giovedì 30 giugno 2011

Chi è il professore di teologia. "Parlare di Dio poiché con Dio si parla" di Maximilian Heim



Chi è il professore di teologia

Parlare di Dio poiché con Dio si parla


Pubblichiamo il discorso di ringraziamento pronunciato nel corso della consegna del «Premio Ratzinger».

di Maximilian Heim

Essendo il più giovane dei premiati, mi sia consentito di rivolgere a lei, Santo Padre, a lei, Eminenza, e a tutta l’assemblea, le mie parole di ringraziamento. Confesso che in confronto all’opera teologica degli altri premiati — è con sincera umiltà che prendo la parola. L’espressione tratta dalla Regola di san Benedetto, a lei Santo Padre molto cara, mi conforta e mi dà coraggio: Quia saepe iuniori dominus revelat quod melius est.

In qualità di professore di Teologia, di vescovo e ora come sommo pastore della Chiesa universale, lei ha, in modi diversi, influenzato, formato e dato ai tre premiati una speciale impronta.

Vorrei ora, qui di seguito, aggiungere alcuni pensieri sul professore di teologia.

Una specificità della fede cristiana che emerge è il suo elemento «intellettuale». Già nel mandato di Gesù per la missione si legge euntes ergo docete omnes gentes. Il Risorto ci manda nel mondo per insegnare alle genti: Egli vuol essere riconosciuto — Egli vuol essere conosciuto e amato.

Questo non è per nulla ovvio. Noi possiamo entrare in contatto con Dio, che è la Verità, in modo personale, del tutto personale. Tuttavia, bisogna sempre ricordare che l’esigenza di verità della fede non si lascia semplicemente confinare nell’ambito soggettivo.

Santo Padre, lei è — per alcuni di noi già da sessant’anni — un maestro che forma i propri allievi: qualcuno che, con occhio vigile e profonda intuizione, è attento al nostro tempo e partecipa ai suoi travagli e che proprio per questo resiste alle soluzioni troppo semplicistiche dello spirito del tempo. Anche lei si è formato sui Padri della Chiesa e sui grandi pensatori della Scolastica, in particolare su Agostino, Bonaventura e su teologi contemporanei, come Gottlieb Söhngen.

Per Agostino, come per Bonaventura, un maestro umano è sì capace di indirizzare lo sguardo dell’allievo, ma il vero insegnamento proviene dalla Verità stessa. Continuando nei termini dell’immagine: «l’insegnante esterno» apre le imposte affinché la luce possa entrare. In tal modo egli risveglia il coraggio della verità, verità che si manifesta attraverso la funzione dell’insegnante.

L’insegnante, nel vero senso della parola, è la Verità stessa, Verità che, in ultima analisi, è Cristo. Così anche all’allievo è possibile vedere «Colui» che l’insegnante vede. La responsabilità dell’insegnante sta nel fatto che egli stesso deve essere uno che ama la verità e cerca di approfondirla e, in secondo luogo, desidera essere formato dalla verità stessa. Egli è consapevole di essere lui stesso uno che riceve dalla verità.

Un insegnante teologo, perciò, vuole condurre l’allievo all’incontro con Dio. E dal momento che egli stesso è circondato da questa vicinanza, insegna con gioia, gioia che nasce anche dall’amore verso gli uomini che gli sono stati affidati. Questo amore e questa gioia — secondo Agostino — lo inducono a restare fedele al proprio servizio nonostante qualche delusione proveniente dal mondo esterno o da qualche travaglio interiore.

Nell’insegnamento e nella predicazione si riuniscono, in modo particolarmente speciale, l’amore di Dio e del prossimo, l’amicizia con Cristo e l’imitazione di Cristo, la contemplazione e l’apostolato, dal momento che l’insegnamento, fa notare Tommaso d’Aquino, ha in sé due oggetti: doceo aliquem aliquid. Bisogna amare Dio, del quale si parla, e amare gli uomini, ai quali ci si rivolge.

Il secondo grande maestro ad aver dato un impronta a lei, Santo Padre, forse proprio nella concezione della teologia, è Bonaventura. In lui il metodo scientifico e l’ardore spirituale, lo sforzo per la comprensione e lo zelo per le anime, raggiungono una particolare simbiosi. Il teologo, secondo Bonaventura, ha il compito, meraviglioso ma di alta responsabilità, di mettere a disposizione della Parola di Dio la propria forza espressiva — cioè di impegnarsi per l’adeguatezza, la chiarezza e la bellezza. Santo Padre, in questo, Lei, come teologo, è per noi un modello esemplare. Lei riesce a legare sempre, in modo nuovo, la chiarezza della lingua alla bellezza dell’espressione, regalando così al lettore e all’ascoltatore della parola, la gioia di Dio e della sua Chiesa. Al tempo stesso, come teologo della Chiesa, Lei è sempre attento a difendere la «semplice» fede dei piccoli (cfr. Matteo , 11, 25), resistendo con franchezza profetica ai dettami dello spirito del tempo.

Bonaventura, che, a suo tempo, difese la fede apostolica della Chiesa, ha inteso l’istituzione e l’aspirazione alla santità non in posizioni antitetiche. Come teologo, «che pensa e prega», egli ha percepito il proprio ministero proprio in questo modo. Nel suo approccio teologico, la teologia è intesa come scientia secundum pietatem, «come una scienza, che è orientata alla perfezione di tutto l’uomo nella cognizione, volontà e disposizione d’animo».

La teologia, nello studio e nella scienza, dovrebbe rafforzare nei credenti la fede degli altri e condurre al gioioso approfondimento del proprio rapporto con Dio. La teologia, così intesa, è una via verso la santità. Si tratta del sursum corda, del movimento verso Dio. Proprio in questo sta un compito particolare e duraturo della sua missione.

Ognuno di noi sa, per esperienza, che il relatore della tesi di dottorato è una figura che dà un’impronta a ogni giovane studioso. Per questo motivo, non si può non menzionare qui il teologo e filosofo Gottlieb Söhngen, la cui grandezza sta nell’ampiezza di vasta portata della sua visione, come Joseph Ratzinger si espresse in occasione del requiem del suo maestro.

Nella vita di Söhngen è chiaro che la fede non deve temere le domande da parte delle scienze, se la fede del teologo che dibatte è una fede determinata. Una fede che, per la propria esperienza con Dio, sa che il Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe si è manifestato in Cristo, una fede che presuppone un decisivo atto di fede.

A mio parere, qui sta la grande chance. Come teologi possiamo cercare senza timore la verità, dal momento che il teologo non forma la verità, bensì è la verità che forma il teologo. Non potremmo quindi cercare la verità se noi stessi non l’avessimo già incontrata. Da questo incontro noi possiamo nutrire speranza e avanzare nella fede. Per questa impresa è necessario il sostegno dei grandi teologi della storia della Chiesa, soprattutto dei Padri della Chiesa e dei Dottori della Chiesa. I Padri della Chiesa sono, «veri astri che brillano da lontano». Si nutrono della Sacra Scrittura e sono interiormente vicini a Cristo, e sono dottori della Chiesa unita. Un teologo, studiando e insegnando, dovrebbe lasciarsi guidare dal ad fontes. Dobbiamo lasciarci istruire dai santi, dagli uomini che sanno che Dio solo conta, da coloro che sono esperti della tradizione e che sono ancorati alla parola di Dio.

Questa forma di teologia «esistenziale» l’abbiamo trovata in lei, Santo Padre. In lei «teologia e vita ecclesiastica si sono fuse in un tutto unico in maniera straordinaria». Lei realizza ciò che Tommaso d’Aquino, nel suo commento alla Lettera agli Efesini, osserva in modo chiaro e conciso: «L’apostolo parla di “Pa s t o r i ”, cioè di coloro a cui sta a cuore la cura del gregge del Signore»; e aggiunge subito: «E di “dottori” per mostrare che uno dei compiti essenziali è l’insegnamento (proprium officium pastorum ecclesiae est docere) della fede e dei costumi».

Vogliamo intendere la teologia come «il parlare di Dio» che proviene dal vivo incontro con Colui di cui ci è lecito parlare, incontro che ci viene regalato nella Chiesa; e intenderla come annuncio che riconduce, a sua volta, a un incontro vivo, alla preghiera.

Da teologi, vogliamo essere, insieme a lei, cooperatores veritatis, e vogliamo affrontare, con umiltà e fiducia, e senza timore, la disputa scientifica dell’universitas scientiarum, intendendo fides et ratio non come contrapposte. Con la ragione cerchiamo Dio che è la verità, il fondamento e il fine dell’esistenza umana; e facendolo «nel contesto della tradizione della fede cristiana, è stato incontestato nell’insieme dell’università».

