gesù presente sull’altare durante la santa messa:

“Signore Gesù che hai detto ai tuoi apostoli: ‘Vi lascio la pace, vi do la mia pace’, non guardare ai nostri peccati, ma alla fede della tua Chiesa, e donale unità e pace secondo la tua volontà. Tu che vivi e regni nei secoli dei secoli. Amen” (Messale Romano).

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(1) Il testo originale latino della citazione di Gregorio Magno (”Regula pastoralis”, pars I, caput II):

“Indigni autem quique tanti reatus pondera fugerent, si veritatis sententiam sollicita cordis aure pensarent, quae ait: Qui scandalizaverit unum de pusillis istis qui in me credunt, expedit ei ut suspendatur mola asinaria in collo ejus, et demergatur in profundum maris (Matth. XVIII, 6). Per molam quippe asinariam, secularis vitae circuitus ac labor exprimitur, et per profundum maris extrema damnatio designatur. Qui ergo ad sanctitatis speciem deductus, vel verbo caeteros destruit, vel exemplo; melius profecto fuerat, ut hunc ad mortem sub exteriori habitu terrena acta constringerent, quam sacra officia in culpa caeteris imitabilem demonstrarent, quia nimirum si solus caderet, utcumque hunc tolerabilior inferni poena cruciaret”.

Fonte: Sandro Magister

Viaggio Apostolico a Cipro del Santo Padre Benedetto XVI : 4-6 giugno 2010


Viaggio Apostolico a Cipro del
SANTO PADRE BENEDETTO XVI
4-6 giugno 2010 


(Centro Televisivo Vaticano)



----- 4 giugno 2010 -----
* Incontro di Benedetto XVI con i giornalisti durante il volo verso Cipro (Volo Papale, 4 giugno 2010)
[Francese, Italiano]

* Cerimonia di benvenuto all’Aeroporto Internazionale di Paphos (4 giugno 2010)

* Celebrazione Ecumenica nell’area archeologica della Chiesa di Agia Kiriaki Chrysopolitissa (Paphos, 4 giugno 2010)
* Incontro con le Autorità civili e con il Corpo Diplomatico nel grande giardino del Palazzo Presidenziale di Nicosia (5 giugno 2010)

* Incontro con la Comunità Cattolica di Cipro nel Campo sportivo della Scuola elementare di St. Maron (Nicosia, 5 giugno 2010)

* Visita di cortesia a S.B. Chrysostomos II, Arcivescovo di Cipro, nell’Arcivescovado Ortodosso di Nicosia (5 giugno 2010)

* Santa Messa con Sacerdoti, Religiosi, Religiose, Diaconi, Catechisti ed Esponenti di Movimenti ecclesiali di Cipro nella Chiesa parrocchiale latina di Holy Cross (Nicosia, 5 giugno 2010)
[Francese, Inglese, Italiano, Spagnolo, Tedesco]

----- 6 giugno 2010 -----
*
Santa Messa in occasione della pubblicazione dell’Instrumentum Laboris dell’Assemblea Speciale per il Medio Oriente del Sinodo dei Vescovi - Palazzo dello Sport Elefteria (Nicosia, 6 giugno 2010)
[Francese, Inglese, Italiano, Spagnolo, Tedesco]

* Consegna dell'Istrumentum Laboris dell'Assemblea Speciale per il Medio Oriente del Sinodo dei Vescovi - Palazzo dello Sport Elefteria (Nicosia, 6 giugno 2010)
[Francese, Inglese, Italiano, Spagnolo, Tedesco]

* Istrumentum Laboris - «La Chiesa Cattolica nel Medio Oriente: Comunione e testimonianza. "La moltitudine di coloro che erano diventati credenti aveva un cuore solo e un'anima sola" (At 4, 32)» (6 giugno 2010)
[Arabo, Francese, Inglese, Italiano]

* Recita dell'Angelus Domini (Nicosia, 6 giugno 2010)

* Visita alla Cattedrale Maronita di Cipro (Nicosia, 6 giugno 2010)

* Cerimonia di congedo all’Aeroporto Internazionale di Larnaca (6 giugno 2010)
[Francese, Inglese, Italiano, Spagnolo, Tedesco]

----- 9 giugno 2010 -----
* Udienza Generale del mercoledì: Viaggio Apostolico a Cipro (Piazza San Pietro, 9 giugno 2010)
[Francese, Inglese, Italiano, Portoghese, Spagnolo, Tedesco]

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* In una Chiesa di martiri, la pazienza di Benedetto di Sandro Magister (Roma, 9 giugno 2010)
[Italiano, English, Français, Español]




Santa Messa e Processione Eucarista del "Corpus Domini" presiedute dal Santo Padre Benedetto XVI - 3 Giugno 2010



SANTA MESSA E PROCESSIONE EUCARISTICA
NELLA SOLENNITÀ DEL SANTISSIMO CORPO E SANGUE DI CRISTO

Giovedì 3 giugno 2010

Santo Padre Benedetto XVI

celebrerà la Santa Messa sul sagrato della Basilica di San Giovanni in Laterano. Presiederà quindi la Processione Eucaristica che, percorrendo via Merulana, raggiungerà la Basilica di Santa Maria Maggiore.


domenica 30 maggio 2010

LE PAROLE DEL PAPA ALLA RECITA DELL'ANGELUS - 30 maggio2010

BENEDETTO XVI
ANGELUS

Piazza San Pietro
Domenica, 30 maggio 2010

[Francese, Inglese, Italiano, Portoghese, Spagnolo, Tedesco]


Cari fratelli e sorelle!

Dopo il tempo pasquale, concluso domenica scorsa con la Pentecoste, la Liturgia è ritornata al “tempo ordinario”. Ciò non vuol dire però che l’impegno dei cristiani debba diminuire, anzi, entrati nella vita divina mediante i Sacramenti, siamo chiamati quotidianamente ad essere aperti all’azione della Grazia, per progredire nell’amore verso Dio e il prossimo. L’odierna domenica della Santissima Trinità, in un certo senso, ricapitola la rivelazione di Dio avvenuta nei misteri pasquali: morte e risurrezione di Cristo, sua ascensione alla destra del Padre ed effusione dello Spirito Santo. La mente e il linguaggio umani sono inadeguati a spiegare la relazione esistente tra il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, e tuttavia i Padri della Chiesa hanno cercato di illustrare il mistero di Dio Uno e Trino vivendolo nella propria esistenza con profonda fede.

La Trinità divina, infatti, prende dimora in noi nel giorno del Battesimo: “Io ti battezzo – dice il ministro – nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo”. Il nome di Dio, nel quale siamo stati battezzati, noi lo ricordiamo ogni volta che tracciamo su noi stessi il segno della croce. Il teologo Romano Guardini, a proposito del segno della croce, osserva: “lo facciamo prima della preghiera, affinché … ci metta spiritualmente in ordine; concentri in Dio pensieri, cuore e volere; dopo la preghiera, affinché rimanga in noi quello che Dio ci ha donato … Esso abbraccia tutto l’essere, corpo e anima, … e tutto diviene consacrato nel nome del Dio uno e trino” (Lo spirito della liturgia. I santi segni, Brescia 2000, 125-126).

Nel segno della croce e nel nome del Dio vivente è, perciò, contenuto l’annuncio che genera la fede e ispira la preghiera. E, come nel vangelo Gesù promette agli Apostoli che “quando verrà lui, lo Spirito della verità, vi guiderà a tutta la verità” (Gv 16,13), così avviene nella liturgia domenicale, quando i sacerdoti dispensano, di settimana in settimana, il pane della Parola e dell’Eucaristia. Anche il santo Curato d’Ars lo ricordava ai suoi fedeli: “Chi ha accolto la vostra anima – diceva – al primo entrare nella vita? Il sacerdote. Chi la nutre per darle la forza di compiere il suo pellegrinaggio? Il sacerdote. Chi la preparerà a comparire innanzi a Dio, lavandola per l’ultima volta nel sangue di Gesù Cristo? … sempre il sacerdote” (Lettera di indizione dell’Anno Sacerdotale).

Cari amici, facciamo nostra la preghiera di sant’Ilario di Poitiers: “Conserva incontaminata questa fede retta che è in me e, fino al mio ultimo respiro, dammi ugualmente questa voce della mia coscienza, affinché io resti sempre fedele a ciò che ho professato nella mia rigenerazione, quando sono stato battezzato nel Padre, nel Figlio e nello Spirito Santo” (De Trinitate, XII, 57, CCL 62/A, 627). Invocando la Beata Vergine Maria, prima creatura pienamente inabitata dalla Santissima Trinità, domandiamo la sua protezione per proseguire bene il nostro pellegrinaggio terreno.

Dopo l'Angelus:

Stamani, a Roma, nella Basilica di Santa Maria Maggiore, è stata celebrata la beatificazione di Maria Pierina De Micheli, Religiosa dell’Istituto delle Figlie dell’Immacolata Concezione di Buenos Aires. Giuseppina – questo il suo nome di Battesimo – nacque nel 1890 a Milano, in una famiglia profondamente religiosa, dove fiorirono diverse vocazioni al sacerdozio e alla vita consacrata. A 23 anni anche lei imboccò questa strada dedicandosi con passione al servizio educativo, in Argentina e in Italia. Il Signore le donò una straordinaria devozione al suo Santo Volto, che la sostenne sempre nelle prove e nella malattia. Morì nel 1945 e le sue spoglie riposano a Roma nell’Istituto “Spirito Santo”.

Je salue cordialement les pèlerins francophones! La Solennité de la Sainte Trinité nous rappelle que Dieu est Amour et qu’il nous appelle à une vie de communion avec Lui et entre nous. Puisse la Vierge Marie vous aider à contempler le mystère de la grandeur et de la beauté de notre Dieu et à reconnaître sa présence dans le prochain. Je recommande aussi à votre prière la Visite Apostolique que j’effectuerai très prochainement à Chypre. Bon dimanche à tous!

On this Trinity Sunday, I greet all the English-speaking pilgrims and visitors present at today’s Angelus. This week I am making an Apostolic Journey to Cyprus, to meet and pray with the Catholic and Orthodox faithful there and to consign the Instrumentum Laboris for the upcoming Special Assembly of the Synod of Bishops on the Middle East. I ask for your prayers for the peace and prosperity of all the people of Cyprus, as well as for the preparations for the Special Assembly. Upon each of you and your loved ones at home, I invoke the blessings of the most holy Trinity.

Gerne heiße ich am heutigen Dreifaltigkeitssonntag alle Pilger und Gäste aus den Ländern deutscher Sprache willkommen. Der Kern unseres christlichen Glaubens ist das Geheimnis der heiligsten Dreifaltigkeit. Gott offenbart sich als Vater, Sohn und Heiliger Geist, der alles erschaffen hat, erlöst und heiligt. Durch die Taufe auf den Namen des dreieinigen Gottes erhalten wir Anteil am Leben der göttlichen Dreifaltigkeit. Wir wollen dieser Gemeinschaft mit Gott stets treu bleiben und mithelfen, sein Reich der Gerechtigkeit, der Liebe und des Friedens aufzubauen. Von Herzen segne ich euch alle.

Saludo cordialmente a los peregrinos de lengua española que participan en esta oración mariana, en particular a los fieles de la Parroquia de Nuestra Señora de la Asunción, de Cieza. En la solemnidad de la Santísima Trinidad, os invito a bendecir, alabar y glorificar a Dios Padre, a su Hijo unigénito y al Espíritu Santo, por el inefable misterio de vida y comunión entre las Tres Personas Divinas, de única naturaleza e iguales en su dignidad. Que María Santísima sostenga y acompañe con su intercesión a la Iglesia, que vive para invocar el Santo Nombre de Dios, uno y trino. Feliz Domingo.

Pozdrawiam serdecznie Polaków. Szczególną modlitwą ogarniam wszystkich powodzian. Nasze trudne sprawy zawierzamy dzisiaj Trójcy Świętej. Niech Maryja, nasza Orędowniczka pomoże nam odczytać zamysły Bożej Opatrzności. Pamiętajmy słowa z Księgi Hioba: „Dobro przyjęliśmy z ręki Boga. Czemu zła przyjąć nie możemy?” (Hi 2,10). Wszystko jest objęte Bożym planem zbawienia. Niech Bóg w Trójcy Świętej umocni was i wam błogosławi.

[Saluto cordialmente tutti i Polacchi. Sono vicino con una speciale preghiera alle persone colpite dall’alluvione. Oggi affidiamo alla Santissima Trinità le nostre difficoltà. Maria che intercede per noi ci aiuti a leggere i disegni della Provvidenza di Dio. Teniamo presenti le parole del libro di Giobbe: “Se da Dio accettiamo il bene, perché non dovremmo accettare anche il male?” (Gb 2,10). Tutto è racchiuso nel piano divino della salvezza. Vi benedica e vi conforti Dio Uno e Trino.]

Infine, rivolgo con affetto il mio saluto ai pellegrini di lingua italiana. In particolare al folto gruppo venuto da Pordenone per onorare la memoria del Cardinale Celso Costantini, del quale è stato presentato due giorni fa a Roma il volume del Diario, dal titolo Ai margini della guerra (1938-1947). Questa pubblicazione è di grande interesse storico. Il Cardinale Costantini, molto legato al Papa Pio XII, la scrisse quando era Segretario della Congregazione di Propaganda Fide. Il suo Diario testimonia l’immensa opera compiuta dalla Santa Sede in quegli anni drammatici per favorire la pace e soccorrere tutti i bisognosi. Saluto, inoltre, il Movimento dell’Amore Familiare che ha promosso alcuni incontri sulle radici cristiane della famiglia e della società, i fedeli provenienti da Sardagna di Trento, quelli di Lallio insieme con i loro amici tedeschi di Schöngeising, la Fondazione “Gigi Ghirotti” per i malati di tumore, l’Associazione Carabinieri da Firenze, i gruppi di ragazzi che hanno ricevuto la Cresima e le varie scolaresche. A tutti auguro una buona domenica.

© Copyright 2010 - Libreria Editrice Vaticana

sabato 29 maggio 2010

Il Santo Padre Benedetto in occasione del IV Centenario di Padre Matteo Ricci - 22 Maggio 2010



UDIENZA AI PARTECIPANTI AL PELLEGRINAGGIO PROMOSSO DALLA DIOCESI DI MACERATA-TOLENTINO-RECANATI-CINGOLI-TREIA E DALLE DIOCESI DELLE MARCHE, IN OCCASIONE DEL IV CENTENARIO DI PADRE MATTEO RICCI

DISCORSO DEL
SANTO PADRE BENEDETTO XVI

Aula Paolo VI
29 maggio 2010


Signor Cardinale,

Venerati fratelli nell’Episcopato e nel Sacerdozio,
distinte Autorità,
cari fratelli e sorelle,

sono lieto di incontrarvi per ricordare il IV Centenario della morte di Padre Matteo Ricci, s.j. Saluto fraternamente il Vescovo di Macerata-Tolentino-Recanati-Cingoli-Treia, Mons. Claudio Giuliodori, che guida questo numeroso pellegrinaggio. Con lui saluto i Confratelli della Conferenza Episcopale marchigiana e le rispettive Diocesi, le Autorità civili, militari e accademiche; i sacerdoti, i seminaristi e gli studenti, ed anche i Pueri Cantores. Macerata è fiera di un cittadino, un religioso e un sacerdote così illustre! Saluto i Membri della Compagnia di Gesù, di cui fece parte P. Ricci, in particolare il Preposito Generale, P. Adolfo Nicolás, i loro amici e collaboratori e le istituzioni educative a loro legate. Un pensiero anche a tutti i Cinesi. 你 們 好! [Salve!]

L’11 maggio del 1610, a Pechino, terminava la vita terrena di questo grande missionario, vero protagonista dell’annuncio del Vangelo in Cina nell’era moderna dopo la prima evangelizzazione dell’Arcivescovo Giovanni da Montecorvino. Di quale stima fosse circondato nella capitale cinese e nella stessa corte imperiale ne è segno il privilegio straordinario che gli fu concesso, impensabile per uno straniero, di essere sepolto in terra cinese. Anche oggi è possibile venerare la sua tomba a Pechino, opportunamente restaurata dalle Autorità locali. Le molteplici iniziative promosse in Europa e in Cina per onorare P. Ricci, mostrano il vivo interesse che la sua opera continua a riscuotere nella Chiesa e in ambienti culturali diversi.


La storia delle missioni cattoliche comprende figure di grande statura per lo zelo e il coraggio di portare Cristo in terre nuove e lontane, ma P. Ricci è un caso singolare di felice sintesi fra l’annuncio del Vangelo e il dialogo con la cultura del popolo a cui lo si porta, un esempio di equilibrio tra chiarezza dottrinale e prudente azione pastorale. Non solo l’apprendimento profondo della lingua, ma anche l’assunzione dello stile di vita e degli usi delle classi colte cinesi, frutto di studio e di esercizio paziente e lungimirante, fecero sì che P. Ricci venisse accettato dai cinesi con rispetto e stima, non più come uno straniero, ma come il "Maestro del grande Occidente". Nel "Museo del Millennio" di Pechino solo due stranieri sono ricordati fra i grandi della storia della Cina: Marco Polo e P. Matteo Ricci.

L’opera di questo missionario presenta due versanti che non devono essere separati: l’inculturazione cinese dell’annuncio evangelico e la presentazione alla Cina della cultura e della scienza occidentali. Spesso gli aspetti scientifici hanno riscosso maggiore interesse, ma non bisogna dimenticare la prospettiva con cui P. Ricci è entrato in rapporto con il mondo e la cultura cinesi: un umanesimo che considera la persona inserita nel suo contesto, ne coltiva i valori morali e spirituali, cogliendo tutto ciò che di positivo si trova nella tradizione cinese e offrendo di arricchirlo con il contributo della cultura occidentale ma, soprattutto, con la sapienza e la verità di Cristo. P. Ricci non si reca in Cina per portarvi la scienza e la cultura dell’Occidente, ma per portarvi il Vangelo, per far conoscere Dio. Egli scrive: "Per più di vent’anni ogni mattina e ogni sera ho pregato in lacrime verso il Cielo. So che il Signore del Cielo ha pietà delle creature viventi e le perdona (…) La verità sul Signore del Cielo è già nei cuori degli uomini. Ma gli esseri umani non la comprendono immediatamente e, inoltre, non sono inclini a riflettere su una simile questione" (Il vero significato del "Signore del Cielo", Roma 2006, pp.69-70). Ed è proprio mentre porta il Vangelo, che P. Ricci trova nei suoi interlocutori la domanda di un confronto più ampio, così che l’incontro motivato dalla fede, diventa anche dialogo fra culture; un dialogo disinteressato, libero da mire di potere economico o politico, vissuto nell’amicizia, che fa dell’opera di P. Ricci e dei suoi discepoli uno dei punti più alti e felici nel rapporto fra la Cina e l’Occidente. Al riguardo, il "Trattato dell’amicizia" (1595), una delle sue prime e più note opere in cinese, è eloquente. Nel pensiero e nell’insegnamento di P. Ricci scienza, ragione e fede trovano una naturale sintesi: "Chi conosce il cielo e la terra - scrive nella prefazione alla terza edizione del mappamondo - può provare che Colui che governa il cielo e la terra è assolutamente buono, assolutamente grande e assolutamente uno. Gli ignoranti rigettano il Cielo, ma la scienza che non risale all’Imperatore del Cielo come alla prima causa, non è per niente scienza".

L’ammirazione verso P. Ricci non deve, però, far dimenticare il ruolo e l’influsso dei suoi interlocutori cinesi. Le scelte da lui compiute non dipendevano da una strategia astratta di inculturazione della fede, ma dall’insieme degli eventi, degli incontri e delle esperienze che andava facendo, per cui ciò che ha potuto realizzare è stato grazie anche all’incontro con i cinesi; un incontro vissuto in molti modi, ma approfonditosi attraverso il rapporto con alcuni amici e discepoli, specie i quattro celebri convertiti, "pilastri della nascente Chiesa cinese". Di questi il primo e più famoso è Xu Guangqi, nativo di Shanghai, letterato e scienziato, matematico, astronomo, studioso di agricoltura, giunto ai più alti gradi della burocrazia imperiale, uomo integro, di grande fede e vita cristiana, dedito al servizio del suo Paese, e che occupa un posto di rilievo nella storia della cultura cinese. E’ lui, ad esempio, a convincere e aiutare P. Ricci a tradurre in cinese gli "Elementi" di Euclide, opera fondamentale della geometria, o ad ottenere che l’Imperatore affidasse agli astronomi gesuiti la riforma del calendario cinese. Come è un altro degli studiosi cinesi convertiti al Cristianesimo – Li Zhizao - ad aiutare P. Ricci nella realizzazione delle ultime e più sviluppate edizioni del mappamondo, che avrebbe dato ai cinesi una nuova immagine del mondo. Egli descriveva P. Ricci con queste parole: "Io l’ho creduto un uomo singolare perché vive nel celibato, non briga le cariche, parla poco, ha una condotta regolata e questo tutti i giorni, coltiva la virtù di nascosto e serve Dio continuamente". E’ giusto dunque associare a P. Matteo Ricci anche i suoi grandi amici cinesi, che con lui condivisero l’esperienza di fede.

Cari fratelli e sorelle, il ricordo di questi uomini di Dio dediti al Vangelo e alla Chiesa, il loro esempio di fedeltà a Cristo, il profondo amore verso il popolo cinese, l’impegno di intelligenza e di studio, la loro vita virtuosa, siano occasione di preghiera per la Chiesa in Cina e per l’intero popolo cinese, come facciamo ogni anno, il 24 maggio, rivolgendoci a Maria Santissima, venerata nel celebre Santuario di Sheshan a Shanghai; e siano anche di stimolo ed incoraggiamento a vivere con intensità la fede cristiana, nel dialogo con le diverse culture, ma nella certezza che in Cristo si realizza il vero umanesimo, aperto a Dio, ricco di valori morali e spirituali e capace di rispondere ai desideri più profondi dell’animo umano. Anch’io, come P. Matteo Ricci, esprimo oggi la mia profonda stima al nobile popolo cinese e alla sua cultura millenaria, convinto che un loro rinnovato incontro con il Cristianesimo apporterà frutti abbondanti di bene, come allora favorì una pacifica convivenza tra i popoli. Grazie.

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DOMENICA DOPO PENTECOSTE, SS. TRINITÀ (s) Anno C - IN FESTO SS. TRINITATIS


MISSALE ROMANUM
Domenica, 30 Maggio 2010



NOVUS ORDO

VANGELO
Dal Vangelo secondo Giovanni Gv 16, 12-15

In quel tempo, disse Gesù ai suoi discepoli: «Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso. Quando verrà lui, lo Spirito della verità, vi guiderà a tutta la verità, perché non parlerà da se stesso, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annuncerà le cose future. Egli mi glorificherà, perché prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà. Tutto quello che il Padre possiede è mio; per questo ho detto che prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà».



EVANGÉLIUM
Sequéntia S. Evangélii secundum Matthǽum, 28, 18-20

In illo témpore: Dixit Iesus discípulis suis: Data est mihi omnis potéstas in coelo et in terra. Eúntes ergo docéte omnes gentes, baptizántes eos in nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti: docéntes eos serváre ómnia, quecúmque mandávi vobis. Et ecce ego vobíscum sum ómnibus diébus, usque ad consummatiónem sǽculi.

In quel tempo: Gesù disse ai suoi discepoli: Mi è dato ogni potere in cielo e in terra. Andate, dunque, e istruite tutte le genti, battezzandole nel nome del Padre, del Figlio, e dello Spirito Santo, e insegnando loro ad osservare tutto quello che vi ho comandato. Ed ecco che io sarò con voi tutti i giorni fino alla fine dei secoli.

venerdì 28 maggio 2010

Visita di Maria S.S. nel vicariato di Sestri Levante - 28 maggio 2010


400° Anniversario dell'Apparizione di
NOSTRA SIGNORA DELL'ORTO
Chiavari, 2 luglio 1610 - 2 luglio 2010


Ave Maria !


Il Santo Padre Benedetto XVI al Pontificio Consiglio della Pastorale per i Migranti e Itineranti - 28 maggio 2010


DISCORSO DEL
SANTO PADRE BENEDETTO XVI
AI PARTECIPANTI ALL'ASSEMBLEA PLENARIA
DEL PONTIFICIO CONSIGLIO DELLA PASTORALE
PER I MIGRANTI E GLI ITINERANTI

Sala Clementina
Venerdì, 28 maggio 2010


Signori Cardinali,
Venerati Fratelli nell’Episcopato e nel Sacerdozio,
cari fratelli e sorelle!

Con grande gioia vi accolgo in occasione della Sessione Plenaria del Pontificio Consiglio della Pastorale per i Migranti e gli Itineranti. Saluto il Presidente del Dicastero, Mons. Antonio Maria Vegliò, che ringrazio per le parole di lieta cordialità, il Segretario, i Membri, i Consultori e gli Officiali. A tutti rivolgo l'augurio di un proficuo lavoro.

Avete scelto come tema per questa Sessione quello della “Pastorale della mobilità umana oggi, nel contesto della corresponsabilità degli Stati e degli Organismi Internazionali”. La circolazione delle persone è da tempo oggetto di convenzioni internazionali, che mirano a garantire la protezione dei diritti umani fondamentali e a combattere la discriminazione, la xenofobia e l’intolleranza. Si tratta di documenti che forniscono principi e tecniche di tutela sovranazionali.

E’ apprezzabile lo sforzo di costruire un sistema di norme condivise che contemplino i diritti e i doveri dello straniero, come pure quelli delle comunità di accoglienza, tenendo conto, in primo luogo, della dignità di ogni persona umana, creata da Dio a sua immagine e somiglianza (cfr Gen 1,26). Ovviamente, l'acquisizione di diritti va di pari passo con l'accoglienza di doveri. Tutti, infatti, godono di diritti e doveri non arbitrari, perché scaturiscono dalla stessa natura umana, come afferma l'Enciclica Pacem in terris del beato Papa Giovanni XXIII: “ogni essere umano è persona, cioè una natura dotata di intelligenza e di volontà libera; e quindi è soggetto di diritti e di doveri che scaturiscono immediatamente e simultaneamente dalla sua stessa natura: diritti e doveri che sono perciò universali, inviolabili, inalienabili” (n. 5). La responsabilità degli Stati e degli Organismi Internazionali, pertanto, si esplica specialmente nell'impegno di incidere su questioni che, fatte salve le competenze del legislatore nazionale, coinvolgono l'intera famiglia dei popoli, ed esigono una concertazione tra i Governi e gli Organismi più direttamente interessati. Penso a problematiche quali l'ingresso o l'allontanamento forzato dello straniero, la fruibilità dei beni della natura, della cultura e dell'arte, della scienza e della tecnica, che a tutti deve essere accessibile. Non si deve poi dimenticare l'importante ruolo di mediazione affinché le risoluzioni nazionali e internazionali, che promuovono il bene comune universale, trovino accoglienza presso le istanze locali e si ripercuotano nella vita quotidiana.

In tale contesto, gli ordinamenti a livello nazionale e internazionale che promuovono il bene comune ed il rispetto della persona incoraggiano la speranza e gli sforzi per il raggiungimento di un ordine sociale mondiale basato sulla pace, sulla fraternità e sulla cooperazione di tutti, nonostante la fase critica che le istituzioni internazionali stanno attraversando, impegnate a risolvere le questioni cruciali della sicurezza e dello sviluppo, a beneficio di tutti. È vero che, purtroppo, assistiamo al riemergere di istanze particolaristiche in alcune aree del mondo, ma è pure vero che ci sono latitanze ad assumere responsabilità che dovrebbero essere condivise. Inoltre, non si è ancora spento l'anelito di molti ad abbattere i muri che dividono e a stabilire ampie intese, anche mediante disposizioni legislative e prassi amministrative che favoriscano l’integrazione, il mutuo scambio e l’arricchimento reciproco. In effetti, prospettive di convivenza tra i popoli possono essere offerte tramite linee oculate e concertate per l’accoglienza e l’integrazione, consentendo occasioni di ingresso nella legalità, favorendo il giusto diritto al ricongiungimento familiare, all'asilo e al rifugio, compensando le necessarie misure restrittive e contrastando il deprecabile traffico di persone. Proprio qui le diverse organizzazioni a carattere internazionale, in cooperazione tra di loro e con gli Stati, possono fornire il loro peculiare apporto nel conciliare, con varie modalità, il riconoscimento dei diritti della persona e il principio di sovranità nazionale, con specifico riferimento alle esigenze della sicurezza, dell'ordine pubblico e del controllo delle frontiere.

I diritti fondamentali della persona possono essere il punto focale dell'impegno di corresponsabilità delle istituzioni nazionali e internazionali. Esso, poi, è strettamente legato all’“apertura alla vita, che è al centro del vero sviluppo”, come ho ribadito nell'Enciclica Caritas in veritate (cfr n. 28), dove pure facevo appello agli Stati affinché promuovano politiche in favore della centralità e integrità della famiglia (cfr ibid., n. 44). D'altro canto, è evidente che l’apertura alla vita e i diritti della famiglia devono essere ribaditi nei diversi contesti, poiché “in una società in via di globalizzazione, il bene comune e l'impegno per esso non possono non assumere le dimensioni dell'intera famiglia umana, vale a dire della comunità dei popoli e delle Nazioni” (ibid., n. 7). L’avvenire delle nostre società poggia sull'incontro tra i popoli, sul dialogo tra le culture nel rispetto delle identità e delle legittime differenze. In questo scenario la famiglia mantiene il suo ruolo fondamentale. Perciò la Chiesa, con l’annuncio del Vangelo di Cristo in ogni settore dell’esistenza, porta avanti “l'impegno… a favore non solo dell'individuo migrante, ma anche della sua famiglia, luogo e risorsa della cultura della vita e fattore di integrazione di valori”, come ho riaffermato nel Messaggio per la Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato dell'anno 2006.

Cari fratelli e sorelle, spetta anche a voi sensibilizzare verso forme di corresponsabilità le Organizzazioni che si dedicano al mondo dei migranti e degli itineranti. Questo settore pastorale è legato a un fenomeno in continua espansione e, quindi, il vostro ruolo dovrà tradursi in risposte concrete di vicinanza e di accompagnamento pastorale delle persone, tenendo conto delle diverse situazioni locali. Su ciascuno di voi invoco la luce dello Spirito Santo e la materna protezione della Madonna, rinnovando il mio ringraziamento per il servizio che rendete alla Chiesa e alla società. L'ispirazione del Beato Giovanni Battista Scalabrini, definito “Padre dei migranti” dal Venerabile Giovanni Paolo II e di cui ricorderemo i 105 anni della nascita al cielo il prossimo 1° giugno, illumini la vostra azione a favore dei migranti e degli itineranti e vi sproni ad una carità sempre più attenta, che testimoni loro l’amore indefettibile di Dio. Da parte mia vi assicuro la preghiera, mentre di cuore vi benedico.

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Santa Messa Tridentina Cantata 30 Maggio 2010 ad Avellino


Parrocchia Santa Maria Assunta in Cielo
VALLE PONTICELLI - AVELLINO

CHIUSURA DEL
MESE DI MAGGIO


30 maggio 2010
Solennità della Santissima Trinità

ore 16.30 Recita del Santo Rosario
misteri gaudiosi, dolorosi e gloriosi con meditazione mariana

ore 18.30 SANTA MESSA CANTATA
in rito romano antico


CONSACRAZIONE DELLA PARROCCHIA
al Cuore Immacolato di Maria


PROCESSIONE aux flambeaux
per il centro storico della parrocchia

canti gregoriani eseguiti dalle
Suore Francescane dell’Immacolata

giovedì 27 maggio 2010

Papa Benedetto XVI all’Assemblea Generale della CEI - 27 maggio 2010


UDIENZA ALL’ASSEMBLEA GENERALE DELLA
CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA (C.E.I.)
27 maggio 2007

DISCORSO DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI

Venerati e cari Fratelli,

nel Vangelo proclamato domenica scorsa, Solennità di Pentecoste, Gesù ci ha promesso: "Il Paraclito, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, lui vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto" (Gv 14, 26). Lo Spirito Santo guida la Chiesa nel mondo e nella storia. Grazie a questo dono del Risorto, il Signore resta presente nello scorrere degli eventi; è nello Spirito che possiamo riconoscere in Cristo il senso delle vicende umane. Lo Spirito Santo ci fa Chiesa, comunione e comunità incessantemente convocata, rinnovata e rilanciata verso il compimento del Regno di Dio. È nella comunione ecclesiale la radice e la ragione fondamentale del vostro convenire e del mio essere ancora una volta con voi, con gioia, in occasione di questo appuntamento annuale; è la prospettiva con la quale vi esorto ad affrontare i temi del vostro lavoro, nel quale siete chiamati a riflettere sulla vita e sul rinnovamento dell’azione pastorale della Chiesa in Italia. Sono grato al Cardinale Angelo Bagnasco per le cortesi e intense parole che mi ha rivolto, facendosi interprete dei vostri sentimenti: il Papa sa di poter contare sempre sui Vescovi italiani. In voi saluto le comunità diocesane affidate alle vostre cure, mentre estendo il mio pensiero e la mia vicinanza spirituale all’intero popolo italiano.

Corroborati dallo Spirito, in continuità con il cammino indicato dal Concilio Vaticano II, e in particolare con gli orientamenti pastorali del decennio appena concluso, avete scelto di assumere l’educazione quale tema portante per i prossimi dieci anni. Tale orizzonte temporale è proporzionato alla radicalità e all’ampiezza della domanda educativa. E mi sembra necessario andare fino alle radici profonde di questa emergenza per trovare anche le risposte adeguate a questa sfida. Io ne vedo soprattutto due. Una radice essenziale consiste - mi sembra - in un falso concetto di autonomia dell’uomo: l’uomo dovrebbe svilupparsi solo da se stesso, senza imposizioni da parte di altri, i quali potrebbero assistere il suo autosviluppo, ma non entrare in questo sviluppo. In realtà, è essenziale per la persona umana il fatto che diventa se stessa solo dall’altro, l’"io" diventa se stesso solo dal "tu" e dal "voi", è creato per il dialogo, per la comunione sincronica e diacronica. E solo l’incontro con il "tu" e con il "noi" apre l’"io" a se stesso. Perciò la cosiddetta educazione antiautoritaria non è educazione, ma rinuncia all’educazione: così non viene dato quanto noi siamo debitori di dare agli altri, cioè questo "tu" e "noi" nel quale si apre l’"io" a se stesso. Quindi un primo punto mi sembra questo: superare questa falsa idea di autonomia dell’uomo, come un "io" completo in se stesso, mentre diventa "io" anche nell’incontro collettivo con il "tu" e con il "noi".

L’altra radice dell’emergenza educativa io la vedo nello scetticismo e nel relativismo o, con parole più semplici e chiare, nell’esclusione delle due fonti che orientano il cammino umano. La prima fonte dovrebbe essere la natura secondo la Rivelazione. Ma la natura viene considerata oggi come una cosa puramente meccanica, quindi che non contiene in sé alcun imperativo morale, alcun orientamento valoriale: è una cosa puramente meccanica, e quindi non viene alcun orientamento dall’essere stesso. La Rivelazione viene considerata o come un momento dello sviluppo storico, quindi relativo come tutto lo sviluppo storico e culturale, o - si dice - forse c’è rivelazione, ma non comprende contenuti, solo motivazioni. E se tacciono queste due fonti, la natura e la Rivelazione, anche la terza fonte, la storia, non parla più, perché anche la storia diventa solo un agglomerato di decisioni culturali, occasionali, arbitrarie, che non valgono per il presente e per il futuro. Fondamentale è quindi ritrovare un concetto vero della natura come creazione di Dio che parla a noi; il Creatore, tramite il libro della creazione, parla a noi e ci mostra i valori veri. E poi così anche ritrovare la Rivelazione: riconoscere che il libro della creazione, nel quale Dio ci dà gli orientamenti fondamentali, è decifrato nella Rivelazione, è applicato e fatto proprio nella storia culturale e religiosa, non senza errori, ma in una maniera sostanzialmente valida, sempre di nuovo da sviluppare e da purificare. Così, in questo "concerto" – per così dire – tra creazione decifrata nella Rivelazione, concretizzata nella storia culturale che sempre va avanti e nella quale noi ritroviamo sempre più il linguaggio di Dio, si aprono anche le indicazioni per un’educazione che non è imposizione, ma realmente apertura dell’"io" al "tu", al "noi" e al "Tu" di Dio.

Quindi le difficoltà sono grandi: ritrovare le fonti, il linguaggio delle fonti, ma, pur consapevoli del peso di queste difficoltà, non possiamo cedere alla sfiducia e alla rassegnazione. Educare non è mai stato facile, ma non dobbiamo arrenderci: verremmo meno al mandato che il Signore stesso ci ha affidato, chiamandoci a pascere con amore il suo gregge. Risvegliamo piuttosto nelle nostre comunità quella passione educativa, che è una passione dell’"io" per il "tu", per il "noi", per Dio, e che non si risolve in una didattica, in un insieme di tecniche e nemmeno nella trasmissione di principi aridi. Educare è formare le nuove generazioni, perché sappiano entrare in rapporto con il mondo, forti di una memoria significativa che non è solo occasionale, ma accresciuta dal linguaggio di Dio che troviamo nella natura e nella Rivelazione, di un patrimonio interiore condiviso, della vera sapienza che, mentre riconosce il fine trascendente della vita, orienta il pensiero, gli affetti e il giudizio.

I giovani portano una sete nel loro cuore, e questa sete è una domanda di significato e di rapporti umani autentici, che aiutino a non sentirsi soli davanti alle sfide della vita. È desiderio di un futuro, reso meno incerto da una compagnia sicura e affidabile, che si accosta a ciascuno con delicatezza e rispetto, proponendo valori saldi a partire dai quali crescere verso traguardi alti, ma raggiungibili. La nostra risposta è l’annuncio del Dio amico dell’uomo, che in Gesù si è fatto prossimo a ciascuno. La trasmissione della fede è parte irrinunciabile della formazione integrale della persona, perché in Gesù Cristo si realizza il progetto di una vita riuscita: come insegna il Concilio Vaticano II, "chiunque segue Cristo, l’uomo perfetto, diventa anch’egli più uomo" (Gaudium et spes, 41). L’incontro personale con Gesù è la chiave per intuire la rilevanza di Dio nell’esistenza quotidiana, il segreto per spenderla nella carità fraterna, la condizione per rialzarsi sempre dalle cadute e muoversi a costante conversione.

Il compito educativo, che avete assunto come prioritario, valorizza segni e tradizioni, di cui l’Italia è così ricca. Necessita di luoghi credibili: anzitutto la famiglia, con il suo ruolo peculiare e irrinunciabile; la scuola, orizzonte comune al di là delle opzioni ideologiche; la parrocchia, "fontana del villaggio", luogo ed esperienza che inizia alla fede nel tessuto delle relazioni quotidiane. In ognuno di questi ambiti resta decisiva la qualità della testimonianza, via privilegiata della missione ecclesiale. L’accoglienza della proposta cristiana passa, infatti, attraverso relazioni di vicinanza, lealtà e fiducia. In un tempo nel quale la grande tradizione del passato rischia di rimanere lettera morta, siamo chiamati ad affiancarci a ciascuno con disponibilità sempre nuova, accompagnandolo nel cammino di scoperta e assimilazione personale della verità. E facendo questo anche noi possiamo riscoprire in modo nuovo le realtà fondamentali.

La volontà di promuovere una rinnovata stagione di evangelizzazione non nasconde le ferite da cui la comunità ecclesiale è segnata, per la debolezza e il peccato di alcuni suoi membri. Questa umile e dolorosa ammissione non deve, però, far dimenticare il servizio gratuito e appassionato di tanti credenti, a partire dai sacerdoti. L’anno speciale a loro dedicato ha voluto costituire un’opportunità per promuoverne il rinnovamento interiore, quale condizione per un più incisivo impegno evangelico e ministeriale. Nel contempo, ci aiuta anche a riconoscere la testimonianza di santità di quanti – sull’esempio del Curato d’Ars – si spendono senza riserve per educare alla speranza, alla fede e alla carità. In questa luce, ciò che è motivo di scandalo, deve tradursi per noi in richiamo a un "profondo bisogno di ri-imparare la penitenza, di accettare la purificazione, di imparare da una parte il perdono, ma anche la necessità della giustizia" (Benedetto XVI, Intervista ai giornalisti durante il volo verso il Portogallo, 11 maggio 2010).

Cari Fratelli, vi incoraggio a percorrere senza esitazioni la strada dell’impegno educativo. Lo Spirito Santo vi aiuti a non perdere mai la fiducia nei giovani, vi spinga ad andare loro incontro, vi porti a frequentarne gli ambienti di vita, compreso quello costituito dalle nuove tecnologie di comunicazione, che ormai permeano la cultura in ogni sua espressione. Non si tratta di adeguare il Vangelo al mondo, ma di attingere dal Vangelo quella perenne novità, che consente in ogni tempo di trovare le forme adatte per annunciare la Parola che non passa, fecondando e servendo l’umana esistenza. Torniamo, dunque, a proporre ai giovani la misura alta e trascendente della vita, intesa come vocazione: chiamati alla vita consacrata, al sacerdozio, al matrimonio, sappiano rispondere con generosità all’appello del Signore, perché solo così potranno cogliere ciò che è essenziale per ciascuno. La frontiera educativa costituisce il luogo per un’ampia convergenza di intenti: la formazione delle nuove generazioni non può, infatti, che stare a cuore a tutti gli uomini di buona volontà, interpellando la capacità della società intera di assicurare riferimenti affidabili per lo sviluppo armonico delle persone.