(©L'Osservatore Romano 1 luglio 2011)

Benedetto XVI al Prof. Giovanni Maria Vian, in occasione del 150° anniversario dalla fondazione de "L'Osservatore Romano" (24 giugno 2011)



LETTERA DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI
AL PROF. GIOVANNI MARIA VIAN,
IN OCCASIONE DEL 150° ANNIVERSARIO DALLA FONDAZIONE


All’Illustrissimo Signore
Prof. GIOVANNI MARIA VIAN
Direttore de “L’Osservatore Romano”

Per un giornale quotidiano centocinquant’anni di vita sono un periodo davvero considerevole, un lungo e significativo cammino ricco di gioie, di difficoltà, di impegno, di soddisfazioni, di grazia. Pertanto, questo importante anniversario de “L’Osservatore Romano” – il cui primo numero uscì con la data del 1° luglio 1861 – è innanzitutto motivo di ringraziamento a Dio pro universis beneficiis suis: per tutto quello, cioè, che la sua Provvidenza ha disposto in questo secolo e mezzo, durante il quale il mondo è cambiato profondamente, e per quanto dispone oggi, quando i cambiamenti sono continui e sempre più rapidi, soprattutto nell’ambito della comunicazione e dell’informazione.

Allo stesso tempo, la presente lieta ricorrenza offre anche l’occasione per alcune riflessioni sulla storia e sul ruolo di tale quotidiano, chiamato abitualmente “il giornale del Papa”. Siamo invitati, quindi, – come disse Pio XI, di v.m., nel 1936, esattamente settantacinque anni fa –, a dare “una occhiata al cammino percorso e darne un’altra al cammino che resta da percorrere”, sottolineando soprattutto la singolarità e la responsabilità di un quotidiano che da un secolo e mezzo fa conoscere il Magistero dei Papi ed è uno degli strumenti privilegiati a servizio della Santa Sede e della Chiesa.

L’Osservatore Romano” ebbe origine in un contesto difficile e decisivo per il Papato, con la consapevolezza e la volontà di difendere e sostenere le ragioni della Sede Apostolica, che sembrava essere messa in pericolo da forze ostili. Fondato per iniziativa privata con l’appoggio del Governo pontificio, questo foglio serale si definì “politico religioso”, proponendosi come obiettivo la difesa del principio di giustizia, nella convinzione, fondata sulla parola di Cristo, che il male non avrà l’ultima parola. Tale obiettivo e tale convinzione furono espressi dai due celebri motti latini – il primo tratto dal diritto romano e il secondo dal testo evangelico – che, sin dal primo numero del 1862, si leggono sotto la sua testata: Unicuique suum e, soprattutto, Non praevalebunt (Mt 16,18)

Nel 1870 la fine del potere temporale – avvertita poi come provvidenziale nonostante soprusi e atti ingiusti subiti dal Papato – non travolse “L’Osservatore Romano”, né rese inutili la sua presenza e la sua funzione. Anzi, un quindicennio più tardi, la Santa Sede decise di acquisirne la proprietà. Il controllo diretto del giornale da parte dell’autorità pontificia ne aumentò con il tempo prestigio e autorevolezza, che crebbero ulteriormente in seguito, soprattutto per la linea di imparzialità e di coraggio mantenuta di fronte alle tragedie e agli orrori che segnarono la prima metà del Novecento, eco “fedele di un istituto internazionale e supernazionale”, come scrisse il Cardinale Gasparri nel 1922.

Si susseguirono allora avvenimenti tragici: il primo conflitto mondiale, che devastò l’Europa cambiandone il volto; l’affermarsi dei totalitarismi, con ideologie nefaste che hanno negato la verità e oppresso l’uomo; infine, gli orrori della shoah e della seconda guerra mondiale. In quegli anni tremendi, e poi durante il periodo della guerra fredda e della persecuzione anticristiana attuata dai regimi comunisti in molti Paesi, nonostante la ristrettezza dei mezzi e delle forze, il giornale della Santa Sede seppe informare con onestà e libertà, sostenendo l’opera coraggiosa di Benedetto XV, di Pio XI e di Pio XII in difesa della verità e della giustizia, unico fondamento della pace.

Dal secondo conflitto mondiale “L’Osservatore Romano” poté così uscire a testa alta, come subito riconobbero autorevoli voci laiche e come nel 1961, in occasione del centenario del quotidiano, scrisse il Cardinale Montini, che due anni dopo sarebbe diventato Papa con il nome di Paolo VI: “Avvenne come quando in una sala si spengono tutte le luci, e ne rimane accesa una sola: tutti gli sguardi si dirigono verso quella rimasta accesa; e per fortuna questa era la luce vaticana, la luce tranquilla e fiammante, alimentata da quella apostolica di Pietro. «L’Osservatore» apparve allora quello che, in sostanza, è sempre: un faro orientatore”.

Nella seconda metà del Novecento il giornale ha iniziato a circolare in tutto il mondo attraverso una corona di edizioni periodiche in diverse lingue, stampate non più soltanto in Vaticano: attualmente otto, tra cui, dal 2008, anche la versione in malayalam pubblicata in India, la prima interamente in caratteri non latini. A partire dallo stesso anno, in una stagione difficile per i media tradizionali, la diffusione è sostenuta da abbinamenti con altre testate in Spagna, in Italia, in Portogallo, e ora anche da una presenza in internet sempre più efficace.

Quotidiano “singolarissimo” per le sue caratteristiche uniche, “L’Osservatore Romano”, in questo secolo e mezzo, ha innanzitutto dato conto del servizio reso alla verità e alla comunione cattolica da parte della Sede del Successore di Pietro. Il quotidiano ha così riportato puntualmente gli interventi pontifici, ha seguito i due Concili celebrati in Vaticano e le molte Assemblee sinodali, espressione della vitalità e della ricchezza di doni della Chiesa, ma non ha dimenticato mai di evidenziare anche la presenza, l’opera e la situazione delle comunità cattoliche nel mondo, che vivono talvolta in condizioni drammatiche.

In questo tempo – segnato spesso dalla mancanza di punti di riferimento e dalla rimozione di Dio dall’orizzonte di molte società, anche di antica tradizione cristiana – il quotidiano della Santa Sede si presenta come un “giornale di idee”, come un organo di formazione e non solo di informazione. Perciò deve sapere mantenere fedelmente il compito svolto in questo secolo e mezzo, con attenzione anche all’Oriente cristiano, all’irreversibile impegno ecumenico delle diverse Chiese e Comunità ecclesiali, alla ricerca costante di amicizia e collaborazione con l’Ebraismo e con le altre religioni, al dibattito e al confronto culturale, alla voce delle donne, ai temi bioetici che pongono questioni per tutti decisive. Continuando l’apertura a nuove firme – tra cui quelle di un numero crescente di collaboratrici – e accentuando la dimensione e il respiro internazionali presenti sin dalle origini del quotidiano, dopo centocinquant’anni di una storia di cui può andare orgoglioso, “L’Osservatore Romano” sa così esprimere la cordiale amicizia della Santa Sede per l’umanità del nostro tempo, in difesa della persona umana creata a immagine e somiglianza di Dio e redenta da Cristo.

Per tutto questo, desidero rivolgere il mio pensiero riconoscente a tutti coloro che, dal 1861 fino ad oggi, hanno lavorato al giornale della Santa Sede: ai Direttori, ai Redattori e a tutto il Personale. A Lei, Signor Direttore, e a quanti cooperano attualmente in questo entusiasmante, impegnativo e benemerito servizio alla verità e alla giustizia, come pure ai benefattori e ai sostenitori, assicuro la mia costante vicinanza spirituale e invio di cuore una speciale Benedizione Apostolica.