Anche in Italia la presente stagione è marcata da un’incertezza sui valori, evidente nella fatica di tanti adulti a tener fede agli impegni assunti: ciò è indice di una crisi culturale e spirituale, altrettanto seria di quella economica. Sarebbe illusorio – questo vorrei sottolinearlo – pensare di contrastare l’una, ignorando l’altra. Per questa ragione, mentre rinnovo l’appello ai responsabili della cosa pubblica e agli imprenditori a fare quanto è nelle loro possibilità per attutire gli effetti della crisi occupazionale, esorto tutti a riflettere sui presupposti di una vita buona e significativa, che fondano quell’autorevolezza che sola educa e ritorna alle vere fonti dei valori. Alla Chiesa, infatti, sta a cuore il bene comune, che ci impegna a condividere risorse economiche e intellettuali, morali e spirituali, imparando ad affrontare insieme, in un contesto di reciprocità, i problemi e le sfide del Paese. Questa prospettiva, ampiamente sviluppata nel vostro recente documento su Chiesa e Mezzogiorno, troverà ulteriore approfondimento nella prossima Settimana Sociale dei cattolici italiani, prevista in ottobre a Reggio Calabria, dove, insieme alle forze migliori del laicato cattolico, vi impegnerete a declinare un’agenda di speranza per l’Italia, perché "le esigenze della giustizia diventino comprensibili e politicamente realizzabili" (Enc. Deus caritas est, 28). Il vostro ministero, cari Confratelli, e la vivacità delle comunità diocesane alla cui guida siete posti, sono la migliore assicurazione che la Chiesa continuerà responsabilmente ad offrire il suo contributo alla crescita sociale e morale dell’Italia.

Chiamato per grazia ad essere Pastore della Chiesa universale e della splendida Città di Roma, porto costantemente con me le vostre preoccupazioni e le vostre attese, che nei giorni scorsi ho deposto – con quelle dell’intera umanità – ai piedi della Madonna di Fatima. A Lei va la nostra preghiera: "Vergine Madre di Dio e nostra Madre carissima, la tua presenza faccia rifiorire il deserto delle nostre solitudini e brillare il sole sulle nostre oscurità, faccia tornare la calma dopo la tempesta, affinché ogni uomo veda la salvezza del Signore, che ha il nome e il volto di Gesù, riflesso nei nostri cuori, per sempre uniti al tuo! Così sia!" (Fatima, 12 maggio 2010). Di cuore vi ringrazio e vi benedico.
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mercoledì 26 maggio 2010

Dal Messaggio della Madonna di Medjugorje del 25 maggio 2010 "...satana non dorme e attraverso il modernismo vi devia e vi guida sulla sua via".


Messaggio della Madonna di Medjugorje
25 Maggio 2010

"Cari figli, Dio vi ha dato la grazia di vivere e proteggere tutto il bene che è in voi ed attorno a voi e di esortare gli altri ad essere migliori e più santi, ma satana non dorme e attraverso il modernismo vi devia e vi guida sulla sua via. Perciò figlioli, nell’amore verso il mio cuore Immacolato amate Dio sopra ogni cosa e vivete i suoi comandamenti. Cosi la vostra vita avrà senso e la pace regnerà sulla terra. Grazie per aver risposto alla mia chiamata."



PASCENDI
DOMINICI GREGIS

LETTERA ENCICLICA
AI VENERABILI FRATELLI PATRIARCHI
PRIMATI ARCIVESCOVI VESCOVI
E AGLI ALTRI ORDINARI
AVENTI CON L’APOSTOLICA SEDE
PACE E COMUNIONE.

"Sugli errori del Modernismo"



VENERABILI FRATELLI
SALUTE E APOSTOLICA BENEDIZIONE

Introduzione

L'officio divinamente commessoCi di pascere il gregge del Signore ha, fra i primi doveri imposti da Cristo, quello di custodire con ogni vigilanza il deposito della fede trasmessa ai santi, ripudiando le profane novità di parole e le opposizioni di una scienza di falso nome. La quale provvidenza del Supremo Pastore non vi fu tempo che non fosse necessaria alla Chiesa cattolica: stanteché per opera del nemico dell'uman genere, mai non mancarono "uomini di perverso parlare (Act. X, 30), cianciatori di vanità e seduttori (Tit. I, 10), erranti e consiglieri agli altri di errore (II Tim. III, 13)". Pur nondimeno gli è da confessare che in questi ultimi tempi, è cresciuto oltre misura il numero dei nemici della croce di Cristo; che, con arti affatto nuove e piene di astuzia, si affaticano di render vana la virtù avvivatrice della Chiesa e scrollare dai fondamenti, se venga lor fatto, lo stesso regno di Gesù Cristo. Per la qual cosa non Ci è oggimai più lecito di tacere, seppur non vogliamo aver vista di mancare al dovere Nostro gravissimo, e che Ci sia apposta a trascuratezza di esso la benignità finora usata nella speranza di più sani consigli.

Ed a rompere senza più gl'indugi Ci spinge anzitutto il fatto, che i fautori dell'errore già non sono ormai da ricercarsi fra i nemici dichiarati; ma, ciò che dà somma pena e timore, si celano nel seno stesso della Chiesa, tanto più perniciosi quanto meno sono in vista. Alludiamo, o Venerabili Fratelli, a molti del laicato cattolico e, ciò ch'è più deplorevole, a non pochi dello stesso ceto sacerdotale, i quali, sotto finta di amore per la Chiesa, scevri d'ogni solido presidio di filosofico e teologico sapere, tutti anzi penetrati delle velenose dottrine dei nemici della Chiesa, si dànno, senza ritegno di sorta, per riformatori della Chiesa medesima; e, fatta audacemente schiera, si gittano su quanto vi ha di più santo nell'opera di Cristo, non risparmiando la persona stessa del Redentore divino, che, con ardimento sacrilego, rimpiccioliscono fino alla condizione di un puro e semplice uomo.

Pericolo delle dottrine moderniste

Fanno le meraviglie costoro perché Noi li annoveriamo fra i nemici della Chiesa; ma non potrà stupirsene chiunque, poste da parte le intenzioni di cui Dio solo è giudice, si faccia ad esaminare le loro dottrine e la loro maniera di parlare e di operare. Per verità non si allontana dal vero chi li ritenga fra i nemici della Chiesa i più dannosi. Imperocché, come già abbiam detto, i lor consigli di distruzione non li agitano costoro al di fuori della Chiesa, ma dentro di essa; ond'è che il pericolo si appiatta quasi nelle vene stesse e nelle viscere di lei, con rovina tanto più certa, quanto essi la conoscono più addentro. Di più, non pongono già la scure ai rami od ai germogli; ma alla radice medesima, cioè alla fede ed alle fibre di lei più profonde. Intaccata poi questa radice della immortalità, continuano a far correre il veleno per tutto l'albero in guisa, che niuna parte risparmiano della cattolica verità, niuna che non cerchino di contaminare. Inoltre, nell'adoperare le loro mille arti per nuocere, niuno li supera di accortezza e di astuzia: giacché la fanno promiscuamente da razionalisti e da cattolici, e ciò con sì fina simulazione da trarre agevolmente in inganno ogni incauto; e poiché sono temerari quanto altri mai, non vi è conseguenza da cui rifuggano e che non ispaccino con animo franco ed imperterrito. Si aggiunga di più, e ciò è acconcissimo a confonderle menti, il menar che essi fanno una vita operosissima, un'assidua e forte applicazione ad ogni fatta di studi, e, il più sovente, la fama di una condotta austera. Finalmente, e questo spegne quasi ogni speranza di guarigione, dalle stesse loro dottrine sono formati al disprezzo di ogni autorità e di ogni freno; e, adagiatisi in una falsa coscienza, si persuadono che sia amore di verità ciò che è infatti superbia ed ostinazione. Sì, sperammo a dir vero di riuscire quando che fosse a richiamar costoro a più savi divisamenti; al qual fine li trattammo dapprima come figli con soavità, passammo poi ad un far severo, e finalmente, benché a malincuore, usammo pure i pubblici castighi. Ma voi sapete, o Venerabili Fratelli, come tutto riuscì indarno: sembrarono abbassai la fronte per un istante, mala rialzarono subito con maggiore alterigia. E potremmo forse tuttora dissimulare se non si trattasse che sol di loro: ma trattasi invece della sicurezza del nome cattolico. Fa dunque mestieri di uscir da un silenzio, che ormai sarebbe colpa, per far conoscere alla Chiesa tutta chi sieno infatti costoro che così mal si camuffano.

E poiché è artificio astutissimo dei modernisti (ché con siffatto nome son chiamati costoro a ragione comunemente) presentare le loro dottrine non già coordinate e raccolte quasi in un tutto, ma sparse invece e disgiunte l'una dall'altra, allo scopo di passare essi per dubbiosi e come incerti, mentre di fatto sono fermi e determinati; gioverà innanzi tutto raccogliere qui le dottrine stesse in un sol quadro, per passar poi a ricercar le fonti di tanto traviamento ed a prescrivere le misure per impedirne i danni.

I sette aspetti del modernista

E alfin di procedere con ordine in una materia di troppo astrusa, è da notare anzi tutto che ogni modernista sostiene e quasi compendia in sé molteplici personaggi: quelli cioè di filosofo, di credente, di teologo, di storico, di critico, di apologista, di riformatore: e queste parti sono tutte bene da distinguersi una ad una, da chi voglia conoscere a dovere il lor sistema e penetrare i principî e le conseguenze delle loro dottrine.

Prendendo adunque le mosse dal filosofo, tutto il fondamento della filosofia religiosa è riposto dai modernisti nella dottrina, che chiamano dell'agnosticismo. Secondo questa, la ragione umana è ristretta interamente entro il campo dei fenomeni, che è quanto dire di quel che apparisce e nel modo in che apparisce: non diritto, non facoltà naturale le concedono di passare più oltre. Per lo che non è dato a lei d'innalzarsi a Dio, né di conoscerne l'esistenza, sia pure per intromessa delle cose visibili. E da ciò si deduce che Dio, riguardo alla scienza, non può affatto esserne oggetto diretto; riguardo alla storia non deve mai riputarsi come soggetto istorico. Poste cotali premesse, ognuno scorge di leggieri quali sieno le sorti della teologia naturale, dei motivi di credibilità, dell'esterna rivelazione. Tutto questo i modernisti tolgon via di mezzo, e ne fanno assegno all'intellettualismo, ridicolo sistema, come essi affermano, e tramontato già da gran tempo. Né in ciò ispira loro alcun ritegno il sapere che si enormi errori furono già formalmente condannati dalla Chiesa. Giacché infatti il Concilio Vaticano così ebbe definito: "Se qualcuno dirà, che Dio uno e vero, Creatore e Signor nostro, per mezzo delle cose create, non possa conoscersi con certezza col lume naturale dell'umana ragione, sia anatema"(De Revel., can. I); e similmente: "Se alcuno dirà non essere possibile, o non convenire che, mediante divina rivelazione, sin l'uomo ammaestrato di Dio e del culto che Gli si deve, sia anatema" (Ibid., can. II); e finalmente: "Se alcuno dirà che la rivelazione divina non possa essere fatta credibile da esterni segni e che perciò gli uomini non debbano esser mossi alla fede se non da interna esperienza o privata ispirazione, sia anatema" (De Fide, can. III).Di qual guisa poi i modernisti dall'agnosticismo, che è puro stato d'ignoranza, passino all'ateismo scientifico e storico, che invece è stato di positiva negazione; e con qual diritto perciò di logica, dal non sapere se Iddio sia intervenuto o no nella storia dell'uman genere si trascorra a spiegar tutto nella storia medesima ponendo Dio interamente da parte come se in realtà non fosse intervenuto, lo assegni chi può. Ma tanto è; per costoro è fisso e determinato che la scienza e la storia debbano esser atee; entro l'àmbito di esse non vi è luogo se non per fenomeni, sbanditone in tutto Iddio e quanto sa di divino. Dalla quale dottrina assurdissima vedrem bentosto che cosa siasi costretti di ammettere intorno alla persona augusta di Gesù Cristo, intorno ai misteri della Sua vita e della Sua morte, intorno alla Sua risurrezione ed ascensione al Cielo.

Vero è che l'agnosticismo non costituisce nella dottrina dei modernisti se non la parte negativa; la positiva sta tutta nell'immanenza vitale. Dall'una all'altra ecco con qual discorso procedono. La Religione, sia essa naturale o sopra natura, alla guisa di ogni altro fatto qualsiasi, uopo è che ammetta una spiegazione. Or, tolta di mezzo la naturale teologia, chiuso il cammino alla rivelazione per il rifiuto dei motivi di credibilità, negata anzi qualsivoglia esterna rivelazione, chiaro è che siffatta spiegazione indarno si cerca fuori dell'uomo. Resta dunque che si cerchi nell'uomo stesso; e poiché la religione non è altro infatti che una forma della vita, la spiegazione di essa dovrà ritrovarsi appunto nella vita dell'uomo. Di qui il principio dell'immanenza religiosa. Di più, la prima mossa, per così dire, di ogni fenomeno vitale, quale si è detta essere altresì la religione, è sempre da ascrivere ad un qualche bisogno; i primordi poi, parlando più specialmente della vita, sono da assegnare ad un movimento del cuore, o vogliam dire ad un sentimento. Per queste ragioni, essendo Dio l'oggetto della religione, dobbiamo conchiudere che la fede, inizio e fondamento di ogni religione, deve riporsi in un sentimento che nasca dal bisogno della divinità. Il quale bisogno, non sentendosi dall'uomo se non indeterminate ed acconce circostanze, non può di per sé appartenere al campo della coscienza: ma giace da principio al di sotto della coscienza medesima o, come dicono con vocabolo tolto ad imprestito dalla moderna filosofia, nella subcoscienza, ove la sua radice rimane occulta ed incomprensibile. Che se si chieda in qual modo da questo bisogno della divinità, che l'uomo provi in se stesso, si faccia poi trapasso alla religione, i modernisti rispondono così. La scienza e la storia, essi dicono, sono chiuse come fra due termini: l'uno esterno, ed è il mondo visibile; l'altro interno, ed è la coscienza. Toccato che abbiano o l'uno o l'altro di questi termini, non hanno come passare più oltre; al di là si trovano essi a faccia dell'inconoscibile. Dinanzi a questo inconoscibile, o sia esso fuori dell'uomo oltre ogni cosa visibile, o si celi entro l'uomo nelle latebre della subcoscienza, il bisogno del divino, senza verun atto della mente, secondo che vuole il fideismo, fa scattare nell'animo già inclinato a religione un certo particolar sentimento; il quale, sia come oggetto sia come causa interna, ha implicata in sé la realtà del divino e congiunge in certa guisa l'uomo con Dio. A questo sentimento appunto si dà dai modernisti il nome di fede, e lo ritengono quale inizio di religione.

Ma non è qui tutto il filosofare, o, a meglio dire, il delirare di costoro. Imperocché in siffatto sentimento essi non riscontrano solamente la fede: ma colla fede e nella fede stessa quale da loro è intesa, sostengono che vi si trovi altresì la Rivelazione. E che infatti può pretendersi di vantaggio per una rivelazione? O non è forse rivelazione, o almeno principio di rivelazione, quel sentimento religioso che si manifesta d'un tratto nella coscienza? Non è rivelazione l'apparire, benché in confuso, che Dio fa agli animi in quello stesso sentimento religioso? Aggiungono anzi di più che, essendo Iddio in pari tempo e l'oggetto e la causa della fede, la detta rivelazione è al tempo stesso di Dio e da Dio: ha cioè insieme Iddio e come rivelante e come rivelato. Di qui, Venerabili Fratelli, quell'assurdissimo effato dei modernisti che ogni religione, secondo il vario aspetto sotto cui si riguardi, debba dirsi egualmente naturale e soprannaturale. Di qui lo scambiar che fanno, come di pari significato, coscienza e rivelazione. Di qui la legge, per cui la coscienza religiosa si dà come regola universale, da porsi in tutto a pari della rivelazione, ed alla quale tutti hanno obbligo di sottostare, non esclusa la stessa autorità suprema della Chiesa, sia che ella insegni, sia che legiferi in materia di culto o di disciplina.

Se non che in tutto questo procedimento dal quale, a detta dei modernisti, saltan fuori la fede e la rivelazione, egli è mestieri tener d'occhio un punto, che è di capitale importanza per le conseguenze storico critiche, che essi ne derivano. Quell'inconoscibile, di cui parlano, non si presenta già alla fede come nudo in sé ed isolato; ma si bene congiunto strettamente a un qualche fenomeno, che, quantunque appartenga al campo della scienza e della storia, pure in certa guisa ne trapassa i confini. Tal fenomeno potrà essere un fatto qualsiasi della natura, che in sé racchiude alcun che di misterioso: potrà essere altresì un uomo, il cui carattere, i cui gesti, le cui parole mal si compongano colle leggi ordinarie della storia. Or bene la fede, attirata dall'inconoscibile racchiuso nel fenomeno, s'impadronisce di tutto intero il fenomeno stesso e lo penetra in certo qual modo della sua vita. Da ciò due cose conseguitano. La prima, una tal trasfigurazione del fenomeno, per una, diremmo, quasi elevazione sulle condizioni sue proprie, che lo renda acconcio, come materia, alla forma del divino che la fede v'introdurrà. La seconda, un certo sfiguramento, nato da ciò che avendo la fede tolto il fenomeno ai suoi aggiunti di tempo e di luogo, facilmente gli attribuisce quello che nella realtà delle cose non ha di fatto: il che soprattutto avviene quando si tratti di fenomeni di antica data, e tanto più se sono remoti. Da questi due capi i modernisti traggono per loro due canoni; i quali, uniti a un terzo già dedotto dall'agnosticismo, formano quasi la base della critica storica. Illustriamo il fatto con un esempio, preso dalla persona dl Gesù Cristo. Nella persona di Cristo, dicono, la scienza e la storia non trovan nulla al di là dell'uomo. Dunque, in vigore del primo canone dato dall'agnosticismo, dalla storia dl essa deve cancellarsi tutto quanto sa di divino. Più oltre, in conformità del. secondo canone, la persona di Cristo è stata trasfigurata dalla fede: dunque fa d'uopo spogliarla di tutto ciò che la innalza sopra le condizioni storiche. Per ultimo, la stessa è stata sfigurata dalla fede, secondo insegna il terzo canone: dunque non da rimuoversi da lei i discorsi, i fatti, tutto quello insomma che non risponde al suo carattere, alla sua condizione ed educazione, al luogo ed al tempo in cui visse. Strano per fermo parrà a noi questo modo di ragionare; ma qui sta la critica dei modernisti.

Adunque il sentimento religioso, che per vitale immanenza si sprigiona dai nascondigli della subcoscienza, è il germe di tutta la religione, ed è insieme la ragione di quanto fu o sarà per essere in qualsivoglia religione. Rude dapprima e quasi informe, a poco a poco, sotto l'influsso del misterioso principio che gli diede origine, esso e venuto perfezionandosi, a seconda dei progressi della vita umana. di cui, come si disse, e una forma. Ecco pertanto la nascita di qualsiasi religione, sia pure soprannaturale: esse altro non sono che semplici esplicazioni dell'anzidetto sentimento. Né credasi già che diversa sia la sorte della religione cattolica; anzi in tutto pari alle altre: imperocché non altrimenti essa è nata, che per processo di vitale immanenza nella coscienza di Cristo, uomo di elettissima natura, quale mai altro simile si vide né mai si troverà. Nell'udir tali cose Noi trasecoliamo di fronte ad affermazioni cotanto audaci e sacrileghe! Eppure, Venerabili Fratelli, non sono esse un parlar temerario solamente d'increduli. Sono uomini cattolici, sono anzi sacerdoti non pochi che così la discorrono pubblicamente; e con siffatti delirii si dànno vanto di riformare la Chiesa! Qui, non trattasi più del vecchio errore, che alla natura umana concedeva quasi un diritto all'ordine soprannaturale. Si va assai più lungi; sino cioè ad afferrare che la religione nostra santissima, nell'uomo Cristo del pari che in noi, è frutto interamente spontaneo della natura. Del quale asserto non sappiamo qual sia mezzo più acconcio per sopprimere ogni ordine soprannaturale. Perciò con somma ragione il Concilio Vaticano pronunziò: "Se alcuno dirà, non poter l'uomo essere elevato da Dio a una conoscenza e perfezione che superi la natura, ma potere e dovere di per sé stesso, con un perpetuo progresso, giungere finalmente al possesso di ogni vero e di ogni bene, sia anatema" (De Revel., can. III).

Fin qui però, o Venerabili Fratelli, non abbiam visto farsi punto luogo all'azione dell'intelletto. Eppure, secondo le dottrine dei modernisti, ha essa ancora la sua parte nell'atto di fede. E giova osservare in che modo. In quel sentimento, dicono, di cui sovente si è parlato, appunto perché egli è sentimento e non cognizione, Dio si presenta bensì all'uomo, ma in maniera così confusa che nulla o a malapena si distingue dal soggetto credente. Fa dunque d'uopo che sopra quel sentimento si getti un qualche raggio di luce, sì che Dio ne venga fuori per intero e pongasi in contrapposto col soggetto. Ora, è questo il compito dell'intelletto; di cui è proprio il pensare ed analizzare, e per mezzo del quale l'uomo prima traduce in rappresentazioni mentali i fenomeni di vita che sorgono in lui, e poi li significa con verbali espressioni. Di qui il detto volgare dei modernisti, che l'uomo religioso deve pensare la sua fede. L'intelletto adunque, sopravvenendo al sentimento, su di esso si ripiega e vi fa intorno un lavorio somigliante a quello di un pittore che illumina e ravviva il disegno di un quadro svanito per la vecchiaia. Il paragone è di uno dei maestri del modernismo. Doppio poi è l'operar della mente in siffatto negozio; dapprima, con un atto nativo e spontaneo, esprimendo la sua nozione con una proposizione semplice e volgare; indi, con riflessione e più intima penetrazione, o, come dicano, lavorando il suo pensiero, rende ciò che ha pensato con proposizioni secondarie, derivate bensì dalla prima, ma più affinate e distinte. Le quali proposizioni, ove poi ottengano la sanzione del magistero supremo della Chiesa, costituiranno appunto il dogma.