Dal Vaticano, 24 giugno 2011

BENEDICTUS PP. XVI

© Copyright 2011 - Libreria Editrice Vaticana

Il «Premio Ratzinger» a Don Olegario González de Cardedal "Giorno e notte come un fabbro nella sua fucina"



Giorno e notte
come un fabbro nella sua fucina


di Marta Lago

Nel ricevere il «Premio Ratzinger» i ricordi si affollano, con precisione e ordine, nella mente del professor Olegario González de Cardedal (che preferisce essere chiamato affettuosamente don Olegario). Non nasconde l’emozione e descrive il suo lavoro teologico, e pedagogico, ricorrendo all’immagine del fabbro impegnato giorno e notte nella sua fucina a forgiare il metallo sull’incudine. Don Olegario ha portato la teologia in luoghi dove potesse avere una degna collocazione — televisione, stampa nazionale, Real Accademia Spagnola delle Scienze morali e politiche e, ovviamente, prima fra tutti l’università. Castigliano nato ad Ávila, è orgoglioso delle sue origini rurali, un mondo aperto — dice conversando con «L’Osservatore Romano» — di alta montagna e colline. Ha forgiato una cinquantina di termini per poter dire in lingua spagnola, precisa e moderna, quanto cesellato dalla più illustre teologia e quanto hanno detto le altre teologie europee. Secondo la sua opinione, con il «Premio Ratzinger», si è anche nobilitato il castigliano. Ecco perché dedica il premio alla Spagna e «a quella generazione di società, di Chiesa e di teologia che fecero del concilio Vaticano II il punto di partenza e la fonte nutritiva per una nuova Chiesa e per una società libera, moderna e riconciliata».

Con che spirito riceve il «Premio Ratzinger»?

Credo che sia il riconoscimento di una forma di vita dedicata pienamente alla teologia nella Chiesa e nella cultura pubblica. Nella mia veste di sacerdote, non ho fatto altro che essere teologo, nella complessità di ciò che la teologia rappresenta nell’università, nella Chiesa e nella società.

Si potrebbe quasi dire che il premio non è un punto di arrivo ma di partenza. Una più ampia chiamata all’impegno nel lavoro teologico.

Il senso del premio è valorizzare e favorire questo tipo di servizio alla Chiesa. Pertanto, nel momento in cui si conferisce un elogio e un premio, si assegna una responsabilità e un incitamento.

Come si concretizza questa sollecitazione? Che passi deve compiere la teologia nella realtà contemporanea?

Primo, l’attenzione rigorosa verso le istituzioni in cui si pratica questa scienza; secondo, la dedizione personale — a fondo perduto — a esse; terzo, una sensibilità storica di dialogo e di comunicazione con il pensiero contemporaneo: Vangelo-illuminismo; fede-cultura; speranza cristiana - speranze storiche.

La definiscono un grande teologo e un uomo di cultura, punto di riferimento in Spagna. Come si articola questo dialogo che lei armonizza nella sua persona?

Ciò che sembra così peculiare è sempre stato alla base della migliore teologia. Sant’Agostino pensa attraverso la cultura retorica latina e il pensiero greco; san Tommaso lo fa attraverso la migliore tradizione spirituale e teologica e la filosofia di Aristotele; Newman attraverso la tradizione spirituale anglicana e la filosofia del positivismo del suo tempo; Rahner e Balthasar, invece, attraverso la teologia nel cristianesimo e tutto il pensiero europeo. La vera teologia c’è soltanto quando si è uomini di una razionalità storicamente costituita e di una fede ecclesiasticamente costituita. E queste sono inseparabili. Perché l’uomo che crede è l’uomo che pensa, e l’uomo che pensa è l’uomo che deve credere.

La teologia è la fede pensata...

La teologia è la ragione in cammino verso la fede e la fede in cammino verso la ragione. I due tragitti, di andata e ritorno, sono inseparabili. In una intelligenza che ricerca la fede, ed è una fede che, una volta acquisita, penetra nei suoi contenuti, cerca il suo fondamento e desume le sue conseguenze.

Oggi quali ostacoli avverte rispetto a questa ragionevolezza della teologia?

Se dovessi suggerire due minacce globali — non soltanto per la teologia ma anche per la Chiesa, la fede e la cultura — distinguerei da un lato un fondamentalismo integralista che non consente di aprire gli occhi a ciò che la ragione moderna nella sua complessità ha apportato sia di positivo che di negativo. E dall’altro un razionalismo positivista che riduce la ragione a una forma di razionalità tecnica, scientifica, quantitativa, come se quello fosse il sommo criterio della vera ragione. Ci sono molteplici esercitazioni della ragione: filosofica, poetica, scientifica, religiosa e metafisica. Questo vasto mondo è quello che plasma la complessità delle certezze e delle speranze della vita umana. Il positivismo razionalista è una secessione e una decapitazione della complessa razionalità alla quale siamo chiamati.

Si ha bisogno di una teologia più vicina, più accessibile?

La teologia si esercita su diversi livelli. Esiste una esercitazione teorica, tecnica, scientifica, rigorosa, di fonti, testi, metodi ed ermeneutiche che si esercita nell’università. E ciò deve avere tutto il rigore critico, metodologico e di stile che si richiede alle altre scienze. Esiste un secondo livello che è di trasmissione di grandi percezioni, valori e verità alla grande generalità della Chiesa. V’è poi, in terzo luogo, una trasmissione più pedagogica, didattica, in piccoli gruppi, associazioni, parrocchie e movimenti. Tutto ciò va differenziato, preparando le persone affinché lo compiano ognuna al proprio livello. A volte il grande cattedratico è carente di questa capacità pedagogica di trasmissione, e viceversa. Distinguere per unire è anche qui un criterio essenziale.

Tre livelli. Affrontano qualche sfida?

Esiste e deve esistere una sorta di retroalimentazione. Soltanto con il primo livello rimarremmo in un concettualismo, tecnicismo, positivismo puro. Soltanto con il secondo ci limiteremmo a una pura esercitazione di devozione. Soltanto con il terzo livello la teologia sarebbe ridotta a una mera funzione sociale e culturale. C’è una retroalimentazione. Per esempio dinanzi alla tentazione del positivismo, del concettualismo e dello scientificismo, l’esperienza vissuta di Chiesa, di fede, di testimonianza, di Vangelo nel terzo livello rinvia al primo livello per domandare in che misura è Vangelo quello che stanno facendo. Allo stesso tempo, bisogna curare il terzo livello perché non soccomba alla magia, alla politica, al fondamentalismo, al semplice vissuto della fede.

Qualche appunto sul futuro immediato della teologia?

Lasciamolo nelle mani di Dio e nell’impegno e nella speranza che noi uomini dobbiamo porre in essa

(©L'Osservatore Romano 1 luglio 2011)

Benedetto XVI al Conferimento del "PREMIO RATZINGER" (30 giugno 2011)



CONFERIMENTO DEL "PREMIO RATZINGER"

Alle ore 11 di questa mattina, nella Sala Clementina del Palazzo Apostolico Vaticano, il Santo Padre Benedetto XVI conferisce per la prima volta il "Premio Ratzinger" istituito dalla "Fondazione Vaticana Joseph Ratzinger - Benedetto XVI" a tre studiosi di teologia.
I tre premiati sono: il Prof. Manlio Simonetti, italiano, laico, studioso di Letteratura cristiana antica e Patrologia; il Prof. Olegario González de Cardedal, sacerdote spagnolo, docente di Teologia sistematica; il Prof. Maximilian Heim, cistercense, tedesco, Abate del Monastero di Heiligenkreuz in Austria e docente di Teologia fondamentale e dogmatica.
Dopo il saluto di Mons. Giuseppe Antonio Scotti, Presidente della "Fondazione Vaticana Joseph Ratzinger - Benedetto XVI", la presentazione dei premiati da parte del Card. Camillo Ruini, Presidente del Comitato scientifico della Fondazione e il discorso di ringraziamento da parte del Prof. P. Maximilian Heim, O. Cist., il Papa rivolge ai presenti il discorso che riportiamo di seguito:


DISCORSO DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI


Signori Cardinali,
venerati Confratelli,
illustri Signori e Signore!