Con ciò, nella dottrina dei modernisti, ci troviamo giunti ad uno dei capi di maggior rilievo, all'origine cioè e alla natura stessa del dogma. Imperocché l'origine del dogma la ripongon essi in quelle primitive formole semplici; le quali, sotto un certo aspetto, devono ritenersi come essenziali alla fede, giacché la rivelazione, perché sia veramente tale, richiede la chiara apparizione di Dio nella coscienza. Il dogma stesso poi, secondo che paiono dire, è costituito propriamente dalle formole secondarie. A conoscere però bene la natura del dogma, è uopo ricercare anzi qual relazione passi fra le formole religiose ed il sentimento religioso. Nel che non troverà punto difficoltà, chi tenga fermo, che il fine di cotali formole altro non è, se non di dar modo al credente di rendersi ragione della propria fede. Per la qual cosa stanno esse formole come di mezzo fra il credente e la fede di lui; per rapporto alla fede, sono espressioni inadeguate del suo oggetto e sono dai modernisti chiamate simboli; per rapporto al credente, si riducono a meri istrumenti. Non è lecito pertanto in niun modo sostenere che esse esprimano una verità assoluta: essendoché, come simboli, sono semplici immagini di verità, e perciò da doversi adattare al sentimento religioso in ordine all'uomo; come istrumenti, sono veicoli di verità, e perciò da acconciarsi a lor volta all'uomo in ordine al sentimento religioso. E poiché questo sentimento, siccome quello che ha per obbietto l'assoluto, porge infiniti aspetti, dei quali oggi l'uno domani l'altro può apparire; e similmente colui che crede può passare per altre ed altre condizioni, ne segue che le formole altresì che noi chiamiamo dogmi devono sottostare ad uguali vicende ed essere perciò variabili. Così si ha aperto il varco alla intima evoluzione dei dogmi. Infinito cumulo di sofismi che abbatte e distrugge ogni religione!

E questa, non pur possibile, ma necessaria evoluzione e mutazione dei dogmi non solo i modernisti l'affermano arditamente ma è conseguenza legittima delle loro sentenze. Infatti fra i capisaldi della loro dottrina vi è ancor questo, tratto dal principio dell'immanenza vitale: che le formole cioè religiose, perché tali siano in verità e non mere speculazioni dell'intelletto, è mestieri che sieno vitali e che vivano della stessa vita del sentimento religioso. Il che non è da intendersi quasiché tali formole, specie se puramente immaginative, sieno costruite a bella posta pel sentimento religioso; giacché poco monta della loro origine, come altresì del loro numero e della loro qualità; ma cosi, che le stesse, fatte se occorre all'uopo delle modificazioni, vengano vitalmente assimilate dal sentimento religioso. E per dirla in altri termini, fa di mestieri che la formola primitiva sia accettata e sancita dal cuore, e che il susseguente lavorio per la formazione delle formole secondarie sia fatto sotto la direzione del cuore. Di qui procede che siffatte formole, perché sieno vitali, devono essere e mantenersi adatte tanto alla fede quanto al credente. Laonde, se per una ragione qualsiasi cotale adattamento venga meno, perdono elle il primitiva significato e vogliono essere cambiate. Or tale essendo il valore e la sorte mutevole delle formole dogmatiche, non reca stupore che i modernisti le abbiano tanto in dileggio; mentre al contrario non fanno che ricordare ed esaltare il sentimento religioso e la vita religiosa. Perciò pure criticano con somma audacia la Chiesa, accusandola di camminare fuor di strada, né saper distinguere fra il senso materiale delle formole e il loro significato religioso e morale, e attaccandosi con ostinazione, ma vanamente, a formole vuote di senso, lasciar che la religione precipiti a rovina. Oh! Veramente ciechi e conduttori di ciechi, che, gonfi del superbo nome di scienza, vaneggiano fino al segno di pervertire l'eterno concetto di verità e il genuino sentimento religioso: "spacciando un nuovo sistema, col quale, tratti da una sfrontata e sfrenata smania di novità, non cercano la verità ove certamente si trova; e disprezzate le sante ed apostoliche tradizioni, si attaccano a dottrine vuote, futili, incerte, riprovate dalla Chiesa, e con esse, uomini stoltissimi, si credono di puntellare e sostenere la stessa verità" (Gregorio XVI, Lett. Enc."Singulari Nos", 25 giugno 1834).

E fin qua, o Venerabili Fratelli, del modernista considerato come filosofo. Or, se facendoci oltre a considerarlo nella sua qualità di credente, vogliam conoscere in che modo, nel modernismo, il credente si differenzi dal filosofo, convien osservare che quantunque il filosofo riconosca per oggetto della fede la realtà divina, pure questa realtà non altrove l'incontra che nell'animo del credente, come oggetto di sentimento e di affermazione: che esista poi essa o no in sé medesima fuori di quel sentimento e di quell'affermazione, a lui punto non cale. Per contrario il credente ha come certo ed indubitato che la realtà divina esiste di fatto in se stessa, né punto dipende da chi crede. Che se poi cerchiamo, qual fondamento abbia cotale asserzione del credente, i modernisti rispondono: l'esperienza individuale. Ma nel dir ciò, se costoro si dilungano dai razionalisti, cadono nell'opinione dei protestante dei pseudomistici. Così infatti essi discorrono. Nel sentimento religioso, si deve riconoscere quasi una certa intuizione del cuore; la quale mette l'uomo in contatto immediato colla realtà stessa di Dio, e tale gl'infonde una persuasione dell'esistenza di Lui e della Sua azione sì dentro, sì fuori dell'uomo, da sorpassar di gran lunga ogni convincimento scientifico. Asseriscono pertanto una vera esperienza, e tale da vincere qualsivoglia esperienza razionale; la quale se da taluno, come dai razionalisti, e negata, ciò dicono intervenire perché non vogliono porsi costoro nelle morali condizioni, che son richieste per ottenerla. Or questa esperienza, poi che l'abbia alcuno conseguita, è quella che lo costituisce propriamente e veramente credente. Quanto siamo qui lontani dagli insegnamenti cattolici! Simili vaneggiamenti li abbiamo già uditi condannare dal Concilio Vaticano. Vedremo più oltre come, con siffatte teorie, congiunte agli altri errori già mentovati, si spalanchi la via all'ateismo. Qui giova subito notare che, posta questa dottrina dell'esperienza unitamente all'altra del simbolismo, ogni religione, sia pure quella degl'idolatri, deve ritenersi siccome vera. Perché infatti non sarà possibile che tali esperienze s'incontrino in ogni religione? E che si siano di fatto incontrate non pochi lo pretendono. E con qual diritto modernisti negheranno la verità ad una esperienza affermata da un islamita? con qual diritto rivendicheranno esperienze vere pei soli cattolici? Ed infatti i modernisti non negano, concedono anzi, altri velatamente altri apertissimamente, che tutte le religioni son vere. E che non possano sentire altrimenti, è cosa manifesta. Imperocché per qual capo, secondo i loro placiti, potrebbe mai ad una religione, qual che si voglia, attribuirsi la falsità? Senza dubbio per uno di questi due: o per la falsità del sentimento religioso, o per la falsità della formola pronunziata dalla mente. Ora il sentimento religioso, benché possa essere più o meno perfetto, è sempre uno: la formola poi intellettuale, perché sia vera, basta che risponda al sentimento religioso ed al credente, checché ne sia della forza d'ingegno in costui. Tutt'al più, nel conflitto fra diverse religioni, i modernisti potranno sostenere che la cattolica ha più di verità perché più vivente, e merita con più ragione il titolo di cristiana, perché risponde più pienamente alle origini del cristianesimo. Che dalle premesse date scaturiscano siffatte conseguenze, non può per fermo sembrare assurdo. Assurdissimo è invece che cattolici e sacerdoti, i quali, come preferiamo credere, aborrono da tali enormità, si portino in fatto quasi le ammettessero. Giacché tali sono le lodi che tributano ai maestri di siffatti errori, tali gli onori che rendono loro pubblicamente, da dar agevolmente a supporre che essi non onorano già le persone, forse non prive di un qualche merito, ma piuttosto gli errori che quelle professano apertamente e cercano a tutt'uomo propagare.

Ma, oltre al detto, questa dottrina dell'esperienza è per un altro verso contrarissima alla cattolica verità. Imperocché viene essa estesa ed applicata alla tradizione quale finora fu intesa dalla Chiesa, e la distrugge. Ed infatti dai modernisti è la tradizione così concepita che sia una comunicazione dell'esperienza originale fatta agli altri, mercè la predicazione, per mezzo della formola intellettuale. A questa formola perciò, oltre al valore rappresentativo, attribuiscono una tal quale efficacia di suggestione, che si esplica tanto in colui che crede, per risvegliare il sentimento religioso a caso intorpidito e rinnovar l'esperienza già avuta una volta, quanto in coloro che ancor non credono, per suscitare in essi la prima volta il sentimento religioso e produrvi l'esperienza. Di questa guisa l'esperienza religiosa si viene a propagare fra i popoli; né solo nei presenti per via della predicazione, ma anche fra i venturi sì per mezzo dei libri e sì per la trasmissione orale dagli uni agli altri. Avviene poi che una simile comunicazione dell'esperienza si abbarbichi talora e viva, talora isterilisca subito e muoia. Il vivere è pei modernisti prova di verità; giacché verità e vita sono per essi una medesima cosa. Dal che è dato inferir di nuovo, che tutte le religioni, quante mai ne esistono, sono egualmente vere, poiché se nol fossero non vivrebbero. E tutto questo si spaccia per dare un concetto più elevato e più ampio della religione!

Condotte fin qui le cose, o Venerabili Fratelli, abbiamo abbastanza in mano per conoscere qual ordine stabiliscano i modernisti fra la fede e la scienza; con qual nome di scienza intendono essi ancor la storia. E in primo luogo si deve tenere che l'oggetto dell'una è affatto estraneo all'oggetto dell'altra e da questo separato. Imperocché la fede si occupa unicamente di cosa, che la scienza professa essere a sé inconoscibile. Quindi diverso il campo ad entrambe assegnato: la scienza è tutta nella realtà dei fenomeni, ove non entra affatto la fede: questa al contrario si occupa della realtà divina che alla scienza è del tutto sconosciuta. Dal che si viene a conchiudere che tra la fede e la scienza non vi può essere mai dissidio: giacché, se ciascuna tiene il suo campo, non potranno mai incontrarsi, né perciò contraddirsi. Che se a ciò si opponga, nel mondo visibile esservi cose che pure appartengono alla fede, come la vita umana di Cristo; i modernisti rispondono negando. Perché quantunque tali cose sieno nel novero dei fenomeni, pure, in quanto sono vissute dalla fede e, nel modo già indicato, sono state da essa trasfigurate e sfigurate, furono tolte dal mondo sensibile e trasferite ad essere materia del divino. Quindi, qualora più oltre si ricercasse se Cristo abbia fatto veri miracoli e vere profezie, severamente sia risorto ed asceso al Cielo; la scienza agnostica lo negherà, la fede lo affermerà; né perciò vi sarà lotta fra le due. Imperocché lo negherà il filosofo qual filosofo parlando a filosofie considerando unicamente Cristo nella sua realtà storica; l'affermerà il credente come credente parlando a credenti e considerando la vita di Cristo quale è vissuta dalla fede e nella fede.

S'ingannerebbe però a partito chi, date queste teorie, si credesse autorizzato a credere, essere la fede e la scienza indipendenti l'una dall'altra. Si, della scienza ciò è fuori di dubbio; ma è ben altro della fede; la quale, non per uno ma per tre capi, deve andar soggetta alla scienza. Imperocché da riflettersi in primo luogo che in ogni fatto religioso, toltane la realtà divina e l'esperienza che di essa ha chi crede, tutto il rimanente ed in specialità le formole religiose, non escono dal campo dei fenomeni: e cadono quindi sotto il dominio della scienza. Esca pure il credente dal mondo, se gli vien fatto; finché però resterà nel mondo, non potrà mai sottrarsi, lo voglia o no, alle leggi, all'osservazione, ai giudizi della scienza e della storia. Di più, benché sia detto che Dio è oggetto della sola fede, ciò nondimeno deve solo intendersi della realtà divina, non già della idea di Dio. L'idea di Dio è pur essa sottoposta alla scienza; la quale, mentre spazia nell'ordine logico, si solleva fino all'assoluto ed all'ideale. È dunque diritto della filosofia o della scienza sindacare l'idea di Dio, dirigerla nella sua evoluzione, correggerla qualora vi si immischi qualche elemento estraneo: quindi il ripetere che fanno i modernisti che l'evoluzione religiosa deve essere coordinata colla evoluzione morale ed intellettuale; ossia, come insegna uno dei loro maestri, deve essere subordinata. Per ultimo è pur da osservare che l'uomo non soffre in sé dualismo: per la qual cosa il credente prova in se stesso un intimo bisogno di armonizzare siffattamente la fede colla scienza che non si opponga al concetto generale che scientificamente si ha dell'universo. Così dunque si evince essere la scienza affatto libera dalla libera fede; la fede invece, tuttoché si decanti estranea alla scienza, essere a questa sottoposta. Le quali cose tutte, Venerabili Fratelli, sono diametralmente contrarie a ciò che insegnava il Nostro Antecessore Pio IX: "Essere dovere della filosofia, in materia di religione, non dominare ma servire, non prescrivere ciò che si debba credere, ma abbracciarlo con ragionevole ossequio, né scrutar l'altezza dei misteri di Dio, ma piamente ed umilmente venerarla" (Breve al Vescovo di Breslavia, 15 giugno 1857). I modernisti invertono del tutto le parti. Ond'è che ad essi può applicarsi ciò che l'altro Nostro Predecessore Gregorio IX scriveva di taluni teologi del suo tempo: "Alcuni fra voi, gonfi come otri dello spirito di vanità, si sforzano con novità profana di valicare i termini segnati dai Padri; piegando alla dottrina filosofica dei razionali l'intelligenza delle pagine Celesti, non per profitto degli uditori ma per far pompa di scienza... Questi sedotti da dottrine diverse e peregrine, tramutano in coda il capo e costringono la regina a servire all'ancella" (Lettera ai maestri di Teologia di Parigi, 7 luglio 1223).

Il che parrà più manifesto dalla condotta stessa dei modernisti, interamente conforme a quel che insegnano. Negli scritti e nei discorsi sembrano essi non rare volte sostenere ora una dottrina ora un'altra, talché si è facilmente indotti a giudicarli vaghi ed incerti. Ma tutto ciò è fatto avvisatamente; per l'opinione cioè che sostengono della mutua separazione della fede e della scienza. Quindi avviene che nei loro libri si incontrano cose che ben direbbe un cattolico; ma, al voltar della pagina, si trovano altre che si stimerebbero dettate da un razionalista. Di qui, scrivendo storia, non fanno pur menzione della divinità di Cristo; predicando invece nelle chiese, l'affermano con risolutezza. Di qui parimente, nella storia non fanno nessun conto né di Padri né di Concilî; ma se catechizzano il popolo, li citano con rispetto. Di qui, distinguono l'esegesi teologica e pastorale dall'esegesi scientifica e storica. Similmente dal principio che la scienza non ha dipendenza alcuna dalla fede, quando trattano di filosofia, di storia, di critica, non avendo orrore di premere le orme di Lutero (Prop. 29, condannata da Leone X, Bolla. "Exsurge Domine", 15 maggio 1520: "Ci si è aperta la strada per isnervare l'autorità dei Concilî e contraddire liberamente alle loro deliberazioni, e giudicare i lor decreti e confessare arditamente tutto ciò che ci sembra vero, sia approvato o condannato da qualunque Concilio"), fanno pompa di un certo disprezzo delle dottrine cattoliche, dei santi Padri, dei sinodi ecumenici, del magistero ecclesiastico: e se vengono di ciò ripresi, gridano alla manomissione della libertà. Da ultimo, posto l'aforisma che la fede deve soggettarsi alla scienza, criticano di continuo e all'aperto la Chiesa, perché con somma ostinatezza rifiuta di sottoporre ed accomodare i suoi dogmi alle opinioni della filosofia: ed essi, da parte loro, messa fra i ciarpami la vecchia teologia, si adoperano di porne in voga una nuova, tutta ligia ai deliramenti dei filosofi.

Parte II

Con che, Venerabili Fratelli, Ci si dà finalmente il passo per osservare i modernisti sull'arena teologica. Difficile compito: ma con poco potremo trarCi d'impaccio. Il fine da ottenere è la conciliazione della fede colla scienza, restando però sempre incolume il primato della scienza sulla fede. In questo affare il teologo modernista si giova degli stessissimi principî che vedemmo usati dalla filosofia, adattandoli al credente; ciò sono i principî dell'immanenza e del simbolismo. Ed ecco con quanta speditezza compie egli il suo lavoro. Ha detto il filosofo: "Il principio della fede è immanente"; il credente ha soggiunto: "Questo principio è Dio";il teologo dunque conclude: "Dio è immanente nell'uomo". Di qui l'essere dell'immanenza teologica. Parimente: il filosofo ha ritenuto come certo che le "rappresentazioni dell'oggetto della fede sono semplicemente simboliche"; il credente ha affermato che "l'oggetto della fede è Dio in se stesso"; il teologo adunque pronunzia: "Le rappresentazioni della realtà divina sono simboliche". Di qui il simbolismo teologico. Errori per verità enormi; i quali quanto sieno perniciosi, si vedrà luminosamente nell'osservarne le conseguenze.

Infatti, per dir subito del simbolismo, i simboli essendo tali in relazione all'oggetto, ed in relazione al credente non essendo che istrumenti, fa mestieri innanzi tutto, così insegnano i modernisti, che il credente non si attacchi troppo alla formola, ma se ne giovi solo allo scopo di unirsi all'assoluta verità, di cui la formola rivela insieme e nasconde, si sforza cioè di esprimere ma senza mai riuscirvi. Vogliono in secondo luogo che il credente usi di tali formole tanto quanto gli sono utili, poiché sono date per giovamento e non per averne intralcio; salvo, s'intende, il rispetto che, per riguardi sociali, si deve alle formole giudicate acconce dal pubblico magistero ad esprimere la coscienza comune, finché però lo stesso magistero non stabilisca altrimenti. Quanto poi all'immanenza, non è agevole determinare ciò che per essa intendano i modernisti; giacché diverse sono fra essi le opinioni. Altri la pongono in ciò, che Dio operante sia intimamente presente nell'uomo, più che non sia l'uomo a sé stesso; il che, sanamente inteso, non può riprendersi. Altri pretendono che l'azione divina sia una coll'azione della natura, come di causa prima con quella di causa seconda; e ciò distruggerebbe l'ordine soprannaturale. Altri per ultimo la spiegano in modo da dar sospetto di un senso panteistico; il che, a dir vero, è più coerente col rimanente delle loro dottrine.

A questo postulato dell'immanenza un altro poi se ne aggiunge, che si può intitolare dalla permanenza divina: e l'una dall'altra si fa differire quasi a quel modo stesso, che l'esperienza privata differisce dall'esperienza trasmessa per tradizione. Un esempio illustrerà il concetto: e sia l'esempio della Chiesa e dei Sacramenti. La Chiesa, dicono, e i Sacramenti non si devon credere come istituiti da Cristo stesso. Vieta ciò l'agnosticismo, che in Cristo non riconosce nulla più che un uomo, la cui coscienza religiosa, come quella di ogni altro uomo, si è formata a poco a poco; lo vieta la legge dell'immanenza, che non ammette, per dirlo con una loro parola, esterne applicazioni; lo vieta pure la legge dell'evoluzione, che per lo svolgersi dei germi richiede tempo ed una certa serie di circostanze; lo vieta finalmente la storia, che mostra tale di fatto essere stato il corso delle cose. Però è da tenersi che Chiesa e Sacramenti furono istituiti mediatamente da Cristo. Ma in qual modo? eccolo. Le coscienze tutte cristiane, essi dicono, furono virtualmente inchiuse nella coscienza di Gesù Cristo, come la pianta nel seme. Or poiché i germi vivono la vita del seme, così deve affermarsi che tutti i cristiani vivono la vita di Cristo. Ma la vita di Cristo, secondo la fede, è divina; dunque anche quella dei cristiani. Se pertanto questa vita, nel corso dei secoli, diede origine alla Chiesa e ai Sacramenti, con ogni diritto si potrà dire che tale origine è da Cristo ed è divina. Nello stesso modo provano esser divine le Scritture e divini i dogmi. E con ciò la teologia moderna può dirsi compiuta. Esigua cosa a dir vero, ma più che abbondante per chi professa doversi sempre ed in tutto rispettare le conclusioni della scienza. L'applicazione poi di queste teorie agli altri punti che verremo esponendo potrà ognuno farla di per sé stesso.