Innanzitutto vorrei esprimere la mia gioia e gratitudine per il fatto che, con la consegna del suo premio teologico, la Fondazione che porta il mio nome dia pubblico riconoscimento all’opera condotta nell’arco di un’intera vita da due grandi teologi, e ad un teologo della generazione più giovane dia un segno di incoraggiamento per progredire sul cammino intrapreso. Con il Professor González de Cardedal mi lega un cammino comune di molti decenni. Entrambi abbiamo iniziato con san Bonaventura e da lui ci siamo lasciati indicare la direzione. In una lunga vita di studioso, il Professor Gonzalez ha trattato tutti i grandi temi della teologia, e ciò non semplicemente riflettendone o parlandone a tavolino, bensì sempre confrontato al dramma del nostro tempo, vivendo e anche soffrendo in modo del tutto personale le grandi questioni della fede e con ciò le questioni dell’uomo d’oggi. In tal modo, la parola della fede non è una cosa del passato; nelle sue opere diventa veramente a noi contemporanea. Il Professor Simonetti ci ha aperto in modo nuovo il mondo dei Padri. Proprio mostrandoci, dal punto di vista storico, con precisione e cura ciò che dicono i Padri, essi diventano persone a noi contemporanee, che parlano con noi. Il Padre Maximilian Heim è stato recentemente eletto Abate del monastero di Heiligenkreuz presso Vienna – un monastero ricco di tradizione – assumendo con ciò il compito di rendere attuale una grande storia e di condurla verso il futuro. In questo, spero che il lavoro sulla mia teologia, che egli ci ha donato, possa essergli utile e che l’Abbazia di Heiligenkreuz possa, in questo nostro tempo, sviluppare ulteriormente la teologia monastica, che sempre ha accompagnato quella universitaria, formando con essa l’insieme della teologia occidentale.

Non è, però, mio compito tenere qui una laudatio dei premiati, che è già stata fatta in maniera competente dal Cardinale Ruini. Forse però la consegna del premio può offrire l’occasione di dedicarci per un momento alla questione fondamentale di che cosa sia veramente "teologia". La teologia è scienza della fede, ci dice la tradizione. Ma qui sorge subito la domanda: è davvero possibile questo? O non è in sé una contraddizione? Scienza non è forse il contrario di fede? Non cessa la fede di essere fede, quando diventa scienza? E non cessa la scienza di essere scienza quando è ordinata o addirittura subordinata alla fede? Tali questioni, che già per la teologia medievale rappresentavano un serio problema, con il moderno concetto di scienza sono diventate ancora più impellenti, a prima vista addirittura senza soluzione. Si comprende così perché, nell’età moderna, la teologia in vasti ambiti si sia ritirata primariamente nel campo della storia, al fine di dimostrare qui la sua seria scientificità. Bisogna riconoscere, con gratitudine, che con ciò sono state realizzate opere grandiose, e il messaggio cristiano ha ricevuto nuova luce, capace di renderne visibile l’intima ricchezza. Tuttavia, se la teologia si ritira totalmente nel passato, lascia oggi la fede nel buio. In una seconda fase ci si è poi concentrati sulla prassi, per mostrare come la teologia, in collegamento con la psicologia e la sociologia, sia una scienza utile che dona indicazioni concrete per la vita. Anche questo è importante, ma se il fondamento della teologia, la fede, non diviene contemporaneamente oggetto del pensiero, se la prassi sarebbe riferita solo a se stessa, oppure vive unicamente dei prestiti delle scienze umane, allora la prassi diventa vuota e priva di fondamento.

Queste vie, quindi, non sono sufficienti. Per quanto siano utili ed importanti, esse diventerebbero sotterfugi, se restasse senza risposta la vera domanda. Essa suona: è vero ciò in cui crediamo oppure no? Nella teologia è in gioco la questione circa la verità; essa è il suo fondamento ultimo ed essenziale. Un’espressione di Tertulliano può qui farci fare un passo avanti; egli scrive che Cristo non ha detto: Io sono la consuetudine, ma: Io sono la verità – non consuetudo sed veritas (Virg. 1,1). Christian Gnilka ha mostrato che il concetto consuetudo può significare le religioni pagane che, secondo la loro natura, non erano fede, ma erano "consuetudine": si fa ciò che si è fatto sempre; si osservano le tradizionali forme cultuali e si spera di rimanere così nel giusto rapporto con l’ambito misterioso del divino. L’aspetto rivoluzionario del cristianesimo nell’antichità fu proprio la rottura con la "consuetudine" per amore della verità. Tertulliano parla qui soprattutto in base al Vangelo di san Giovanni, in cui si trova anche l’altra interpretazione fondamentale della fede cristiana, che s’esprime nella designazione di Cristo come Logos. Se Cristo è il Logos, la verità, l’uomo deve corrispondere a Lui con il suo proprio logos, con la sua ragione. Per arrivare fino a Cristo, egli deve essere sulla via della verità. Deve aprirsi al Logos, alla Ragione creatrice, da cui deriva la sua stessa ragione e a cui essa lo rimanda. Da qui si capisce che la fede cristiana, per la sua stessa natura, deve suscitare la teologia, doveva interrogarsi sulla ragionevolezza della fede, anche se naturalmente il concetto di ragione e quello di scienza abbracciano molte dimensioni, e così la natura concreta del nesso tra fede e ragione doveva e deve sempre nuovamente essere scandagliata.

Per quanto si presenti dunque chiara nel cristianesimo il nesso fondamentale tra Logos, verità e fede – la forma concreta di tale nesso ha suscitato e suscita sempre nuove domande. È chiaro che in questo momento tale domanda, che ha occupato e occuperà tutte le generazioni, non può essere trattata in dettaglio, e neppure a grandi linee. Vorrei tentare soltanto di proporre una piccolissima nota. San Bonaventura, nel prologo al suo Commento alle Sentenze ha parlato di un duplice uso della ragione – di un uso che è inconciliabile con la natura della fede e di uno che invece appartiene proprio alla natura della fede. Esiste, così si dice, la violentia rationis, il dispotismo della ragione, che si fa giudice supremo e ultimo di tutto. Questo genere di uso della ragione è certamente impossibile nell’ambito della fede. Cosa intende Bonaventura con ciò? Un’espressione dal Salmo 95,9 può mostrarci di che cosa si tratta. Qui Dio dice al suo popolo: "Nel deserto … mi tentarono i vostri padri: mi misero alla prova pur avendo visto le mie opere". Qui si accenna ad un duplice incontro con Dio: essi hanno "visto". Questo però a loro non basta. Essi mettono Dio "alla prova". Vogliono sottoporlo all’esperimento. Egli viene, per così dire, sottoposto ad un interrogatorio e deve sottomettersi ad un procedimento di prova sperimentale. Questa modalità di uso della ragione, nell’età moderna, ha raggiunto il culmine del suo sviluppo nell’ambito delle scienze naturali. La ragione sperimentale appare oggi ampiamente come l’unica forma di razionalità dichiarata scientifica. Ciò che non può essere scientificamente verificato o falsificato cade fuori dell’ambito scientifico. Con questa impostazione sono state realizzate opere grandiose, come sappiamo; che essa sia giusta e necessaria nell’ambito della conoscenza della natura e delle sue leggi nessuno vorrà seriamente porlo in dubbio. Esiste tuttavia un limite a tale uso della ragione: Dio non è un oggetto della sperimentazione umana. Egli è Soggetto e si manifesta soltanto nel rapporto da persona a persona: ciò fa parte dell’essenza della persona.

In questa prospettiva Bonaventura fa cenno ad un secondo uso della ragione, che vale per l’ambito del "personale", per le grandi questioni dello stesso essere uomini. L’amore vuole conoscere meglio colui che ama. L’amore, l’amore vero, non rende ciechi, ma vedenti. Di esso fa parte proprio la sete di conoscenza, di una vera conoscenza dell’altro. Per questo, i Padri della Chiesa hanno trovato i precursori e gli antesignani del cristianesimo – al di fuori del mondo della rivelazione di Israele – non nell’ambito della religione consuetudinaria, bensì negli uomini in ricerca di Dio, in cerca della verità, nei "filosofi": in persone che erano assetate di verità ed erano quindi sulla strada verso Dio. Quando non c’è questo uso della ragione, allora le grandi questioni dell’umanità cadono fuori dell’ambito della ragione e vengono lasciate all’irrazionalità. Per questo un’autentica teologia è così importante. La fede retta orienta la ragione ad aprirsi al divino, affinché essa, guidata dall’amore per la verità, possa conoscere Dio più da vicino. L’iniziativa per questo cammino sta presso Dio, che ha posto nel cuore dell’uomo la ricerca del suo Volto. Fa quindi parte della teologia, da un lato l’umiltà che si lascia "toccare" da Dio, dall’altro la disciplina che si lega all’ordine della ragione, che preserva l’amore dalla cecità e che aiuta a sviluppare la sua forza visiva.

Sono ben consapevole che con tutto ciò non è stata data una risposta alla questione circa la possibilità e il compito della retta teologia, ma è soltanto stata messa in luce la grandezza della sfida insita nella natura della teologia. Tuttavia è proprio di questa sfida che l’uomo ha bisogno, perché essa ci spinge ad aprire la nostra ragione interrogandoci circa la verità stessa, circa il volto di Dio. Perciò siamo grati ai premiati che hanno mostrato nella loro opera che la ragione, camminando sulla pista tracciata dalla fede, non è una ragione alienata, ma è la ragione che risponde alla sua altissima vocazione. Grazie.