Abbiam parlato finora della origine e della natura della fede. Ma molti essendo i germi di questa, e principali fra essi la Chiesa, il dogma, il culto, i Libri sacri, di questi eziandio è da conoscere ciò che insegnano i modernisti. E per farci dal dogma, l'origine e la natura di esso quale sia, si è già indicato più sopra. Nasce il dogma dal bisogno che prova il credente di lavorare sul suo pensiero religioso, sì da rendere la sua e l'altrui coscienza sempre più chiara. Tale lavorio consiste tutto nell'indagare ed esporre la formola primitiva, non già in se stessa e razionalmente, ma rispetto alle circostanze o, come più astrusamente dicono, vitalmente. Di qui si ha che intorno alla medesima si vadano formando delle formole secondarie, che poi sintetizzate e riunite in un'unica costruzione dottrinale, quando questa sia suggellata dal pubblico magistero come rispondente alla coscienza comune, si chiamerà dogma. Dal dogma son da distinguersi accuratamente le speculazioni teologiche; le quali però, benché non vivano della vita del dogma, pur tuttavia non sono inutili sì per armonizzare la religione colla scienza e togliere fra loro ogni contrasto, sì per lumeggiare esternamente e difendere la religione stessa; e chi sa che forse non giovino altresì per preparar la materia di un dogma futuro. Del culto poi non vi sarebbe gran che da dire, se sotto questo nome non venissero eziandio i Sacramenti, intorno ai quali sono gravissimi gli errori dei modernisti. Il culto vogliono che risulti da un doppio bisogno; giacché, torniamo ad osservarlo, nel loro sistema tutto va attribuito ad intimi bisogni. L'uno è quello di dare alla religione alcunché di sensibile; l'altro è il bisogno di propagarla, il che non potrebbe avvenire senza una qualche forma sensibile e senza atti santificanti, che diconsi Sacramenti. Quanto poi ai Sacramenti, essi pei modernisti si riducono a meri simboli o segni, non però privi di efficacia; efficacia che essi cercano di spiegare coll'esempio di certe cotali parole che volgarmente diconsi aver fatto fortuna, per avere acquistata la forza di diffondere talune idee potenti e che colpiscono grandemente gli animi. Come quelle parole sono ordinate alle dette idee, così i Sacramenti al sentimento religioso: nulla di vantaggio. Parlerebbero certamente più chiaro ove affermassero che i Sacramenti sono istituiti unicamente per nutrir la fede. Ma ciò è condannato dal Concilio di Trento (Sess. VII, de Sacramentis in genere, can. 5): "Se alcuno dirà che questi Sacramenti sono istituiti solo per nutrir In fede, sia anatema".

Della natura ancora e dell'origine dei Libri sacri già si è toccato. Secondo il pensare dei modernisti, si può ben definirli una raccolta di esperienze: non di quelle, che comunemente si hanno da ognuno, ma delle straordinarie e più insigni che siensi avute in una qualche religione. E così essi appunto insegnano a riguardo dei nostri libri del Vecchio e del Nuovo Testamento. A lor comodo però, notano assai scaltramente che, sebbene l'esperienza sia del presente, può tuttavolta prender materia dal passato ed eziandio dal futuro, in quanto che il credente o per la memoria rivive il passato a maniera del presente, o vive già per anticipazione l'avvenire. Ciò giova a dar modo di computare fra i Libri santi anche gli storici e gli apocalittici. Così adunque in questi libri parla bensì Iddio per mezzo del credente; ma, come vuole la teologia modernistica, solo per immanenza e permanenza vitale. Vorrà sapersi, in che consista dopo ciò l'ispirazione? Rispondono che non si distingue, se non forse per una certa maggiore veemenza, dal bisogno che sente il credente di manifestare a voce e per scritto la propria fede. È alcun che di simile a quello che si avvera nella ispirazione poetica; per cui un cotale diceva: È Dio in noi, da Lui agitati noi c'infiammiamo. È questo appunto il modo onde Dio deve dirsi origine della ispirazione dei Libri sacri. Affermano inoltre i modernisti che nulla vi è in questi libri che non sia ispirato. Nel che potrebbe taluno crederli più ortodossi di certi altri moderni che restringono alquanto la ispirazione, come, a mo' di esempio, nelle così dette citazioni tacite. Ma queste non sono che lustre e parole. Imperciocché se, secondo l'agnosticismo, riteniamo la Bibbia come un lavoro umano fatto da uomini per servigio di uomini, salvo pure al teologo di chiamarla divina per immanenza, come mai l'ispirazione potrebbe in essa restringersi? Sì, i modernisti affermano un'ispirazione totale: ma, nel senso cattolico, non ne ammettono in fatto veruna.

Più larga materia ci offre ciò che la scuola dei modernisti fantastica a riguardo della Chiesa. È qui da presupporre che la Chiesa secondo essi è frutto di due bisogni: uno nel credente, specie se abbia avuta qualche esperienza originale e singolare, di comunicare ad altri la propria fede; l'altro nella collettività, dopo che la fede si è fatta comune a molti, di aggrupparsi in società e di conservare, accrescere e propagare il bene comune. Che cosa è dunque la Chiesa? un parto della coscienza collettiva, ossia collettività di coscienze individuali; le quali, in forza della permanenza vitale, pendono tutte da un primo credente, cioè pei cattolici da Cristo. Ora ogni società ha bisogno di un'autorità che la regga: il cui compito sia dirigere gli associati al fine comune, e conservare saggiamente gli elementi di coesione, i quali in una società religiosa sono la dottrina ed il culto. Perciò nella Chiesa cattolica una triplice autorità: disciplinare, dogmatica, culturale. La natura poi di questa autorità dovrà desumersi dalla sua origine; e dalla natura si dovranno a loro volta dedurre i diritti e i doveri. Fu errore volgare dell'età passata che l'autorità sia venuta alla Chiesa dal di fuori, cioè immediatamente da Dio: e perciò era giustamente ritenuta autocratica. Ma queste sono teorie oggimai passate di moda. Come la Chiesa è emanata dalla collettività delle coscienze, cosi l'autorità emana vitalmente dalla stessa Chiesa. Pertanto l'autorità del pari che la Chiesa nasce dalla coscienza religiosa, e perciò alla medesima resta soggetta: e se venga meno a siffatta soggezione, si volge in tirannide. Nei tempi che corrono il sentimento di libertà è giunto al suo pieno sviluppo. Nello stato civile la pubblica coscienza ha voluto un regime popolare. Ma la coscienza dell'uomo, come la vita, è una sola. Se dunque l'autorità della Chiesa non vuol suscitare e mantenere una guerra intestina nelle coscienze umane, uopo è che si pieghi anch'essa a forme democratiche; tanto più che, a negarvisi, lo sfacelo sarebbe imminente. È da pazzo il credere che possa aversi un regresso nel sentimento di libertà quale domina al presente. Stretto e rinchiuso con violenza strariperà più potente, distruggendo insieme la religione e la Chiesa. Fin qui il ragionare dei modernisti: e la conseguenza è, che sono tutti intesi a trovar modi per conciliare l'autorità della Chiesa colla libertà dei credenti.

Se non che non solamente fra le sue stesse pareti trova la Chiesa con chi doversi comporre amichevolmente, ma eziandio fuori. Non è sola essa ad occupare il mondo: l'occupano insieme altre società, colle quali non può aver uso e commercio. Convien dunque determinare quali sieno i diritti e i doveri della Chiesa verso le società civili; e ben s'intende che tale determinazione deve esser desunta dalla natura della Chiesa stessa, quale i modernisti l'hanno descritta. Le regole perciò da usarsi son quelle stesse che sopra si adoperarono per la scienza e la fede. Ivi parlavasi di oggetti, qui di fini. Come adunque, per ragione dell'oggetto, si dissero la fede e la scienza vicendevolmente estranee, così lo Stato e la Chiesa sono l'uno all'altra estranei pel fine a cui tendono, temporale per lo Stato, spirituale pella Chiesa. Fu d'altre età il sottomettere il temporale allo spirituale; il parlarsi di questioni miste, nelle quali la Chiesa interveniva quasi signora e regina, perché la Chiesa sl stimava istituita immediatamente da Dio, come autore dell'ordine soprannaturale. Ma la filosofia e la storia non più ammettono cotali credenze. Adunque lo Stato deve separarsi dalla Chiesa e per egual ragione il cattolico dal cittadino. Di qui è, che il cattolico, perché insieme cittadino, ha diritto e dovere, non curandosi dell'autorità della Chiesa, dei suoi desiderî, consigli e comandi, sprezzate altresì le sue riprensioni, di far quello che giudicherà espediente al bene della patria. Voler imporre al cittadino una linea di condotta sotto qualsiasi pretesto è un vero abuso di potere ecclesiastico da respingersi con ogni sforzo. Le teorie, o Venerabili Fratelli, onde promanano tutti questi errori, son quelle appunto che il Nostro Predecessore Pio VI già condannò solennemente nella Costituzione Apostolica "Auctorem Fidei" (Prop. 2). "La proposizione che stabilisce che la potestà è stata da Dio data alla Chiesa, perché fosse comunicata ai Pastori, che sono ministri di lei per la salute delle anime; così intesa, che la potestà del ministero e regime ecclesiastico si derivi nei Pastori dalla Comunità dei fedeli: eretica". Prop. 3. "Inoltre quella che stabilisce il Romano Pontefice esser capo ministeriale; così spiegata che il Romano Pontefice, non da Cristo nella persona del Beato Pietro, ma dalla Chiesa abbia avuta la potestà del ministero, di cui come successore di Pietro, vero Vicario di Cristo e capo di tutta la Chiesa, gode nella Chiesa universa: eretica").

Ma non basta alla scuola dei modernisti che lo Stato sia separato dalla Chiesa. Come la fede, quanto agli elementi fenomenici, deve sottostare alla scienza, così nelle cose temporali la Chiesa ha da soggettarsi allo Stato. Questo forse non l'asseriscono essi peranco apertamente; ma per forza di raziocinio sono costretti ad ammetterlo. Imperocché, concesso che lo Stato abbia assoluta padronanza in tutto ciò che è temporale, se avvenga che il credente, non pago della religione dello spirito, esca in atti esteriori, quali per mo' di esempio, l'amministrarsi o il ricevere dei Sacramenti, bisognerà che questi cadano sotto il dominio dello Stato. E che sarà dopo ciò dell'autorità ecclesiastica? Siccome questa non si spiegasse non per atti esterni, sarà in tutto e per tutto assoggettata al potere civile. È questa ineluttabile conseguenza che trascina molti fra i protestanti liberali a sbarazzarsi di ogni culto esterno, anzi d'ogni esterna società religiosa, i quali invece si adoprano di porre in voga una religione che chiamano individuale. Che se i modernisti, a luce di sole, non si spingono ancora tant'oltre, insistono intanto perché la Chiesa si pieghi spontaneamente ove essi la voglion trarre e si acconci alle forme civili. Tutto ciò per l'autorità disciplinare. Più gravi assai e perniciose sono le loro affermazioni a riguardo dell'autorità dottrinale e dogmatica. Circa il magistero ecclesiastico così essi la pensano: la società religiosa non può veramente essere una senza unità di coscienza nei suoi membri e senza unita di formola. Ma questa duplice unità richiede, per così dire, una mente comune, a cui spetti trovare e determinare la formola, che meglio risponda alla coscienza comune: alla qual mente fa d'uopo inoltre attribuire un'autorità bastevole, perché possa imporre alla comunanza la formola stabilita. Or nell'unione è quasi fusione della mente designatrice della formola e dell'autorità che la impone, ritrovano i modernisti il concetto del magistero ecclesiastico. Poiché dunque in fin dei conti il magistero non nasce che dalle coscienze individuali ed a bene delle stesse coscienze ha imposto un pubblico ufficio; ne consegue di necessità che debba dipendere dalle medesime coscienze e debba quindi avviarsi a forme democratiche. Il proibire pertanto alle coscienze degli individui che facciano pubblicamente sentire i loro bisogni; non soffrire chela critica spinga il dogma verso necessarie evoluzioni, non è già uso di potestà, data per pubblico bene, ma abuso. Similmentene l'uso stesso della potestà fa di mestieri serbare modo e misura. Sa di tirannide condannare un libro all'insaputa dell'autore, senza ammettere spiegazioni di sorta né discussione. Adunque qui pure è da ricercarsi una via di mezzo che salvi insieme i diritti dell'autorità e della libertà. Nel frattempo il cattolico si regolerà in guisa che non lasci pubblicamente di protestarsi rispettosissimo dell'autorità, continuando però sempre ad operare a suo talento. In generale vogliono ammonita la Chiesa che, poiché il fine della potestà ecclesiastica è tutto spirituale, disdice ogni esterno apparato di magnificenza con che essa si circonda agli occhi delle moltitudini. Nel che non riflettono che se la religione è essenzialmente spirituale non c tuttavia ristretta al solo spirito; e che l'onore tributato all'autorità ridonda su Gesù Cristo che ne fu istitutore.

Per compiere tutta questa materia della fede e dei diversi suoi germi, rimane da ultimo, Venerabili Fratelli, che ascoltiamo le teorie dei modernisti circa lo sviluppo dei medesimi. È lor principio generale che in una religione vivente tutto debba essere mutevole e mutarsi di fatto. Di qui fanno passo a quella che è delle principali fra le loro dottrine, vogliam dire all'evoluzione. Dogma dunque, Chiesa, culto, Libri sacri, anzi la fede stessa, se non devon esser cose morte, fa mestieri che sottostiano alle leggi dell'evoluzione. Siffatto principio non si udrà con istupore da chi rammenti quanto i modernisti son venuti affermando intorno a ciascuno di questi oggetti. Posta pertanto la legge dell'evoluzione, i modernisti stessi ci descrivono in qual maniera l'evoluzione si effettui. E cominciamo dalla fede. La forma primitiva, essi dicono, della fede fu rudimentaria e comune indistintamente a tutti gli uomini; giacché nasceva dalla natura e dalla vita umana. Il progresso si ebbe per sviluppo vitale; che è quanto dire non per aggiunta di nuove forme apportate dal di fuori, ma per una crescente penetrazione nella coscienza del sentimento religioso. Doppio indi fu il modo di progredire nella fede: prima negativamente, col depurarsi da ogni elemento estraneo, come ad esempio dal sentimento di famiglia o di nazionalità; quindi positivamente, mercè il perfezionarsi intellettuale e morale dell'uomo, per cui l'idea divina sl ampliò ed illustrò e il sentimento religioso divenne più squisito. Del progresso della fede non altre cause assegnar si possono che quelle stesse onde già si spiegò la sua origine. Alle quali però fa d'uopo aggiungere quei genii religiosi, che noi chiamiamo profeti e dei quali Cristo fu il sommo; sì perché nella vita o nelle parole ebbero un certo che di misterioso, che la fede attribuiva alla divinità, e sì perché toccaron loro esperienze nuove ed originali in piena armonia coi bisogni del loro tempo. Il progresso del dogma nasce principalmente dal bisogno di superare gli ostacoli della fede, di vincere gli avversari, di ribattere le difficoltà, senza dire dello sforzo continuo di viemeglio penetrare gli arcani della fede. Così, per tacer di altri esempi, è avvenuto di Cristo; in cui, quel più o meno divino, che la fede in esso ammetteva, si venne gradatamente amplificando in modo, che finalmente fu ritenuto per Dio. Lo stimolo precipuo di evoluzione del culto sarà il bisogno di adattarsi agli usi ed alle tradizioni dei popoli; come altresì di usufruire della virtù che certi atti hanno ricevuto dall'usanza. La Chiesa finalmente trova la sua ragione di evolversi nel bisogno di accomodarsi alle condizioni storiche e di accordarsi colle forme di civil governo pubblicamente adottate. Così i modernisti di ciascun capo in particolare. E qui, innanzi di farCi oltre, bramiamo che ben si avverta di nuovo a questa loro dottrina dei bisogni; giacché essa, oltreché di quanto finora abbiam visto, è quasi base e fondamento di quel vantato metodo che chiamano storico.

Or, restando tuttavia nella teoria della evoluzione, vuole di più osservarsi che quantunque i bisogni servano di stimolo per la evoluzione, essa nondimeno, regolata unicamente da siffatti stimoli, valicherebbe facilmente i termini della tradizione, e strappata così dal primitivo principio vitale, meglio che a progresso menerebbe a rovina. Quindi studiando più a fondo il pensiero dei modernisti, deve dirsi che l'evoluzione è come il risultato di due forze che si combattono, delle quali una è progressiva, l'altra conservatrice. La forza conservatrice sta nella Chiesa e consiste nella tradizione. L'esercizio di lei è proprio dell'autorità religiosa; e ciò, sia per diritto, giacché sta nella natura di qualsiasi autorità il tenersi fermo il più possibile alla tradizione; sia per fatto, perché sollevata al disopra delle contingenze della vita, poco o nulla sente gli stimoli che spingono a progresso. Per contrario la forza che, rispondendo ai bisogni, trascina a progredire, cova e lavora nelle coscienze individuali, in quelle soprattutto che sono, come dicono, più a contatto della vita. Osservate qui di passaggio, o Venerabili Fratelli, lo spuntar fuori di quella dottrina rovinosissima che introduce il laicato nella Chiesa come fattore di progresso. Da una specie di compromesso fra le due forze di conservazione e di progressione, fra l'autorità cioè e le coscienze individuali, nascono le trasformazioni e i progressi. Le coscienze individuali, o talune di esse, fan pressione sulla coscienza collettiva; e questa a sua volta sull'autorità, e la costringe a capitolare ed a restare ai patti. Ciò ammesso, ben si comprendono le meraviglie che fanno i modernisti, se avvenga che siano biasimati o puniti. Ciò che loro sia scrive a colpa, essi l'hanno per sacrosanto dovere. Niuno meglio di essi conosce i bisogni delle coscienze perché si trovano con queste a più stretto contatto che non si trovi la potestà ecclesiastica. Incarnano quasi in sé quei bisogni tutti: e quindi il dovere per loro di parlare apertamente e di scrivere. Li biasimi pure l'autorità, la coscienza del dovere li sostiene, e sanno per intima esperienza di non meritare riprensioni ma encomii. Pur troppo essi sanno che i progressi non si hanno senza combattimenti, né combattimenti senza vittime: e bene, saranno essi le vittime, come già i profeti e Cristo. Né perché siano trattati male, odiano l'autorità: concedono che ella adempia il suo dovere. Solo rimpiangono di non essere ascoltati, perché in tal guisa il progredire degli animi si ritarda: ma verrà senza meno il tempo di rompere gl'indugi, giacché le leggi dell'evoluzione si possono raffrenare, ma non possono affatto spezzarsi. E così continuano il lor cammino, continuano benché ripresi e condannati, celando un'incredibile audacia col velo di un'apparente umiltà. Piegano fintamente il capo: ma la mano e la mente proseguono con più ardimento il loro lavoro. E così essi operano scientemente e volentemente; sì perché è loro regola che l'autorità debba essere spinta, non rovesciata; si perché hanno bisogno di non uscire dalla cerchia della Chiesa per poter cangiare a poco a poco la coscienza collettiva; il che quando dicono, non si accorgono di confessare che la coscienza collettiva dissente da loro, e che quindi con nessun diritto essi si dànno interpreti della medesima.

Per detto adunque e per fatto dei modernisti nulla, o Venerabili Fratelli, vi deve essere di stabile, nulla di immutabile nella Chiesa. Nella qual sentenza non mancarono ad essi dei precursori, quelli cioè dei quali il Nostro Predecessore Pio IX già scriveva: "Questi nemici della divina rivelazione, che estollono con altissime lodi l'umano progresso, vorrebbero, con temerario e sacrilego ardimento, introdurlo nella cattolica religione, quasi che la stessa religione fosse opera non di Dio ma degli uomini o un qualche ritrovato filosofico che con mezzi umani possa essere perfezionato" (Enc. "Qui pluribus", 9 nov. 1846). Circa la rivelazione specialmente e circa il dogma, la dottrina dei modernisti non ha filo di novità; ma è quella stessa che nel Sillabo di Pio IX ritroviamo condannata, così espressa: "La divina rivelazione è imperfetta e perciò soggetta a continuo ed indefinito progresso, che risponda a quello dell'umana ragione" (Sillabo, Prop. V); più solennemente poi la troviamo riprovata dal Concilio Vaticano in questi termini: "Né la dottrina della fede, che Dio rivelò, è proposta agli umani ingegni da perfezionare come un ritrovato filosofico, ma come un deposito consegnato alla Sposa di Cristo, da custodirsi fedelmente e da dichiararsi infallibilmente. Quindi dei sacri dogmi altresì deve sempre ritenersi quel senso che una volta dichiarò la Santa Madre Chiesa, né mai deve allontanarsi da quel senso sotto pretesto e nome di più alta intelligenza" (Const. Dei Filius, cap. IV). Col che senza dubbio l'esplicazione nelle nostre cognizioni, anche circa la fede, tanto è lungi che venga impedita, che anzi ne è aiutata e promossa. Laonde lo stesso Concilio prosegue dicendo: "Cresca dunque e molto e con slancio progredisca l'intelligenza, la scienza, la sapienza così dei singoli come di tutti, così di un sol uomo come di tutta la Chiesa coll'avanzare delle età e dei secoli; ma solo nel suo genere, cioè nello stesso dogma, nello stesso senso e nella stessa sentenza" (Loc. cit.).

Ma ormai, dopo aver osservato nei seguaci del modernismo il filosofo, il credente, il teologo, resta che osserviamo parimente lo storico, il critico, l'apologista.

Taluni dei modernisti, che si dànno a scrivere storia, paiono oltremodo solleciti di non passar per filosofi; che anzi professano di essere affatto ignari di filosofia. È ciò un tratto di finissima astuzia: affinché nessuno creda che essi sieno infetti di pregiudizi filosofici e non sieno perciò, come dicono, affatto obbiettivi. Ma il vero è, che la loro storia o critica non parla che con la lingua della filosofia; e le conseguenze che traggono, vengono di giusto raziocinio dai loro principî filosofici. Il che, a chi bene riflette, si fa subito manifesto. I primi tre canoni di questi tali storici o critici sono quegli stessi principî, che sopra riportammo dai filosofi: cioè l'agnosticismo, il teorema della trasfigurazione delle cose per la fede, e l'altro che Ci parve poter chiamare dello sfiguramento. Osserviamo le conseguenze che da ciascuno di questi si traggono. Dall'agnosticismo si ha che la storia, non meno che la scienza, si occupa solo dei fenomeni. Dunque, tanto Dio quanto un intervento qualsiasi divino nelle cose umane deve rimandarsi alla fede come di esclusiva sua pertinenza. Per lo che se trattasi di cosa in cui s'incontri un duplice elemento, divino ed umano come Cristo, la Chiesa, i Sacramenti e simili, dovrà dividersi e sceverarsi in modo che ciò che è umano si dia alla storia, ciò che è divino alla fede. Quindi quella distinzione comune fra i modernisti, fra un Cristo storico ed un Cristo della fede, una Chiesa della storia ed una Chiesa della fede, fra Sacramenti della storia e Sacramenti della fede e via dicendo. Dipoi questo stesso elemento umano, che vediamolo storico prendersi per sé quale essa si porge nei monumenti, deve ritenersi sollevato dalla fede per trasfigurazione al di là delle condizioni storiche. Conviene perciò separarne di nuovo tutte le aggiunte fattevi: cosi, trattandosi di Gesù Cristo, tutto quello che passa la condizione dell'uomo sia naturale, quale si dà dalla psicologia, sia risultante dal luogo e dal tempo in che visse. Di più, per terzo principio filosofico, pur quelle cose che non escono dalla cerchia della storia, le vagliano quasi e ne escludono, rimandandolo parimenti alla fede, tutto ciò che, secondo quanto dicono, non entra nella logica dei fatti o non era adatto alle persone. Di tal modo, vogliono che Cristo non abbia dette le cose che non sembrano essere alla portata del volgo. Quindi dalla storia reale di Lui cancellano e rimettono alla fede tutte le allegorie che incontransi nei suoi discorsi. Si vuol forse sapere con quali regole si compia questa cernita? Con quella del carattere dell'uomo, della condizione che ebbe nella società, della educazione, delle circostanze di ciascun fatto: a dir breve con una norma, se bene intendiamo, che si risolve per ultimo in mero soggettivismo. Si studiano cioé di prendere essi e quasi rivestire la persona di Gesù Cristo; ed a Lui ascrivono senza più quanto in simili circostanze avrebbero fatto essi stessi. Così dunque, per conchiudere, a priori, come suol dirsi, e coi principî di una filosofia, che essi ammettono ma ci asseriscono d'ignorare, nella storia che chiamano reale affermano Cristo non essere Dio né aver fatto nulla di divino; come uomo poi aver Lui fatto e detto quel tanto, che essi, riferendosi al tempo in cui Egli visse, Gli consentono di aver operato e parlato.

Come poi la storia riceve dalla filosofia le sue conclusioni, così la critica le ha a sua volta dalla storia. Essendoché il critico seguendo gli indizi dati dallo storico, di tutti i documenti ne fa due parti. Tutto ciò che rimane, dopo il triplice taglio or ora descritto, lo assegna alla storia reale; il restante lo confina alla storia della fede, ossia alla storia interna. Giacché queste due storie distinguono diligentemente i modernisti; e, ciò che e ben da notarsi, alla storia della fede contrappongono la storia reale in quanto è reale. Perciò, come già si è detto, un doppio Cristo; l'uno reale, l'altro che veramente non mai esisté ma appartiene alla fede; l'uno che visse in determinato luogo e tempo, l'altro che solo s'incontra nelle pie meditazioni della fede; tale, per mo' d'esempio, è il Cristo descrittoci nell'Evangelio giovanneo, il qual Vangelo, affermano, non è che una meditazione.

Ma qui non si arresta il dominio della filosofia nella storia. Fatta, come dicemmo, la divisione dei documenti in due parti, si presenta di nuovo il filosofo col suo principio dell'immanenza vitale, e prescrive che tutto quanto è nella storia della Chiesa debba spiegarsi per vitale emanazione. E poiché la causa o condizione di qualsiasi emanazione vitale deve ripetersi da un bisogno, si avrà che ogni avvenimento si dovrà concepire dopo il bisogno, e dovrà istoricamente ritenersi posteriore a questo. Che fa allora lo storico? Datosi a studiar di nuovo i documenti, tanto nei Libri sacri quanto ricevuti altronde, va tessendo un catalogo dei singoli bisogni che man mano si presentarono nella Chiesa sia per riguardo al dogma, sia per riguardo al culto od altre materie: e quel catalogo trasmette poscia al critico. E questi mette indi mano ai documenti destinati alla storia della fede e li distribuisce in guisa di età in età, che rispondano al datogli elenco; rammentando sempre il precetto che il fatto è preceduto dal bisogno e la narrazione dal fatto. Potrà ben darsi talora che talune parti della Sacra Scrittura, come le Epistole, sieno esse stesse il fatto creato dal bisogno. Checché sia però, deve aversi per regola che l'età di un documento qualsiasi non può determinarsi se non dall'età in cui ciascun bisogno si è manifestato nella Chiesa.

Di più è da distinguere fra l'inizio di un fatto e la sua esplicazione; poiché ciò che può nascere in un giorno, non cresce se non col tempo. E questa è la ragione perché il critico debba novamente spartire in due i documenti già disposti per età, sceverando quelli che riguardano le origini di un fatto da quelli che appartengono al suo svolgimento, e questi eziandio ordini secondo il succedersi dei tempi.

Ciò fatto, entra di nuovo in iscena il filosofo, ed impone allo storico di compiere i suoi studi a seconda dei precetti e delle leggi dell'evoluzione. E lo storico torna a scrutare i documenti, ricerca sottilmente le circostanze e condizioni nelle quali, col succedersi dei tempi, la Chiesa si è trovata, i bisogni così interni che esterni che l'hanno spinta a progresso, gli ostacoli che incontrò: a dir breve, tutto ciò che giovi a determinare il modo onde furono mantenute le leggi della evoluzione. Compiuto un tal lavoro, egli finalmente tesse nelle sue linee principali la storia dello sviluppo dei fatti. Segue il critico, che a questo tema storico adatta il restante dei documenti. Si dà mano a stendere la narrazione: la storia è compiuta. Or qui chiediamo, a chi dovrà attribuirsi una simile storia? allo storico forse od al critico? Per fermo né all'uno all'altro, sì bene al filosofo. Tutto il lavoro di essa è un lavoro di apriorismo, e di apriorismo riboccante di eresie. Fanno certamente pietà questi uomini, dei quali l'Apostolo ripeterebbe: "Svanirono nei pensamenti... imperocché vantandosi di essere sapienti, son divenuti stolti" (Rom., I, 21, 22); ma muovono in pari tempo a sdegno, quando poi accusano la Chiesa di manipolare i documenti in guisa da farli servire ai propri vantaggi. Addebitano cioè alla Chiesa ciò che dalla propria coscienza sentono apertamente rimproverarsi.

Dall'avere così disgregati i documenti e seminatili lungo le età, segue naturalmente che i Libri sacri non possano di fatto attribuirsi agli autori, dei quali portano il nome. E questo è il motivo perché i modernisti non esitano punto nell'affermare che quei libri, e specialmente il Pentateuco ed i tre primi Vangeli, da una breve narrazione primitiva, son venuti man mano crescendo per aggiunte o interpolazioni, sia a maniera di interpretazioni o teologiche o allegoriche, sia a modo di transizioni che unissero fra sé le parti. A dir più breve e più chiaro vogliono che debba ammettersi la evoluzione vitale dei Libri sacri, nata dalla evoluzione della fede e ad essa corrispondente. Aggiungono di più, che le tracce di cotale evoluzione sono tanto manifeste, da potersene quasi scrivere una storia. La scrivono anzi questa storia, e con tanta sicurezza che si sarebbe tentati a creder aver essi visto coi propri occhi i singoli scrittori che di secolo in secolo stesero la mano all'ampliazione delle sante Scritture. A conferma di che, chiamano in aiuto la critica che dicono testuale; e si adoprano di persuadere che questo o quel fatto, questo o quel discorso non si trovi al suo posto e recano altre ragioni del medesimo stampo. Direbbesi per verità che si sieno prestabiliti certi quasi-tipi di narrazioni o parlate, che servano di criterio certissimo per giudicare ciò che stia al suo posto e ciò che sia fuor di luogo. Con siffatto metodo stimi chi può come costoro debbano essere capaci di giudicare. Eppure, chi li ascolti ad oracolare dei loro studi sulle Scritture, pei quali han potuto scoprirvi si gran numero di incongruenze, è spinto a credere che niun uomo prima di loro abbia sfogliato quei libri, né che li abbia ricercati per ogni verso una quasi infinita schiera di Dottori, per ingegno, per scienza, per santità di vita più di loro. I quali Dottori sapientissimi, tanto fu lungi che trovasser nulla da riprendere nei Libri santi, che anzi quanto più ringraziavano Iddio, che si fosse così degnato di parlare cogli uomini. Ma purtroppo i Dottori nostri non attesero allo studio delle Scritture con quei mezzi, onde son forniti i modernisti! Cioè non ebbero a maestra e condottiera una filosofia che trae principio dalla negazione di Dio, né fecero a se stessi norma di giudicare. Crediamo adunque che sia ormai posto in luce il metodo storico dei modernisti. Precede il filosofo; segue lo storico; tengon dietro per ordine la critica interna e la testuale. E poiché la prima causa questo ha di proprio che comunica la sua virtù alle seconde, è evidente che siffatta critica non è una critica qualsiasi, ma una critica agnostica, immanentista, evoluzionista; e perciò chi la professa o ne fa uso, professa gli errori in essa racchiusi e si pone in contraddizione colla dottrina cattolica. Per la quale cosa non può finirsi di stupire come una critica di tal genere possa oggidì aver tanta voga presso cattolici. Di ciò può assegnarsi una doppia causa: la prima è l'alleanza onde gli storici ed i critici di questa specie sono legati fra loro senza riguardi a diversità di nazioni o di credenze; la seconda è l'audacia indicibile, con cui ogni stranezza che uno di loro proferisca, dagli altri è levata al cielo e decantata qual progresso della scienza; con cui, se taluno voglia da se stesso verificare il nuovo ritrovato, serratisi insieme lo assalgono, se talun lo neghi lo trattano da ignorante, se lo accolga e lo difenda lo ricoprono di encomî. Così non pochi restano ingannati che forse, se meglio vedessero le cose, ne sarebbero inorriditi. Da questo prepotente imporsi dei fuorviati, da questo incauto assentimento di animi leggeri nasce poi un quasi corrompimento di atmosfera che tutto penetra e diffonde per tutto il contagio. Ma passiamo all'apologista.

Costui, nei modernisti, dipende ancor esso doppiamente dal filosofo. Prima indirettamente, pigliando per sua materia la storia scritta, come vedemmo, dietro le norme del filosofo: poi direttamente accettando dal filosofo i principî e i giudizî. Quindi quel comune precetto della scuola del modernismo che la nuova apologia debba dirimere le controversie religiose per via di ricerche storiche e psicologiche. Ond'è che gli apologisti dan capo al loro lavoro coll'ammonire i razionalisti che essi difendono la religione non coi Libri sacri né colle storie volgarmente usate nella Chiesa e scritte alla vecchia moda; ma colla storia reale composta a seconda dei moderni precetti e con metodo moderno. E ciò dicono, non quasi argomentando ad hominem, ma perché difatti credono che solo in tale storia si trovi la verità. Non si curano poi, nello scrivere, di insistere sulla propria sincerità: sono essi già noti presso i razionalisti, sono già lodati siccome militanti sotto una stessa bandiera; della quale lode, che ad un cattolico dovrebbe fare ribrezzo, essi si compiacciono o se ne fanno scudo contro le riprensioni della Chiesa. Ma vediamo in pratica come uno di costoro compia la sua apologia. Il fine che si propone è di condurre l'uomo che ancora non crede a provare in sé quella esperienza della cattolica religione che, secondo i modernisti, è base della fede. Due vie perciò gli si aprono, l'una oggettiva, l'altra soggettiva. La prima muove dall'agnosticismo; e tende a dimostrare come nella religione e specialmente nella cattolica vi sia tale virtù vitale, da costringere ogni savio psicologo e storico ad ammettere che nella storia di essa si nasconda alcun che di incognito. A tale scopo fa d'uopo provare che la religione cattolica qual è al presente, è la stessissima che Gesù Cristo fondò, ossia il progressivo sviluppo del germe recato da Gesù Cristo. Pertanto dovrà dapprima determinarsi quale esso sia questo germe. Pretendono di esprimerlo colla seguente formola: Cristo annunciò la venuta del regno di Dio, il quale regno dovrebbe aver fra breve il suo compimento, ed Egli ne sarebbe il Messia, cioè l'esecutore stabilito da Dio e l'ordinatore. Dopo ciò converrà dimostrare come questo germe, sempre immanente nella religione cattolica, di mano in mano e di pari passo con la storia, siasi sviluppato e sia venuto adattandosi alle successive circostanze, da queste vitalmente assimilandosi quanto gli si affacesse di forme dottrinali, culturali, ecclesiastiche; superando nel tempo stesso gli ostacoli, sbaragliando i nemici, e sopravvivendo ad ogni sorta di contraddizioni o dl lotte. Dopo che tutto questo, cioè gl'impedimenti, i nemici, le persecuzioni, i combattimenti, come pure la vitalità e fecondità della Chiesa, siansi mostrati tali che, quantunque nella storia della stessa Chiesa si scorgano serbate le leggi della evoluzione, pure queste non bastano a pienamente spiegarla: l'incognito sarà dl fronte e si presenterà da sé stesso. Fin qui i modernisti. I quali, però, in tutto questo discorrere, non pongon mente a una cosa; e cioè, che quella determinazione del germe primitivo è tutto frutto dell'apriorismo del filosofo agnostico ed evoluzionista, e che il germe stesso è così gratuitamente da loro definito pel buon giuoco della loro causa.

Mentre però i nuovi apologisti, cogli argomenti arrecati, si studiano di affermare e persuadere la religione cattolica, non han riguardo a concedere che in essa molte cose sono che spiacciono. Che anzi, con una mal velata voluttà, van ripetendo pubblicamente che anche in materia dogmatica ritrovano errori e contraddizioni; benché soggiungano, che tali errori e contraddizioni non solo meritano scusa, ma, ciò che è più strano, sono da legittimarsi e giustificarsi. Così pure, secondo essi, nelle sacre Scritture corrono moltissimi sbagli in materia scientifica e storica. Ma, dicono, non sono quelli, libri di scienza o di storia, sì bene di religione e di morale, ove la scienza e la storia sono involucri con cui si coprono le esperienze religiose e morali per meglio propagarsi nel pubblico; il quale pubblico non intendendo altrimenti, una scienza od una storia più perfetta sarebbegli stata non di vantaggio ma di nocumento. Del resto, aggiungono, i Libri sacri, perché di lor natura religiosi, sono essenzialmente viventi: or la vita ha pur essa la sua verità e la sua logica; diversa certamente dalla verità e logica razionale, anzi di tutt'altro ordine, verità cioè di comparazione e proporzione sia coll'ambiente in cui si vive, sia col fine per cui si vive. Finalmente a tanto estremo essi giungono ad affermare, senza attenuazione di sorta, che tutto ciò che si spiega con la vita è vero e legittimo. Noi, Venerabili Fratelli, pei quali la verità è una ed unica, e che riteniamo i sacri Libri come quelli che "scritti sotto l'ispirazione dello Spirito Santo, hanno per autore Iddio" (Conc. Vat., De Rev. c. 2), affermiamo ciò essere il medesimo che attribuire a Dio la menzogna di utilità o officiosa; e colle parole di Sant'Agostino protestiamo che: "Ammessa una volta in così altissima autorità qualche bugia officiosa, nessuna particella di quei libri resterà che, sembrando ad alcuno ardua per costume o incredibile per la fede, con la stessa perniciosissima regola, non si riferisca a consiglio o vantaggio dell'autore menzognero" (Epist. 28). Dal che seguirà quel che lo stesso santo Dottore aggiunge: "In esse - cioè nelle Scritture - ciascuno crederà quel che vuole, quel che non vuole non crederà". Ma i modernisti apologeti non si dàn pensiero di tanto. Concedono di più trovarsi talora nei Libri santi dei ragionamenti, per sostenere una qualche dottrina, che non si appoggiano a verun ragionevole fondamento, come son quelli che si basano sulle profezie. Vero è che anche questi menan per buoni come artifizî di predicazione legittimati dalla vita. Che più? Concedono, anzi sostengono, che Gesù Cristo stesso errò manifestamente nell'assegnare il tempo della venuta del regno di Dio: ma ciò, secondo essi, non può fare meraviglia, perché Egli ancora era sottoposto alle leggi della vita! Che sarà dopo ciò dei dogmi della Chiesa? Riboccano pur questi di aperte contraddizioni; ma, oltreché sono ammesse dalla logica della vita, non si oppongono alla verità simbolica; giacché si tratta in essi dell'infinito, che ha infiniti rispetti. A far breve, talmente approvano e difendono siffatte teorie, che non si peritano di dichiarare non potersi rendere all'infinito omaggio più nobile, come affermando di esso cose contraddittorie! Ed ammessa così la contraddizione, quale assurdo non si ammetterà?

Oltre agli argomenti oggettivi, il non credente può essere disposto alla fede anche con soggettivi. In questo caso gli apologeti modernisti si rifanno sulla dottrina della immanenza. Si adoprano cioè a convincer l'uomo, che in lui stesso e negli intimi recessi della sua natura e della sua vita si cela il desiderio e il bisogno di una religione, né di una religione qualsiasi, ma tale quale è appunto la cattolica; giacché questa, dicono, è postulata onninamente dal perfetto sviluppo della vita. E qui di bel nuovo siam costretti a lamentarCi gravemente che non mancano cattolici i quali, benché rigettino la dottrina dell'immanenza come dottrina, pure se ne giovano per l'apologetica; e ciò fanno con sì poca cautela, da sembrare ammettere nella natura umana non pure una capacità od una convenienza per l'ordine soprannaturale, ciò che gli apologisti cattolici, colle debite restrizioni, dimostraron sempre, ma una stretta e vera esigenza. A dir più giusto però, questa esigenza della religione cattolica è sostenuta dai modernisti più moderati. Quelli fra costoro che potremmo chiamare integralisti, pretendono che si debba indicare all'uomo, che ancor non crede, latente in lui lo stesso germe che fu nella coscienza di Cristo e da Cristo trasmesso agli uomini. Ed eccovi, o Venerabili Fratelli, descritto per sommi capi il metodo apologetico dei modernisti, in tutto conforme alle loro dottrine: metodo e dottrine infarciti di errori, atti non ad edificare, ma a distruggere; non a far dei cattolici, ma a trascinare i cattolici nella eresia, anzi alla distruzione totale d'ogni religione!