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A colloquio con Emmanuele Morandi, presidente dell’Istituto di studi tomistici di Modena. "Il pensiero soffoca senza silenzio"



A colloquio con Emmanuele Morandi, presidente dell’Istituto di studi tomistici di Modena

Il pensiero soffoca
senza silenzio


di Silvia Guidi

Un istituto pensato per far conoscere l’opera di Tommaso d’Aquino, ma soprattutto per far dialogare professionisti del pensiero e dilettanti della filosofia (nel senso etimologico del termine: delectantes, persone che si dilettano nel praticare l’amore alla verità), professori dai lunghi curricula e giovani lavoratori, pensionati e studenti ricchi solo della loro curiosità. Un programma un po’ troppo ambizioso per essere realista, potrebbe sembrare a un primo sguardo. Ma la quadratura del cerchio esiste: si chiama Istituto filosofico di studi tomistici ed è nato a Modena nel 1988 per iniziativa di un gruppo di studiosi e ricercatori.

Il nome — ci tengono a precisare i fondatori — può far pensare a una realtà di nicchia, ma è vero il contrario: l’Istituto è prima di ogni cosa un progetto culturale. L’ispirazione della metafisica tomista è stata, ed è, il propulsore centrale delle attività svolte, ma su questo intento originario si sono via via innestate nuove discipline, tentando di aprire un sentiero di dialogo fra il pensiero metafisico e i temi più vivi del pensiero contemporaneo. «Accanto alle normali attività di ricerca — spiega a “L’Osservatore Romano” il presidente Emmanuele Morandi — l’Istituto conduce anche una Scuola di studi filosofici e, per aprire la filosofia a un pubblico più ampio, organizza ogni anno il ciclo di incontri Filosofica-mente».

Come è nato l’Istituto?

Eravamo quattro giovani studenti di filosofia dell’università di Bologna. Iniziammo a incontrarci regolarmente, ogni settimana, e ognuno di noi preparava un tema tratto dalle opere di Tommaso, spesso anche da importanti autori tomisti contemporanei (ricordo i seminari su Maritain, Gilson e molti altri). Presto però maturò la convinzione che non fosse possibile vivere questo profondo magistero in termini semplicemente personalistici. La filosofia, e in generale i saperi umanistici, hanno una vocazione pubblica e non possono crescere e vivere senza comunicarsi. Del resto la verità è sempre anche bellezza, e la bellezza accende il desiderio; insomma il bene, cioè le cose buone e desiderabili, tendono a diffondersi, a donarsi. Fu così che nacque la consapevolezza della necessità dell’impegno pubblico e si delineò la struttura organizzativa dell’Istituto. Da una parte la ricerca che ruota intorno alle attività seminariali ed editoriali, e dall’altra l’attività pubblica, che ruota intorno a convegni, conferenze e corsi di formazione. La ricerca, nel corso degli anni, si è fortemente strutturata nelle attività editoriali. L’Istituto infatti dirige tre collane per l’Editore Marietti; i «Kaladri», i «piccoli Kaladri» e «Tolkien e dintorni». Vi è poi la rivista. Oltre dieci anni fa promuovemmo la rivista «Contratto: rivista di filosofia tomista e di filosofia contemporanea», poi, dopo un lungo periodo di silenzio, siamo ripartiti con la nuova serie, che riprenderà tra pochi mesi, dal nome «Realitas: rivista internazionale di filosofia, teoria sociale e scienze umane».

Come ha scoperto l’amore per la filosofia e per Tommaso in particolare?

La filosofia è stata una scoperta che mi ha coinvolto fin da subito, dalle prime volte che ne ho sentito parlare. Frequentavo addirittura le medie inferiori. Una sorta di infatuazione che ti colpisce profondamente e che, in qualche modo, senti che sarà una delle tue dimensioni fondamentali. Poiché l’incontro con la filosofia avviene normalmente attraverso insegnanti, docenti, subito impari a definirla come una materia, una disciplina. Ma se vuoi che questa passione, questo amore, cresca e diventi sempre più consapevole è necessario superare questo geometrico «incasellamento». Diventa fondamentale scoprire l’esperienza che istituisce questo «amore del sapere» e l’esperienza che istituisce la ricerca filosofica non è la professionalità attraverso la quale la insegni, ma è riportare ogni cosa, dalle più semplici alle più complesse, alle radici ultime, ai significati fondamentali della vita dell’uomo. Devi sperimentare che le «cose ultime», cioè quelle che contengono le domande fondamentali sulla nostra esistenza e su quella del mondo, sul Divino e sulla vita sociale, sono il tessuto del nostro essere uomini, sono più importanti del pane quotidiano, sono la nostra essenza, la nostra storia e il suo futuro. Tommaso, nonostante i secoli che ci separano dal suo linguaggio, dalla sua cultura e dal suo orizzonte di pensiero, è uno straordinario maestro, proprio perché sa coniugare la profondità con la superficie, la mitezza con la passione e il pensiero con la concretezza della realtà.

A quali maestri è più grato, e di quali si sente più debitore?

Sono tanti, tantissimi. Quello però a cui devo una riconoscenza particolare è Cornelio Fabro. Attraverso Tommaso e Kierkegaard Fabro ha riproposto una metafisica che, anziché arenarsi nel razionalismo metafisico, si nutre alle sorgenti delle più vitali scoperte dell’esistenzialismo.

Quali sono secondo lei le attività che rispondono meglio al profondo bisogno di cultura della nostra epoca?

Il bisogno di cultura esiste, ma ha due terribili nemici da affondare per essere veramente interiorizzato e appagato. Bisogna come prima cosa prendere atto che il proprio rapporto con la cultura, piccolo o grande che sia, non può essere coltivato all’interno di stili di vita frenetici, dove lavoro e consumo erodono le nostre vite giorno dopo giorno. Bisogna fermarsi, bisogna recuperare la «necessità» dell’otium per difendere e portare avanti una civiltà. C’è bisogno, allo stesso tempo, di silenzio e di comunità per innalzare la cosiddetta qualità della vita. L’accelerazione del tempo è una delle più terribili minacce; essa impedisce ai saperi di diventare beni comuni. L’altro grande nemico è la spettacolarizzazione della cultura. Non sono tanto importanti gli eventi culturali, quelli che spesso richiamano l’attenzione di molti, se non viene costruito un percorso che trasforma un semplice spettacolo in un ambiente in cui i significati forti diventano beni vissuti e amati.

«Sono una zotica tomista», era solita dire Flannery O’Connor; in quali altri artisti vede l’impronta creativa del pensiero dell’Aquinate?

Nelle prossime settimane uscirà nella collana Marietti che dirigiamo un libro di Gilson, mai tradotto in italiano, Pittura e Realtà. È un’acuta riflessione del grande tomista sulla pittura e sull’arte alla luce delle scoperte di Tommaso. La Bellezza è una delle più straordinarie rivelazioni della Trascendenza e l’uomo partecipa a questa rivelazione non solo intellettualmente ma proprio attraverso l’agire artistico. La Bellezza non è una «prodotto» dell’uomo, ma l’uomo vi partecipa attraverso quella peculiare forma d’azione che è l’arte. Se ci avviciniamo al mondo dell’arte nelle sue grandi espressioni, oggi come ieri, troveremmo la riflessione di Tommaso incarnata nella coscienza di tanti artisti, anche se non conoscono la riflessione dell’Aquinate. Nella tradizione di studi tomistici vi è stato, intorno alla metà degli anni Sessanta, un vivace dibattito sulla bellezza, o meglio, sul “bello”. Tale dibattito ha cercato di capire se il pulchrum fosse un trascendentale (in senso tomistico). Detto in termini più semplici: la bellezza è una proprietà che hanno solo alcuni «manufatti», o è una proprietà di tutto ciò che è ed esiste? La questione è molto interessante perché indica l’esistenza di un misterioso legame tra l’essere e la bellezza. In questo senso, oserei dire che tutta l’arte quando non si perde dietro a se stessa — a volte vanitosamente, altre volte stupidamente — ma cresce nella consapevolezza che il suo oggetto è la bellezza, è improntata al pensiero dell’Aquinate; o se si vuole, l’Aquinate coglie l’anima profonda dell’arte e dell’artista proprio riconoscendo la sua naturale e indefessa inclinazione (pratica) alla con-creazione della bellezza.