Restano per ultimo a dir poche cose del modernista in quanto la pretende a riformatore. Già le cose esposte finora ci provano abbondantemente da quale smania di innovazione siano rôsi cotesti uomini. E tale smania ha per oggetto quanto vi è nel cattolicismo. Vogliono riformata la filosofia specialmente nei Seminarî: sì che relegata la filosofia scolastica alla storia della filosofia in combutta cogli altri sistemi passati di uso, si insegni ai giovani la filosofia moderna, unica, vera e rispondente ai nostri tempi. A riformare la teologia, vogliono che quella, che diciamo teologia razionale, abbia per fondamento la moderna filosofia. Chiedono inoltre che la teologia positiva si basi principalmente sulla storia dei dogmi. Anche la storia chiedono che si scriva e si insegni con metodi loro e precetti nuovi. Dicono che i dogmi e la loro evoluzione debbano accordarsi colla scienza e la storia. Pel catechismo esigono che nei libri catechistici si inseriscano solo quei dogmi, che sieno stati riformati e che sieno a portata dell'intelligenza del volgo. Circa il culto, gridano che si debbano diminuire le devozioni esterne e proibire che si aumentino. Benché a dir vero, altri più favorevoli al simbolismo, si mostrino in questa parte più indulgenti. Strepitano a gran voce perché il regime ecclesiastico debba essere rinnovato per ogni verso, ma specialmente pel disciplinare e il dogmatico. Perciò pretendono che dentro e fuori si debba accordare colla coscienza moderna, che tutta è volta a democrazia; perché dicono doversi nel governo dar la sua parte al clero inferiore e perfino al laicato, e decentrare, Ci si passi la parola, l'autorità troppo riunita e ristretta nel centro. Le Congregazioni romane si devono svecchiare: e, in capo a tutte, quella del Santo Officio e dell'Indice. Deve cambiarsi l'atteggiamento dell'autorità ecclesiastica nelle questioni politiche e sociali, talché si tenga essa estranea dai civili ordinamenti, ma pur vi si acconci per penetrarli del suo spirito. In fatto di morale, danno voga al principio degli americanisti, che le virtù attive debbano anteporsi alle passive, e di quelle promuovere l'esercizio, con prevalenza su queste. Chiedono che il clero ritorni all'antica umiltà e povertà; ma lo vogliono di mente e di opere consenziente coi precetti del modernismo. Finalmente non mancano coloro che, obbedendo volentierissimo ai cenni dei loro maestri protestanti, desiderano soppresso nel sacerdozio lo stesso sacro celibato. Che si lascia dunque d'intatto nella Chiesa, che non si debba da costoro e secondo i lor principî riformare?

In tutta questa esposizione della dottrina dei modernisti vi saremo sembrati, o Venerabili Fratelli, prolissi forse oltre il dovere. Ma è stato ciò necessario, sì per non sentirCi accusare, come suole, di ignorare le loro cose, e sì perché si veda che, quando parlasi di modernismo, non parlasi di vaghe dottrine non unite da alcun nesso, ma di un unico corpo e ben compatto, ove chi una cosa ammetta uopo è che accetti tutto il rimanente. Perciò abbiam voluto altresì far uso di una forma quasi didattica, né abbiamo ricusato il barbaro linguaggio onde i modernisti fanno uso. Ora, se quasi di un solo sguardo abbracciamo l'intero sistema, niuno si stupirà ove Noi lo definiamo, affermando esser esso la sintesi di tutte le eresie. Certo, se taluno si fosse proposto di concentrare quasi il succo ed il sangue di quanti errori circa la fede furono sinora asseriti, non avrebbe mai potuto riuscire a far meglio di quel che han fatto r modernisti. Questi anzi tanto più oltre si spinsero che, come già osservammo, non pure il cattolicesimo ma ogni qualsiasi religione hanno distrutta. Così si spiegano i plausi dei razionalisti: perciò coloro, che fra i razionalisti parlano più franco ed aperto, si rallegrano di non avere alleati più efficaci dei modernisti.

E per fermo, rifacciamoci alquanto, o Venerabili Fratelli, a quella esizialissima dottrina dell'agnosticismo. Con essa, dalla parte dell'intelletto, è chiusa all'uomo ogni via per arrivare a Dio, mentre si pretende di aprirla più acconcia per parte di un certo sentimento e dell'azione. Ma chi non iscorge quanto vanamente ciò si affermi? Il sentimento risponde sempre all'azione di un oggetto, che sia proposto dall'intelletto o dal senso. Togliete di mezzo l'intelletto; l'uomo, già portato a seguire il senso, lo seguirà con più impeto. Di più, le fantasie, quali che esse siano, di un sentimento religioso non possono vincere il senso comune: ora questo insegna che ogni perturbazione od occupazione dell'animo non è di aiuto ma d'impedimento alla ricerca del vero; del vero, diciamo, quale è in se; giacché quell'altro vero soggettivo, frutto del sentimento interno e dell'azione, se è acconcio per giocare di parole, poco interessa l'uomo a cui soprattutto importa di conoscere se siavi o no fuori di lui un Dio, nelle cui mani una volta dovrà cadere. Ricorrono, a vero dire, i modernisti per aiuto all'esperienza. Ma che può aggiungere questa al sentimento? Nulla: solo potrà renderlo più intenso: dalla quale intensità sia proporzionatamente resa più ferma la persuasione della verità dell'oggetto. Ma queste due cose non faranno si che il sentimento lasci di essere sentimento, né ne cangiano la natura sempre soggetta ad inganno, se l'intelletto non lo scorga; anzi la confermano e la rinforzano, giacché il sentimento quanto è più intenso tanto a miglior diritto è sentimento. Trattandosi poi qui di sentimento religioso e di esperienza in esso contenuta, sapete bene, o Venerabili Fratelli, di quanta prudenza sia mestieri in siffatta materia e di quanta scienza che regoli la stessa prudenza. Lo sapete dalla pratica delle anime, di talune, in ispecialità, in cui domina il sentimento: lo sapete dalla consuetudine dei trattati di ascetica; i quali, quantunque disprezzati da costoro, contengono più solidità di dottrina e più sagacia di osservazione che non ne vantino i modernisti. A Noi per fermo sembra cosa da stolto o almeno da persona al sommo imprudente, ritener per vere, senza esame di sorta, queste intime esperienze quali dai modernisti si spacciano. Perché allora, lo diciamo qui di passata, perché, se queste esperienze hanno si grande forza e certezza, non l'avrà uguale quella esperienza che molte migliaia di cattolici affermano di avere, che i modernisti cioè battono un cammino sbagliato? Sola questa esperienza sarebbe falsa e ingannevole? La massima parte degli uomini ritiene fermamente e sempre riterrà che col solo sentimento e colla sola esperienza senza guida e lume dell'intelletto, mai non si potrà giungere alla conoscenza di Dio. Dunque resta di nuovo o l'ateismo o l'irreligione assoluta. Né i modernisti hanno nulla a sperar di meglio dalla loro dottrina del simbolismo. Imperciocché se tutti gli elementi che dicono intellettuali non sono che puri simboli di Dio, perché non sarà un simbolo il nome stesso di Dio o di personalità divina? E se è cosi, si potrà bene dubitare della stessa divina personalità, ed avremo aperta la via al panteismo. E qua similmente, cioè al puro panteismo, mena l'altra dottrina dell'immanenza divina. Giacché domandiamo: siffatta immanenza distingue o no Iddio dall'uomo? Se lo distingue, in che differisce adunque cotal dottrina dalla cattolica? o perché mai rigetta quella della esterna rivelazione? Se poi non lo distingue, eccoci di bel nuovo col panteismo. Ma difatto l'immanenza dei modernisti vuole ed ammette che ogni fenomeno di coscienza nasca dall'uomo in quanto uomo. Dunque di legittima conseguenza inferiamo che Dio e l'uomo sono la stessa cosa; e perciò il panteismo. Finalmente pari è la conseguenza che si trae dalla loro decantata distinzione fra la scienza e la fede. L'oggetto della scienza lo pongono essi nella realtà del conoscibile; quel lo della fede nella realtà dell'inconoscibile. Orbene l'inconoscibile è tale per la totale mancanza di proporzione fra l'oggetto e la mente. Ma questa mancanza di proporzione, secondo gli stessi modernisti, non potrà mai esser tolta. Dunque l'inconoscibile resterà sempre inconoscibile tanto pel credente quanto pel filosofo. Dunque se si avrà una religione, questa sarà della realtà dell'inconoscibile. La quale realtà perché poi non possa essere l'anima uni versale del mondo, come l'ammettono taluni razionalisti, noi nol vediamo. Ma basti sin qui per conoscere per quante vie la dottrina del modernismo conduca all'ateismo e alla distruzione di ogni religione. L'errore dei protestanti dié il primo passo in questo sentiero; il secondo è del modernismo: a breve distanza dovrà seguire l'ateismo.

A più intimamente conoscere il modernismo e a trovare più acconci rimedi a sì grave malore, gioverà ora, o Venerabili Fratelli, ricercare alquanto le cause, onde esso è nato ed è venuto crescendo. Non ha dubbio che la prima causa ed immediata sta nell'aberrazione dell'intelletto. Quali cause remote due Noi ne riconosciamo: la curiosità e la superbia. La curiosità, se non saggiamente frenata, basta di per sé sola a spiegare ogni fatta di errori. Per lo che il Nostro Predecessore Gregorio XVI a buon diritto scriveva (Lett. Enc. "Singulari Nos", 25 giugno 1834): "È grandemente da piangere nel vedere fin dove si profondino i deliramenti dell'umana ragione, quando taluno corra dietro alle novità, e, contro l'avviso dell'Apostolo, si adoperi di saper più che saper non convenga, e confidando troppo in se stesso, pensi dover cercare la verità fuori della Chiesa cattolica, in cui, senza imbratto di pur lievissimo errore, essa si trova". Ma ad accecare l'animo e trascinarlo nell'errore assai più di forza ha in sé la superbia: la quale, trovandosi nella dottrina del modernismo quasi in un suo domicilio, da essa trae alimento per ogni verso e riveste tutte le forme. Per la superbia infatti costoro presumono audace mente di se stessi e si ritengono e si spacciano come norma di tutti. Per la superbia si gloriano vanissimamente quasi essi soli possiedano la sapienza, e dicono gonfi e pettoruti: "Noi non siamo come il rimanente degli uomini"; e per non essere di fatto posti a paro degli altri, abbracciano e sognano ogni sorta di novità, le più assurde. Per la superbia ricusano ogni soggezione, e pretendono che l'autorità debba comporsi colla libertà. Per la superbia, dimentichi di se stessi, pensano solo a riformare gli altri, né rispettano in ciò qualsivoglia grado fino alla potestà suprema. No, per giungere al modernismo, non vi è sentiero più breve e spedito della superbia. Se un laico cattolico, se un sacerdote dimentichi il precetto della vita cristiana che c'impone di rinnegare noi stessi se vogliamo seguire Gesù Cristo, né sradichi dal suo cuore la mala pianta della superbia; sì costui è dispostissimo quanto mai a professare gli errori del modernismo! Per lo che, o Venerabili Fratelli, sia questo il primo vostro dovere di resistenza a questi uomini superbi, occuparli negli uffici più umili ed oscuri, affinché sieno tanto più depressi quanto più essi s'inalberano, e, posti in basso, abbiano minor campo di nuocere. Inoltre, sia da voi stessi, sia per mezzo dei rettori dei Seminari, cercate con somma diligenza di conoscere i giovani che aspirano ad entrare nel clero; e se alcuno ne troviate di carattere superbo, con ogni risolutezza respingetelo dal sacerdozio. Si fosse cosi operato sempre, colla vigilanza e fortezza che faceva di mestieri!

Che se dalle cause morali veniamo a quelle che spettano all'intelletto, la prima da notarsi è l'ignoranza. I modernisti, quanti essi sono, che vogliono apparire e farla da dottori nella Chiesa, esaltando a grandi voci la filosofia moderna e schernendo la scolastica, se hanno abbracciata la prima ingannati dai suoi orpelli, ne devono saper grado alla totale ignoranza in che erano della seconda, e dal mancare perciò di mezzo per riconoscere la confusione delle idee e ribattere i sofismi. Dal connubio poi della falsa filosofia colla fede è sorto il loro sistema, riboccante di tanti e si enormi errori.

Alla propagazione del quale portassero almeno un minor zelo ed ardore di quel che fanno! Tanta invece è la loro alacrità, cosi indefesso il lavoro, che da strazio il vedere consumate tante forze a danno della Chiesa, le quali, rettamente usate, le sarebbero di vantaggio grandissimo. A trarre poi in inganno gli animi una doppia tattica essi usano: prima si sbarazzano degli ostacoli, poi cercano con somma cura i mezzi che loro giovino, ed instancabili e pazientissimi li mettono in opera. Degli ostacoli, tre sono i principali che più sentono opposti ai loro conati: il metodo scolastico di ragionare, l'autorità dei Padri con la tradizione, il magistero ecclesiastico. Contro tutto questo la loro lotta è accanita. Deridono perciò continuamente e disprezzano la filosofia e la teologia scolastica. Sia che ciò facciano per ignoranza, sia che il facciano per timore o meglio per l'una cosa insieme e per l'altra; certo si è che la smania di novità va sempre in essi congiunta coll'odio della Scolastica; né vi ha indizio più manifesto che taluno cominci a volgere al modernismo, che quando incominci ad aborrire la Scolastica. Ricordino i modernisti e quanti li favoriscono la condanna che Pio IX inflisse alla proposizione che diceva (Sillabo, Prop. 12): "Il metodo ed i principî, con cui gli antichi Dottori scolastici trattarono la teologia, più non si confanno ai bisogni dei nostri tempi ed ai progressi della scienza". Sono poi astutissimi nello stravolgere la natura e l'efficacia della Tradizione, alfin di privarla di ogni peso e di ogni autorità. Ma starà sempre per i cattolici l'autorità del secondo Sinodo Niceno, il quale condannò "coloro che osano... secondo gli scellerati eretici, disprezzare le ecclesiastiche tradizioni ed escogitare qualsiasi novità o architettare con malizia ed astuzia di abbattere checché sia delle legittime tradizioni della Chiesa cattolica". Starà sempre la professione del quarto Sinodo Costantinopolitano: "Noi dunque professiamo di serbare e custodire le regole, che tanto dai santi famosissimi Apostoli, quanto dagli uni versali e locali Concili degli ortodossi o anche da qualunque deiloquo Padre e Maestro della Chiesa, furono date alla santa cattolica ed apostolica Chiesa". Per lo che i Romani Pontefici Pio IV e Pio IX nella professione di fede vollero aggiunto anche questo: "Io ammetto fermissimamente ed abbraccio le apostoliche ed ecclesiastiche tradizioni, e tutte le altre osservanze e costituzioni del la medesima Chiesa". Né altrimenti che della Tradizione giudicano i modernisti dei santissimi Padri della Chiesa. Con estrema temerità li spacciano, come degnissimi bensì di ogni venerazione, ma ignorantissimi di critica e di storia, scusabili solo pei tempi in che vissero. Si studiano infine e si sforzano di attenuare e svilire l'autorità dello stesso Magistero ecclesiastico, sia pervertendo ne sacrilegamente l'origine, la natura, i diritti, sia ricantando liberamente contro di essa le calunnie dei nemici. Del gregge dei modernisti sembra detto ciò che con tanto dolore scriveva il Predecessore Nostro (Motu proprio "Ut mysticam", 14 marzo 1891): "Per rendere spregiata ed odiosa la mistica Sposa di Cristo, che è la luce vera, i figli delle tenebre furon soliti di opprimerla pubblicamente di una pazza calunnia, e, stravolto il significato e la forza delle cose e delle parole, chiamarla amica di oscurità, mentitrice d'ignoranza, nemica della luce e del progresso delle scienze". Dopo ciò, Venerabili Fratelli, qual meraviglia se i cattolici, strenui difensori della Chiesa, son fatti segno dai modernisti di somma malevolenza e di livore? Non vi è specie d'ingiurie con cui non li la cerino: l'accusa più usuale è quella di chiamarli ignoranti ed ostinati. Che se la dottrina e l'efficacia di chi li confuta dà loro timore, ne incidono i nervi colla congiura del silenzio. E questa maniera di fare a riguardo dei cattolici è tanto più odiosa perché nel medesimo tempo e senza modo né misura, con continue lodi esaltano chi sta dalla loro; i libri di costoro riboccanti di novità accolgono ed ammirano con grandi applausi; quanto più alcuno si mostra audace nel distruggere l'antico, nel rigettare la tradizione e il magistero ecclesiastico, tanto più gli dàn vanto di sapiente; e per ultimo, ciò che fa inorridire ogni anima retta, se qualcuno sia condannato dalla Chiesa non solo pubblicamente e profusamente lo encomiano, ma quasi lo venerano come martire della verità.

Parte III

[...] Da tutto questo strepito di lodi e d'improperi colpiti e turbati gli animi giovanili, da una parte per non passare per ignoranti, dall'altra per parere sapienti spinti internamente dalla curiosità e dalla superbia, si dànno per vinti e passano al modernismo.

Ma qui già siamo agli artifici con che i modernisti spacciano la loro merce. Che non tentano essi mai per moltiplicare gli adepti? Nei Seminari e nelle Università cercano di ottenere cattedre da mutare insensibilmente in cattedre di pestilenza. Inculcano le loro dottrine, benché forse velatamente, predicando nelle chiese; le annunciano più aperte nei congressi: le introducono e le magnificano nei sociali istituti. Col nome proprio o di altri pubblicano libri, giornali, periodici. Uno stesso e solo scrittore fa uso talora di molti nomi, perché gli incauti sieno tratti in inganno dalla simulata moltitudine degli autori. Insomma coll'azione, colla parola, colla stampa tutto tentano, da sembrar quasi colti da frenesia. E tutto ciò con qual esito? Piangiamo pur troppo gran numero di giovani di speranze egregie e che ottimi servigi renderebbero alla Chiesa, usci ti fuori dal retto cammino. Piangiamo moltissimi, che, sebbene non giunti tant'oltre, pure, respirata un'aria corrotta, sogliono pensare, parlare, scrivere più liberamente che non si convenga a cattolici. Si contano costoro fra i laici, si contano fra i sacerdoti; e chi lo crederebbe? si contano altresì nelle stesse famiglie dei Religiosi. Trattano la Scrittura secondo le leggi dei modernisti. Scrivono storia e sotto specie di dir tutta la verità, tutto ciò che sembri gettare ombra sulla Chiesa lo pongono diligentissimamente in luce con voluttà mal repressa. Le pie tradizioni popolari, seguendo un certo apriorismo, cercano a tutta possa di cancellare. Ostentano disprezzo per sacre Reliquie raccomandate dalla loro vetustà. Insomma li punge la vana bramosia che il mondo parli di loro; il che si persuadono che non sarà, se dicono soltanto quello che sempre e da tutti fu detto. Intanto si dànno forse a credere di prestare ossequio a Dio ed alla Chiesa; ma in realtà gravissimamente li offendono, non tanto per quel che fanno, quanto per l'intenzione con cui operano e per l'aiuto che prestano utilissimo agli ardimenti dei modernisti.

A questo torrente di gravissimi errori, che di celato e alla scoperta va guadagnando, si adoperò con detti e con fatti di opporsi fortemente Leone XIII Predecessore Nostro di felice ricordanza, specialmente a riguardo delle sante Scritture. Ma i modernisti, lo vedemmo, non si lasciano spaventare facilmente: affettando il maggior rispetto ed una somma umiltà, stravolsero a loro senso le parole del Pontefice, e gli atti di Lui li fecero passare come diretti ad altri. Cosi il male è venuto pigliando forza ogni giorno più. Abbiam dunque deciso, o Venerabili Fratelli, di non tergiversare più oltre e di por mano a misure più energiche. Preghiamo perciò e scongiuriamo voi che, in negozio di tanto rilievo, non Ci lasciate minimamente desiderare la vostra vigilanza e diligenza e fortezza. E quel che chiediamo ed aspettiamo da voi, lo chiediamo altresì e lo aspettiamo dagli altri pastori delle anime, dagli educatori e maestri del giovine clero, e specialmente dai Superiori generali degli Ordini religiosi.

I.

La prima cosa adunque, per ciò che spetta agli studi, vogliamo e decisamente ordiniamo che a fondamento degli studi sacri si ponga la filosofia scolastica. Bene inteso che, "se dai Dottori scolastici furono agitate questioni troppo sottili o fu alcun che trattato con poca considerazione; se fu detta cosa che mal si affaccia con dottrine accertate dei secoli seguenti, ovvero in qualsivoglia modo non ammissibile; non è nostra intenzione che tutto ciò debba servir d'esempio da imitare anche ai di nostri" (Leone XIII, Enc. "Æterni Patris".

Ciò che conta anzi tutto è che la filosofia scolastica, che Noi ordiniamo di seguire, si debba precipuamente intendere quella di San Tommaso di Aquino: intorno alla quale tutto ciò che il Nostro Predecessore stabilì, intendiamo che rimanga in pieno vigore, e se è bisogno, lo rinnoviamo e confermiamo e severamente ordiniamo che sia da tutti osservato. Se nei Seminari si sia ciò trascurato, toccherà ai Vescovi insistere ed esigere che in avvenire si osservi. Lo stesso comandiamo ai Superiori degli Ordini religiosi. Ammoniamo poi quelli che insegnano, di ben persuadersi, che il discostarsi dall'Aquinate, specialmente in cose metafisiche, non avviene senza grave danno.