Quale aspetto della filosofia di Tommaso, secondo lei, un europeo contemporaneo dovrebbe assolutamente conoscere?

Sarei tentato di risponderle: tutto Tommaso. Ma mi rendo conto della stupidità di questa risposta. L’opera di Tommaso non esprime semplicemente se stessa, ma un’intera civiltà. Penso che l’uomo europeo abbia la necessità di recuperare con grande passione le proprie radici culturali, perché chi non ha un rapporto alle radici non può avere futuro. È attraverso le radici che ci si nutre. Si parla molto di futuro, ma l’ignoto futuro non è costruibile senza la forza e l’eredità di ciò che ci ha preceduto. La capacità di dialogare che Tommaso e la sua opera hanno incessantemente promosso nei confronti della cultura greca, islamica e di quella ebraica ci dice che l’uomo europeo medievale aveva in sé il grande respiro della libertà. Amava il confronto con la grandezza delle altre culture, senza per questo negare la propria identità. La capacità di «assumere» intellettualmente ed eticamente tutto ciò che è l’esito della ricerca della verità è la grande lezione che l’europeo contemporaneo dovrebbe recuperare alla scuola di Tommaso; non a caso non c’è mai stata una sola attività promossa dal nostro Istituto che non si preoccupasse di avere un contraddittorio.

(©L'Osservatore Romano 22 giugno 2011)

mercoledì 29 giugno 2011

Benedetto XVI alla Recita dell'Angelus nella Solennità dei Santi Pietro e Paolo (26 giugno 2011)


BENEDETTO XVI

ANGELUS

Piazza San Pietro
Mercoledì, 29 giugno 2011

[Croato, Francese, Inglese, Italiano, Portoghese, Spagnolo]


Cari fratelli e sorelle!

Scusate il lungo ritardo. La Messa in onore dei Santi Pietro e Paolo è stata lunga e bella. E abbiamo pensato anche a quel bell’inno della Chiesa di Roma che comincia: “O Roma felix!”. Oggi nella solennità dei Santi Pietro e Paolo, Patroni di questa Città, cantiamo così: “Felice Roma, perché fosti imporporata dal prezioso sangue di così grandi Principi. Non per tua lode, ma per i loro meriti ogni bellezza superi!”. Come cantano gli inni della tradizione orientale, i due grandi Apostoli sono le “ali” della conoscenza di Dio, che hanno percorso la terra sino ai suoi confini e si sono innalzate al cielo; essi sono anche le “mani” del Vangelo della grazia, i “piedi” della verità dell’annuncio, i “fiumi” della sapienza, le “braccia” della croce (cfr MHN, t. 5, 1899, p. 385). La testimonianza di amore e di fedeltà dei Santi Pietro e Paolo illumina i Pastori della Chiesa, per condurre gli uomini alla verità, formandoli alla fede in Cristo. San Pietro, in particolare, rappresenta l’unità del collegio apostolico. Per tale motivo, durante la liturgia celebrata questa mattina nella Basilica Vaticana, ho imposto a 41 Arcivescovi Metropoliti il pallio, che manifesta la comunione con il Vescovo di Roma nella missione di guidare il popolo di Dio alla salvezza. Scrive sant’Ireneo, Vescovo di Lione, che alla Chiesa di Roma “propter potentiorem principalitatem [per la sua peculiare principalità] deve convergere ogni altra Chiesa, cioè i fedeli che sono dovunque, perché in essa è stata sempre custodita la tradizione che viene dagli Apostoli” (Adversus haereses, III,3,2); così nel II secolo.

È la fede professata da Pietro a costituire il fondamento della Chiesa: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente” – si legge nel Vangelo di Matteo (16,16). Il primato di Pietro è predilezione divina, come lo è anche la vocazione sacerdotale: “Né la carne né il sangue te lo hanno rivelato – dice Gesù – ma il Padre mio che è nei cieli” (Mt 16,17). Così accade a chi decide di rispondere alla chiamata di Dio con la totalità della propria vita. Lo ricordo volentieri in questo giorno, nel quale si compie per me il sessantesimo anniversario di Ordinazione sacerdotale. Grazie per la vostra presenza, per le vostre preghiere! Sono grato a voi, sono grato soprattutto al Signore per la sua chiamata e per il ministero affidatomi, e ringrazio coloro che, in questa circostanza, mi hanno manifestato la loro vicinanza e sostengono la mia missione con la preghiera, che da ogni comunità ecclesiale sale incessantemente a Dio (cfr At 12,5), traducendosi in adorazione a Cristo Eucaristia per accrescere la forza e la libertà di annunciare il Vangelo.

In questo clima, sono lieto di salutare cordialmente la Delegazione del Patriarcato Ecumenico di Costantinopoli, presente oggi a Roma, secondo la significativa consuetudine, per venerare i Santi Pietro e Paolo e condividere con me l’auspicio dell’unità dei cristiani voluta dal Signore. Invochiamo con fiducia la Vergine Maria, Regina degli Apostoli, affinché ogni battezzato diventi sempre più una “pietra viva” che costruisce il Regno di Dio.


Dopo l'Angelus

Cari fratelli e sorelle, nella festa dei Santi Patroni di Roma desidero rivolgere un saluto speciale ai fedeli della mia Diocesi, come pure ai Parroci e a tutti i Sacerdoti impegnati nel lavoro pastorale. All’intera cittadinanza estendo il mio augurio di pace e di bene!

Je salue cordialement les pèlerins francophones, en particulier les délégations venues à l’occasion de la remise du Pallium. Chers amis, la Solennité des saints Apôtres Pierre et Paul nous invite à accueillir et à suivre le Christ pour être aujourd’hui les missionnaires de l’Évangile. Renouvelons notre désir d’être, là où nous sommes, des artisans résolus et persévérants de l’unité pour que le monde croie! Je vous bénis de grand cœur.


I welcome all the English-speaking pilgrims and visitors present in Rome for this Solemnity of Saints Peter and Paul. I am especially happy to greet the Metropolitan Archbishops who have received the Pallium today, accompanied by their relatives and friends. May the courageous example of the Apostles Peter and Paul inspire the Archbishops as they preach the life-giving word of God. May all Christians, following in the footsteps of Peter and Paul, bear courageous witness to the Gospel that sets us free. God bless you all!

Von Herzen heiße ich am heutigen Hochfest Peter und Paul alle deutschsprachigen Pilger und Besucher willkommen. Besonders grüße ich die Delegation aus Bayern, die anläßlich meines 60jährigen Priester­jubi­läums nach Rom gekommen ist. Ich danke für das Gebet, das mir von vielen Gläubigen in den vergangenen Tagen geschenkt wurde. Ich erbitte es auch für die 41 Erzbischöfe, denen ich an diesem Hochfest das Pallium aufgelegt habe. Das wollene Band läßt uns an Christus, den Guten Hirten, denken, der jedem einzelnen Menschen in Liebe nachgeht und ihn nach Hause trägt. Und es erinnert an die Einheit mit dem Apostel Petrus, dem Christus seine Herde anvertraut hat. Ich lade euch ein, die Hirten bei ihrem Dienst zu unterstützen und wünsche euch allen einen gesegneten Festtag!

Dirijo mi cordial saludo a los peregrinos de lengua española que participan en esta oración mariana, en particular a los provenientes de Argentina, Chile, Colombia, Ecuador y Guatemala, que acompañan a los arzobispos metropolitanos que acaban de recibir el Palio. Invito a todos a rezar intensamente en esta solemnidad de los Santos Apóstoles Pedro y Pablo, para que, estimulados por su ejemplo y ayudados por su intercesión, la Iglesia permanezca en el mundo como signo de santidad e instrumento de reconciliación. Que Dios os bendiga.

Saúdo os peregrínos de língua portuguésa, em particulár os Arcebíspos de Angóla e do Brasíl a quem hóje impús o Pálio, com os familiáres e amígos que os acompánham. À Vírgem María confío as vóssas vídas, famílias e diocéses, pára tódos implorándo o precióso dom do amór e da unidáde sóbre a rócha de Pédro, ao dár-vos a Bénçao Apostólica.

Pozdrawiam polskich pielgrzymów. W uroczystość Apostołów Piotra i Pawła stajemy u ich grobów i modlimy się o światło Ducha Świętego do poznawania i do życia przesłaniem Ewangelii, które nam przekazali, oraz do dawania wobec świata świadectwa wiary w Chrystusa zmartwychwstałego. Niech Bóg wam błogosławi!

[Saluto i pellegrini polacchi. Nella solennità degli Apostoli Pietro e Paolo sostiamo davanti alle loro tombe e chiediamo la luce dello Spirito Santo per conoscere e vivere il messaggio del Vangelo che ci hanno trasmesso e per dare al mondo la testimonianza della fede in Cristo risorto. Dio vi benedica!]

E infine un cordiale saluto ai pellegrini di lingua italiana, in particolare a quelli venuti per festeggiare gli Arcivescovi Metropoliti nominati nell’ultimo anno, che stamani hanno ricevuto il Pallio, segno di comunione con la Sede di Pietro. A tutti auguro un pellegrinaggio ricco di frutti. Buona festa a tutti voi. Grazie!

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Benedetto XVI: Solennità dei Santi Apostoli Pietro e Paolo - Santa Messa e imposizione del Pallio ai Metropoliti (29 giugno 2011)



[...] Sessant’anni di ministero sacerdotale – cari amici, forse ho indugiato troppo nei particolari. Ma in quest’ora mi sono sentito spinto a guardare a ciò che ha caratterizzato i decenni. Mi sono sentito spinto a dire a voi – a tutti i sacerdoti e Vescovi come anche ai fedeli della Chiesa – una parola di speranza e di incoraggiamento; una parola, maturata nell’esperienza, sul fatto che il Signore è buono. Soprattutto, però, questa è un’ora di gratitudine: gratitudine al Signore per l’amicizia che mi ha donato e che vuole donare a tutti noi. Gratitudine alle persone che mi hanno formato ed accompagnato. E in tutto ciò si cela la preghiera che un giorno il Signore nella sua bontà ci accolga e ci faccia contemplare la sua gioia. Amen. [...]

SANTA MESSA E IMPOSIZIONE DEL PALLIO
AI NUOVI METROPOLITI

OMELIA DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI
60° ANNIVERSARIO DI ORDINAZIONE SACERDOTALE

Martedì, 29 giugno 2011




Cari fratelli e sorelle,

Non iam dicam servos, sed amicos” – “Non vi chiamo più servi ma amici” (cfr Gv 15,15). A sessant’anni dal giorno della mia Ordinazione sacerdotale sento ancora risuonare nel mio intimo queste parole di Gesù, che il nostro grande Arcivescovo, il Cardinale Faulhaber, con la voce ormai un po’ debole e tuttavia ferma, rivolse a noi sacerdoti novelli al termine della cerimonia di Ordinazione. Secondo l’ordinamento liturgico di quel tempo, quest’acclamazione significava allora l’esplicito conferimento ai sacerdoti novelli del mandato di rimettere i peccati. “Non più servi ma amici”: io sapevo e avvertivo che, in quel momento, questa non era solo una parola “cerimoniale”, ed era anche più di una citazione della Sacra Scrittura. Ne ero consapevole: in questo momento, Egli stesso, il Signore, la dice a me in modo del tutto personale. Nel Battesimo e nella Cresima, Egli ci aveva già attirati verso di sé, ci aveva accolti nella famiglia di Dio. Tuttavia, ciò che avveniva in quel momento, era ancora qualcosa di più. Egli mi chiama amico. Mi accoglie nella cerchia di coloro ai quali si era rivolto nel Cenacolo. Nella cerchia di coloro che Egli conosce in modo del tutto particolare e che così Lo vengono a conoscere in modo particolare. Mi conferisce la facoltà, che quasi mette paura, di fare ciò che solo Egli, il Figlio di Dio, può dire e fare legittimamente: Io ti perdono i tuoi peccati. Egli vuole che io – per suo mandato – possa pronunciare con il suo “Io” una parola che non è soltanto parola bensì azione che produce un cambiamento nel più profondo dell’essere. So che dietro tale parola c’è la sua Passione per causa nostra e per noi. So che il perdono ha il suo prezzo: nella sua Passione, Egli è disceso nel fondo buio e sporco del nostro peccato. È disceso nella notte della nostra colpa, e solo così essa può essere trasformata. E mediante il mandato di perdonare Egli mi permette di gettare uno sguardo nell’abisso dell’uomo e nella grandezza del suo patire per noi uomini, che mi lascia intuire la grandezza del suo amore. Egli si confida con me: “Non più servi ma amici”. Egli mi affida le parole della Consacrazione nell’Eucaristia. Egli mi ritiene capace di annunciare la sua Parola, di spiegarla in modo retto e di portarla agli uomini di oggi. Egli si affida a me. “Non siete più servi ma amici”: questa è un’affermazione che reca una grande gioia interiore e che, al contempo, nella sua grandezza, può far venire i brividi lungo i decenni, con tutte le esperienze della propria debolezza e della sua inesauribile bontà.


“Non più servi ma amici”: in questa parola è racchiuso l’intero programma di una vita sacerdotale. Che cosa è veramente l’amicizia? Idem velle, idem nolle – volere le stesse cose e non volere le stesse cose, dicevano gli antichi. L’amicizia è una comunione del pensare e del volere. Il Signore ci dice la stessa cosa con grande insistenza: “Conosco i miei e i miei conoscono me” (cfr Gv 10,14). Il Pastore chiama i suoi per nome (cfr Gv 10,3). Egli mi conosce per nome. Non sono un qualsiasi essere anonimo nell’infinità dell’universo. Mi conosce in modo del tutto personale. Ed io, conosco Lui? L’amicizia che Egli mi dona può solo significare che anch’io cerchi di conoscere sempre meglio Lui; che io, nella Scrittura, nei Sacramenti, nell’incontro della preghiera, nella comunione dei Santi, nelle persone che si avvicinano a me e che Egli mi manda, cerchi di conoscere sempre di più Lui stesso. L’amicizia non è soltanto conoscenza, è soprattutto comunione del volere. Significa che la mia volontà cresce verso il “sì” dell’adesione alla sua. La sua volontà, infatti, non è per me una volontà esterna ed estranea, alla quale mi piego più o meno volentieri oppure non mi piego. No, nell’amicizia la mia volontà crescendo si unisce alla sua, la sua volontà diventa la mia, e proprio così divento veramente me stesso. Oltre alla comunione di pensiero e di volontà, il Signore menziona un terzo, nuovo elemento: Egli dà la sua vita per noi (cfr Gv 15,13; 10,15). Signore, aiutami a conoscerti sempre meglio! Aiutami ad essere sempre più una cosa sola con la tua volontà! Aiutami a vivere la mia vita non per me stesso, ma a viverla insieme con Te per gli altri! Aiutami a diventare sempre di più Tuo amico!

La parola di Gesù sull’amicizia sta nel contesto del discorso sulla vite. Il Signore collega l’immagine della vite con un compito dato ai discepoli: “Vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga” (Gv 15,16). Il primo compito dato ai discepoli, agli amici, è quello di mettersi in cammino - costituiti perché andiate -, di uscire da se stessi e di andare verso gli altri. Possiamo qui sentire insieme anche la parola del Risorto rivolta ai suoi, con la quale san Matteo conclude il suo Vangelo: “Andate ed insegnate a tutti i popoli…” (cfr Mt 28,19s). Il Signore ci esorta a superare i confini dell’ambiente in cui viviamo, a portare il Vangelo nel mondo degli altri, affinché pervada il tutto e così il mondo si apra per il Regno di Dio. Ciò può ricordarci che Dio stesso è uscito da sé, ha abbandonato la sua gloria, per cercare noi, per portarci la sua luce e il suo amore. Vogliamo seguire il Dio che si mette in cammino, superando la pigrizia di rimanere adagiati su noi stessi, affinché Egli stesso possa entrare nel mondo.


Dopo la parola sull’incamminarsi, Gesù continua: portate frutto, un frutto che rimanga! Quale frutto Egli attende da noi? Qual è il frutto che rimane? Ebbene, il frutto della vite è l’uva, dalla quale si prepara poi il vino. Fermiamoci per il momento su questa immagine. Perché possa maturare uva buona, occorre il sole ma anche la pioggia, il giorno e la notte. Perché maturi un vino pregiato, c’è bisogno della pigiatura, ci vuole la pazienza della fermentazione, la cura attenta che serve ai processi di maturazione. Del vino pregiato è caratteristica non soltanto la dolcezza, ma anche la ricchezza delle sfumature, l’aroma variegato che si è sviluppato nei processi della maturazione e della fermentazione. Non è forse questa già un’immagine della vita umana, e in modo del tutto particolare della nostra vita da sacerdoti? Abbiamo bisogno del sole e della pioggia, della serenità e della difficoltà, delle fasi di purificazione e di prova come anche dei tempi di cammino gioioso con il Vangelo. Volgendo indietro lo sguardo possiamo ringraziare Dio per entrambe le cose: per le difficoltà e per le gioie, per le ore buie e per quelle felici. In entrambe riconosciamo la continua presenza del suo amore, che sempre di nuovo ci porta e ci sopporta.