Posto così il fondamento della filosofia, si innalzi con somma diligenza l'edificio teologico. Venerabili Fratelli, promovete con ogni industria possibile lo studio della teologia, talché i chierici, uscendo dai Seminari, ne portino seco un'alta stima ed un grande amore e l'abbiano sempre carissimo. Imperocché "nella grande e molteplice copia di discipline che si porgono alla mente cupida di verità, a tutti è noto che alla sacra Teologia appartiene talmente il primo luogo, che fu antico detto dei sapienti essere dovere delle altre scienze ed arti di servirla e prestarle mano siccome ancelle" (Leone XIII, Lett. Ap. "In magna", 10 dicembre 1889). Aggiungiamo qui, sembrarCi altresì degni di lode coloro, che, salvo il rispetto alla Tradizione, ai Padri, al Magistero ecclesiastico, con saggio criterio e con norme cattoliche (ciò che non sempre da tutti si osserva) cercano di illustrare la teologia positiva, attingendo lume dalla storia di vero nome. Certamente che alla teologia positiva deve ora darsi più larga parte che pel passato: ciò nondimeno deve farsi in guisa, che nulla ne venga a perdere la teologia scolastica, e si disapprovino quali fautori del modernismo coloro che tanto innalzino la teologia positiva da sembrar quasi spregiare la Scolastica.

In quanto alle discipline profane basti richiamare quel che il Nostro Predecessore disse con molta sapienza (Allocuz. 7 marzo 1580): "Adoperatevi strenuamente nello studio delle cose naturali: nel qual genere gl'ingegnosi ritrovati e gli utili ardimenti dei nostri tempi, come di ragione sono ammirati dai presenti, cosi dai posteri avranno perpetua lode ed encomio". Questo però senza danno degli studi sacri: il che ammoniva lo stesso Nostro Predecessore con queste altre gravissime parole (Loc. cit.): "La causa di siffatti errori, chi la ricerchi diligentemente, sta principalmente in ciò che di questi nostri tempi, quanto più fervono gli studi delle scienze naturali, tanto più son venute meno le discipline più severe e più alte: alcune di queste infatti sono quasi poste in dimenticanza; alcune sono trattate stancamente e con leggerezza, e, ciò che è indegno, perduto lo splendore della primitiva dignità, sono deturpate da prave sentenze e da enormi errori". Con questa legge ordiniamo che si regolino nei Seminari gli studi delle scienze naturali.

II.

A questi ordinamenti tanto Nostri che del Nostro Antecessore fa mestieri volgere l'attenzione ognora che si tratti di scegliere i moderatori e maestri così dei Seminari come delle Università cattoliche. Chiunque in alcun modo sia infetto di modernismo, senza riguardi di sorta si tenga lontano dall'ufficio cosi di reggere e cosi d'insegnare: se già si trovi con tale incarico, ne sia rimosso. Parimente si faccia con chiunque o in segreto o apertamente favorisce il modernismo, sia lodando modernisti, sia attenuando la loro colpa, sia criticando la Scolastica, i Padri, il Magistero ecclesiastico, sia ricusando obbedienza alla potestà ecclesiastica, da qualunque persona essa si eserciti; e similmente con chi in materia storica, archeologica e biblica si mostri amante di novità; e finalmente, con quelli altresì che non si curano degli studi sacri o paiono a questi anteporre i profani. In questa parte, o Venerabili Fratelli, e specialmente nella scelta dei maestri, non sarà mai eccessiva la vostra attenzione e fermezza; essendoché sull'esempio dei maestri si formano per lo più i discepoli. Poggiati adunque sul dovere di coscienza, procedete in questa materia con prudenza sì ma con fortezza.

Con non minore vigilanza e severità dovrete esaminare e scegliere chi debba essere ammesso al sacerdozio. Lungi, lungi dal clero l'amore di novità: Dio non vede di buon occhio gli animi superbi e contumaci! A niuno in avvenire si conceda la laurea dì teologia o di diritto canonico, che non abbia prima compito per intero il corso stabilito di filosofia scolastica. Se tale laurea ciò non ostante venisse concessa, sia nulla. Le ordinazioni che la Sacra Congregazione dei Vescovi e Regolari emanò nell'anno 1896 pei chierici d'Italia dell'uno e dell'altro clero circa il frequentare le Università, stabiliamo che d'ora innanzi rimangano estese a tutte le nazioni. I chierici e sacerdoti iscritti ad un Istituto o ad una Università cattolica non potranno seguire nelle Università civili quei corsi, di cui vi siano cattedre negli Istituti cattolici ai quali essi appartengono. Se in alcun luogo si è ciò permesso per il passato, ordiniamo che più non si conceda nell'avvenire. I Vescovi che formano il Consiglio direttivo di siffatti cattolici Istituti o cattoliche Università veglino con ogni cura perché questi Nostri comandi vi si osservino costantemente.

III.

È parimente officio dei Vescovi impedire che gli scritti infetti di modernismo o ad esso favorevoli si leggano se sono già pubblicati, o, se non sono, proibire che si pubblichino. Qualsivoglia libro o giornale o periodico di tal genere non si dovrà mai permettere o agli alunni dei Seminari o agli uditori delle Università cattoliche: il danno che ne proverrebbe non sarebbe minore di quello delle letture immorali; sarebbe anzi peggiore, perché ne andrebbe viziata la radice stessa del vivere cristiano. Né altrimenti si dovrà giudicare degli scritti di taluni cattolici, uomini del resto di non malvagie intenzioni, ma che digiuni di studi teologici e imbevuti di filosofia moderna, cercano di accordare questa con la fede e di farla servire, come essi dicono, ai vantaggi della fede stessa. Il nome e la buona fama degli autori fa si che tali libri sieno letti senza verun timore e sono quindi più pericolosi per trarre a poco a poco al modernismo.

Per dar poi, o Venerabili Fratelli, disposizioni più generali in sì grave materia, se nelle vostre diocesi corrono libri perniciosi, adoperatevi con fortezza a sbandirli, facendo anche uso di solenni condanne. Benché questa Sede Apostolica ponga ogni opera nel togliere di mezzo siffatti scritti, tanto oggimai ne è cresciuto il numero, che a condannarli tutti non bastano le forze. Quindi accade che la medicina giunga talora troppo tardi, quando cioè pel troppo attendere il male ha già preso piede. Vogliamo adunque che i Vescovi, deposto ogni timore, messa da parte la prudenza della carne, disprezzando il gridio dei malvagi, soavemente, sì, ma con costanza, adempiano ciascuno le sue parti; memori di quanto prescriveva Leone XIII nella Costituzione Apostolica "Officiorum": "Gli Ordinari, anche come Delegati della Sede Apostolica, si adoperino di proscrivere e di togliere dalle mani dei fedeli i libri o altri scritti nocivi stampati o diffusi nelle proprie diocesi". Con queste parole si concede, è vero, un diritto: ma s'impone in pari tempo un dovere. Né stimi veruno di avere adempiuto cotal dovere, se deferisca a Noi l'uno o l'altro libro mentre altri moltissimi si lasciano divulgare e diffondere. Né in ciò vi deve rattenere il sapere che l'autore di qualche libro abbia altrove ottenuto l'Irnprimatur; sì perché tal concessione può essere simulata, sì perché può essere stata fatta per trascuratezza o per troppa benignità e per troppa fiducia nel l'autore, il quale ultimo caso può talora avverarsi negli Ordini religiosi. Aggiungasi che, come non ogni cibo si confà a tutti egual mente, cosi un libro che in un luogo sarà indifferente, in un altro, per le circostanze, può tornare nocivo. Se pertanto il Vescovo, udito il parere di persone prudenti, stimerà di dover condannare nella sua diocesi anche qualcuno di siffatti libri, gliene diamo ampia facoltà, anzi glielo rechiamo a dovere. Intendiamo bensì che si serbino in tal fatto i riguardi convenienti, bastando forse che la proibizione si restringa talora soltanto al clero; ma eziandio in tal caso sarà obbligo dei librai cattolici di non porre in vendita i libri condannati dal Vescovo. E poiché Ci cade il discorso, vigilino i Vescovi che i librai per bramosia di lucro non spaccino merce malsana: il certo è che nei cataloghi di taluni di costoro si annunziano di frequente e con lode non piccola i libri dei modernisti. Se essi ricusano di obbedire, non dubitino i Vescovi di privarli del titolo di librai cattolici; similmente e con più ragione, se avranno quello di vescovili; che se avessero titolo di pontifici, si deferiscano alla Sede Apostolica. A tutti finalmente ricordiamo l'articolo XXVI della mentovata Costituzione Apostolica "Officiorum": "Tutti coloro che abbiano ottenuta facoltà apostolica di leggere e ritenere libri proibiti, non sono perciò autorizzati a leggere libri o giornali proscritti dagli Ordinari locali, se pure nell'indulto apostolico non sia data espressa facoltà di leggere e ritenere libri condannati da chicchessia".

IV.

Ma non basta impedire la lettura o la vendita dei libri cattivi; fa d'uopo impedirne altresì la stampa. Quindi i Vescovi non concedano la facoltà di stampa se non con la massima severità. E poiché è grande il numero delle pubblicazioni, che, a seconda della Costituzione "Officiorum", esigono l'autorizzazione dell'Ordinario, in talune diocesi si sogliono determinare in numero conveniente censori di officio per l'esame degli scritti. Somma lode noi diamo a siffatta istituzione di censura; e non solo esortiamo, ma ordiniamo che si estenda a tutte le diocesi. In tutte adunque le Curie episcopali si stabiliscano Censori per la revisione degli scritti da pubblicarsi; si scelgano questi dall'uno e dall'altro clero, uomini di età, di scienza e di prudenza e che nel giudicare sappiano tenere il giusto mezzo. Spetterà ad essi l'esame di tutto quello che, secondo gli articoli XLI e XLII della detta Costituzione, ha bisogno di permesso per essere pubblicato. Il Censore darà per iscritto la sua sentenza. Se sarà favorevole, il Vescovo concederà la facoltà di stampa colla parola Imprimatur, la quale però sarà preceduta dal Nihil obstat e dal nome del Censore. Anche nella Curia romana non altrimenti che nelle altre, si stabiliranno censori di ufficio. L'elezione dei medesimi, dopo interpellato il Cardinale Vicario e coll'annuenza ed approvazione dello stesso Sommo Pontefice, spetterà al Maestro del sacro Palazzo Apostolico. A questo pure toccherà determinare per ogni singolo scritto il Censore che lo esamini. La facoltà di stampa sarà concessa dallo stesso Maestro ed insieme dal Cardinale Vicario o dal suo Vicegerente, premesso però, come sopra si disse, il Nulla osta col nome del Censore. Solo in circo stanze straordinarie e rarissimamente si potrà, a prudente arbitrio del Vescovo, omettere la menzione del Censore. Agli autori non si farà mai conoscere il nome del Censore, prima che questi abbia dato giudizio favorevole: affinché il Censore stesso non abbia a patir molestia o mentre esamina lo scritto o in caso che ne disapprovi la stampa. Mai non si sceglieranno Censori dagli Ordini religiosi, senza prima averne secretamente il parere del Superiore provinciale, o, se si tratta di Roma, del Generale: questi poi dovranno secondo coscienza attestare dei costumi, della scienza e della integrità della dottrina dell'eligendo. Ammoniamo i Superiori religiosi del gravissimo dovere che essi hanno di mai non permettere che alcun che si pubblici dai loro sudditi senza la previa facoltà loro e dell'Ordinario diocesano. Per ultimo affermiamo e dichiariamo che il titolo di Censore, di cui taluno sia insignito, non ha verun valore né mai si potrà arrecare come argomento per dar credito alle private opinioni del medesimo.

Detto ciò generalmente, nominatamente ordiniamo una osservanza più diligente di quanto si prescrive nell'articolo XLII della citata Costituzione "Officiorum", cioè: "È vietato ai sacerdoti secolari, senza previo permesso dell'Ordinario, prendere la direzione di giornali o di periodici". Del quale permesso, dopo ammonitone, sarà privato chiunque ne facesse mal uso. Circa quei sacerdoti, che hanno titoli di corrispondenti o collaboratori, poiché avviene non raramente che pubblichino, nei giornali o periodici, scritti infetti di modernismo, vedano i Vescovi che ciò non avvenga; e se avvenisse, ammoniscano e diano proibizione di scrivere. Lo stesso con ogni autorità ammoniamo che facciano i Superiori degli Ordini religiosi: i quali se si mostrassero in ciò trascurati, provvedano i Vescovi, con autorità delegata dal Sommo Pontefice. I giornali e periodici pubblicati dai cattolici abbiano, per quanto sia possibile, un Censore determinato. Sara obbligo di questo leggere opportunamente i singoli fogli o fascicoli, dopo già pubblicati: se cosa alcuna troverà di pericoloso, ordinerà che sia corretto quanto prima. Lo stesso diritto avrà il Vescovo, anche in caso che il Censore non abbia reclamato.

V.

Ricordammo già sopra i congressi e i pubblici convegni come quelli nei quali i modernisti si adoprano di propalare e propagare le loro opinioni. I Vescovi non permetteranno più in avvenire, se non in casi rarissimi, i congressi di sacerdoti. Se avverrà che li permettano, lo faranno solo a questa condizione: che non vi si trattino cose di pertinenza dei Vescovi o della Sede Apostolica, non vi si facciano proposte o postulati che implichino usurpazione della sacra potestà, non vi si faccia affatto menzione di quanto sa di modernismo, di presbiterianismo, di laicismo. A tali convegni, che dovranno solo permettersi volta per volta e per iscritto o in tempo opportuno, non potrà intervenire sacerdote alcuno di altra diocesi, se non porti commendatizie del proprio Vescovo. A tutti i sacerdoti poi non passi mai di mente ciò che Leone XIII raccomandava con parole gravissime (Lett. Enc. "Nobilissima Gallorum", 10 febbraio 1884): "Sia intangibile presso i sacerdoti l'autorità dei propri Vescovi; si persuadano che il ministero sacerdotale, se non si eserciti sotto la direzione del Vescovo, non sarà né santo, né molto utile, né rispettabile".

VI.

Ma che gioveranno, o Venerabili Fratelli, i Nostri comandi e le Nostre prescrizioni, se non si osservino a dovere e con fermezza? Perché questo si ottenga, Ci è parso espediente estendere a tutte le diocesi ciò che i Vescovi dell'Umbria (Atti del Congr. dei Vescovi dell'Umbria, nov. 1849, tit. II, art. 6), molti anni or sono, con savissimo consiglio stabilirono per le loro: "Ad estirpare - così essi - gli errori già diffusi e ad impedire che più oltre si diffondano o che esistano tuttavia maestri di empietà, pei quali si perpetuino i perniciosi effetti originati da tale diffusione, il sacro Congresso, seguendo gli esempi di San Carlo Borromeo, stabilisce che in ogni diocesi si istituisca un Consiglio di uomini commendevoli dei due cleri, a cui spetti il vigilare se e con quali arti i nuovi errori si dilatino o si propaghino, e farne avvertito il Vescovo perché di concorde avviso prenda rimedi con cui il male si estingua fin dal principio e non si spanda di vantaggio a rovina delle anime, e, ciò che è peggio, si afforzi e cresca". Stabiliamo adunque che un siffatto Consiglio, che si chiamerà di vigilanza, si istituisca quanto prima in tutte le diocesi. I membri di esso si sceglieranno colle stesse norme già prescritte pei Censori dei libri. Ogni due mesi, in un giorno determinato, si raccoglierà in presenza del Vescovo: le cose trattate o stabilite saranno sottoposte a legge di secreto. I doveri degli appartenenti al Consiglio saranno i seguenti: Scrutino con attenzione gl'indizi di modernismo tanto nei libri che nell'insegnamento; con prudenza, prontezza ed efficacia stabiliscano quanto è d'uopo per la incolumità del clero e della gioventù. Combattano le novità di parole, e rammentino gli ammonimenti di Leone XIII (S. C. AA. EE. SS., 27 gennaio 1901): "Non si potrebbe approvare nelle pubblicazioni cattoliche un linguaggio che ispirandosi a malsana novità sembrasse deridere la pietà dei fedeli ed accennasse a nuovi orientamenti della vita cristiana, a nuove direzioni della Chiesa, a nuove ispirazioni dell'anima moderna, a nuova vocazione del clero, a nuova civiltà cristiana". Tutto questo non si sopporti così nei libri come dalle cattedre. Non trascurino i libri nei quali si tratti o delle pie tradizioni di ciascun luogo o delle sacre Reliquie. Non per mettano che tali questioni si agitino nei giornali o in periodici destinati a fomentare la pietà, né con espressioni che sappiano di ludibrio o di disprezzo né con affermazioni risolute specialmente, come il più delle volte accade, quando ciò che si afferma o non passa i termini della probabilità o si basa su pregiudicate opinioni. Circa le sacre Reliquie si abbiano queste norme. Se i Ve scovi i quali sono soli giudici in questa materia, conoscano con certezza che una reliquia sia falsa, la toglieranno senz'altro dal culto dei fedeli... Se le autentiche di una Reliquia qualsiasi, o pei civili rivolgimenti o in altra guisa siensi smarrite, non si esponga alla pubblica venerazione, se prima il Vescovo non ne abbia fatta ricognizione. L'argomento di prescrizione o di fondata presunzione allora solo avrà valore quando il culto sia commendevole per antichità: il che risponde al decreto emanato nel 1896 dalla Congregazione delle Indulgenze e sacre Reliquie, in questi termini: "Le Reliquie antiche sono da conservarsi nella venerazione che finora ebbero, se pure in casi particolari non si abbiano argomenti certi che sono false o supposte". Nel portar poi giudizio delle pie tradizioni si tenga sempre presente, che la Chiesa in questa materia fa uso di tanta prudenza, da non permettere che tali tradizioni si raccontino nei libri, se non con grandi cautele e premessa la dichiarazione prescritta da Urbano VIII: il che pure adempiuto, non perciò ammette la verità del fatto, ma solo non proibisce che si creda, ove a farlo non manchino argomenti umani. Così appunto la sacra Congregazione dei Riti dichiarava fin da trent'anni addietro (Decreto 2 maggio 1877): "Siffatte apparizioni o rivelazioni non furono né approvate né condannate dalla Sede Apostolica, ma solo passate come da piamente credersi con sola fede umana, conforme alla tradizione di cui godono, confermata pure da idonei testimoni e documenti". Niun timore può ammettere chi a questa regola si tenga. Imperocché il culto di qualsivoglia apparizione, in quanto riguarda il fatto stesso e dicesi relativo, ha sempre implicita la condizione della verità del fatto: in quanto poi è assoluto, si fonda sempre nella verità, giacché si dirige alle persone stesse dei santi che si onorano. Lo stesso vale delle Reliquie. Commettiamo infine al Consiglio di vigilanza, di tener d'occhio assiduamente e diligentemente gl'istituti sociali come pure gli scritti di questioni sociali affinché nulla vi si celi di modernismo, ma ottemperino alle prescrizioni dei Romani Pontefici.

VII.

Le cose fin qui stabilite affinché non vadano in dimenticanza, vogliamo ed ordiniamo che i Vescovi di ciascuna diocesi, trascorso un anno dalla pubblicazione delle presenti Lettere, e poscia ogni triennio, con diligente e giurata esposizione riferiscano alla Sede Apostolica intorno a quanto si prescrive in esse, e sulle dottrine che corrono in mezzo al clero e soprattutto nei Seminari ed altri istituti cattolici, non eccettuati quelli che pur sono esenti dall'autorità dell'Ordinario. Lo stesso imponiamo ai Superiori generali degli Ordini religiosi a riguardo dei loro dipendenti.

Queste cose, o Venerabili Fratelli, abbiam creduto di scrivervi per salute di ogni credente. I nemici della Chiesa certamente ne abuseranno per ribadire la vecchia accusa, per cui siamo fatti passare come avversi alla scienza ed al progresso della civiltà. A tali accuse, che trovano smentita in ogni pagina della storia della Chiesa, alfine di opporre alcun che di nuovo, è Nostro consiglio di accordare ogni favore e protezione ad un nuovo Istituto, da cui, coll'aiuto di quanti fra i cattolici sono più insigni per fama di sapienza, ogni fatta di scienza e di erudizione, sotto la guida ed il magistero della cattolica verità, sia promossa. Assecondi Iddio i Nostri disegni e Ci prestino aiuto quanti di vero amore amano la Chiesa di Gesù Cristo. Ma di ciò in altra opportunità. A Voi intanto, o Venerabili Fratelli, nella cui opera e zelo sommamente confidiamo, imploriamo di tutto cuore la pienezza dei lumi Celesti, affinché in tanto periglio delle anime per gli errori che da ogni banda s'infiltrano, scorgiate quel che far vi convenga; e con ogni ardore e fortezza lo eseguiate. Vi assista colla Sua virtù Gesù Cristo autore e consumatore della nostra fede; vi assista coll'intercessione e coll'aiuto la Vergine Immacolata profligatrice di tutte le eresie.

E Noi, come pegno della Nostra carità e delle divine consolazioni fra tante contrarietà, impartiamo con ogni affetto a voi, al vostro clero ed ai vostri fedeli l'Apostolica Benedizione.

Dato a Roma, presso San Pietro, il giorno 8 Settembre 1907, nell'anno V del Nostro Pontificato.

PIO PP. X