Ora, tuttavia, dobbiamo domandarci: di che genere è il frutto che il Signore attende da noi? Il vino è immagine dell’amore: questo è il vero frutto che rimane, quello che Dio vuole da noi. Non dimentichiamo, però, che nell’Antico Testamento il vino che si attende dall’uva pregiata è soprattutto immagine della giustizia, che si sviluppa in una vita vissuta secondo la legge di Dio! E non diciamo che questa è una visione veterotestamentaria e ormai superata: no, ciò rimane vero sempre. L’autentico contenuto della Legge, la sua summa, è l’amore per Dio e per il prossimo. Questo duplice amore, tuttavia, non è semplicemente qualcosa di dolce. Esso porta in sé il carico della pazienza, dell’umiltà, della maturazione nella formazione ed assimilazione della nostra volontà alla volontà di Dio, alla volontà di Gesù Cristo, l’Amico. Solo così, nel diventare l’intero nostro essere vero e retto, anche l’amore è vero, solo così esso è un frutto maturo. La sua esigenza intrinseca, la fedeltà a Cristo e alla sua Chiesa, richiede sempre di essere realizzata anche nella sofferenza. Proprio così cresce la vera gioia. Nel fondo, l’essenza dell’amore, del vero frutto, corrisponde con la parola sul mettersi in cammino, sull’andare: amore significa abbandonarsi, donarsi; reca in sé il segno della croce. In tale contesto Gregorio Magno ha detto una volta: Se tendete verso Dio, badate di non raggiungerlo da soli (cfr H Ev 1,6,6: PL 76, 1097s) – una parola che a noi, come sacerdoti, deve essere intimamente presente ogni giorno.


Cari amici, forse mi sono trattenuto troppo a lungo con la memoria interiore sui sessant’anni del mio ministero sacerdotale. Adesso è tempo di pensare a ciò che è proprio di questo momento.

Nella Solennità dei Santi Apostoli Pietro e Paolo rivolgo anzitutto il mio più cordiale saluto al Patriarca Ecumenico Bartolomeo I e alla Delegazione che ha inviato, e che ringrazio vivamente per la gradita visita nella lieta circostanza dei Santi Apostoli Patroni di Roma. Saluto anche i Signori Cardinali, i Fratelli nell’Episcopato, i Signori Ambasciatori e le Autorità civili, come pure i sacerdoti, i compagni della mia prima Messa, i religiosi e i fedeli laici. Tutti ringrazio per la presenza e per la preghiera.

Agli Arcivescovi Metropoliti nominati dopo l’ultima Festa dei grandi Apostoli viene ora imposto il pallio. Che cosa significa? Questo può ricordarci innanzitutto il giogo dolce di Cristo che ci viene posto sulle spalle (cfr Mt 11,29s). Il giogo di Cristo è identico alla sua amicizia. È un giogo di amicizia e perciò un “giogo dolce”, ma proprio per questo anche un giogo che esige e che plasma. È il giogo della sua volontà, che è una volontà di verità e di amore. Così è per noi soprattutto anche il giogo di introdurre altri nell’amicizia con Cristo e di essere a disposizione degli altri, di prenderci come Pastori cura di loro. Con ciò siamo giunti ad un ulteriore significato del pallio: esso viene intessuto con la lana di agnelli, che vengono benedetti nella festa di sant’Agnese. Ci ricorda così il Pastore diventato Egli stesso Agnello, per amore nostro. Ci ricorda Cristo che si è incamminato per le montagne e i deserti, in cui il suo agnello, l’umanità, si era smarrito. Ci ricorda Lui, che ha preso l’agnello, l’umanità – me – sulle sue spalle, per riportarmi a casa. Ci ricorda in questo modo che, come Pastori al suo servizio, dobbiamo anche noi portare gli altri, prendendoli, per così dire, sulle nostre spalle e portarli a Cristo. Ci ricorda che possiamo essere Pastori del suo gregge che rimane sempre suo e non diventa nostro. Infine, il pallio significa molto concretamente anche la comunione dei Pastori della Chiesa con Pietro e con i suoi successori – significa che noi dobbiamo essere Pastori per l’unità e nell’unità e che solo nell’unità di cui Pietro è simbolo guidiamo veramente verso Cristo.


Sessant’anni di ministero sacerdotale – cari amici, forse ho indugiato troppo nei particolari. Ma in quest’ora mi sono sentito spinto a guardare a ciò che ha caratterizzato i decenni. Mi sono sentito spinto a dire a voi – a tutti i sacerdoti e Vescovi come anche ai fedeli della Chiesa – una parola di speranza e di incoraggiamento; una parola, maturata nell’esperienza, sul fatto che il Signore è buono. Soprattutto, però, questa è un’ora di gratitudine: gratitudine al Signore per l’amicizia che mi ha donato e che vuole donare a tutti noi. Gratitudine alle persone che mi hanno formato ed accompagnato. E in tutto ciò si cela la preghiera che un giorno il Signore nella sua bontà ci accolga e ci faccia contemplare la sua gioia. Amen.

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La festa dei santi apostoli nella tradizione siro-occidentale. Pietro ha superato il sole e Paolo la luna (Manuel Nin)



La festa dei santi apostoli nella tradizione siro-occidentale
Pietro ha superato il sole
e Paolo la luna


di Manuel Nin

La festa degli apostoli Pietro e Paolo il 29 giugno è celebrata in tutte le Chiese cristiane di oriente e occidente, e in alcune tradizioni orientali è preceduta da un periodo di digiuno (quaresima) dalla durata variabile. Nelle tradizioni liturgiche orientali il giorno successivo sono poi celebrati i dodici apostoli, discepoli del Signore, testimoni della sua risurrezione e predicatori del suo Vangelo nel mondo intero. La tradizione patristica e liturgica siro-occidentale molto spesso congiunge i due apostoli. Così Efrem il Siro, benché nutra una particolare stima per Pietro, li contempla quasi sempre in modo unico. In uno dei suoi inni sulla crocifissione di Cristo infatti egli afferma: «Che l’oriente offra a Cristo una corona con i suoi fiori: Noè, Sem, l’illustre Abramo, i magi benedetti e la stella. L’occidente offra due corone sfavillanti, il cui profumo si è diffuso ovunque. L’occidente nel quale tramontò la coppia di astri, i due apostoli sepolti che vi fanno sfavillare raggi mai tramontati. Ecco Simone ha superato il sole e l’Apostolo ha eclissato la luna».

Nell’ufficiatura vespertina siro-occidentale troviamo un sedro — composizione liturgica anonima in prosa poetica sulla festa — che costituisce una lode a Pietro e Paolo. Sin dall’inizio, dà a Pietro il titolo di «capo degli apostoli» e a Paolo quello di «vaso di elezione» (Atti degli apostoli, 9, 15); quindi li paragona a «colonne forti» su cui la Chiesa viene edificata: «A te la lode, Cristo Dio nostro, il cui regno si espande nel cielo e nella terra, che hai innalzato nella tua Chiesa due colonne forti e magnifiche, Pietro il capo degli apostoli e Paolo vaso di elezione, e hai dato loro il tuo aiuto affinché ti imitino nel dare la propria vita per le loro pecore spirituali». Il testo sottolinea come la scelta degli apostoli da parte di Cristo è per loro un dono di sapienza, un passaggio, quasi una conversione, dall’ignoranza alla conoscenza.

Il sedro descrive poi la santità di Pietro, primo nella confessione della fede, esempio di pentimento dopo il tradimento: «Tra i tuoi discepoli tu hai collocato un fondamento e un capo: Pietro, sublime nella perfezione. A lui tu hai rivelato per primo i divini insegnamenti e i misteri, e lo hai costituito modello ed esempio dei peccatori che si pentono. Essendo il capo e primo dei suoi fratelli l’hai mandato a Roma, la grande capitale». Viene poi la descrizione del persecutore diventato apostolo: «Poi ti sei apparso a Paolo che perseguitava i discepoli, l’hai illuminato nel cammino e ne hai fatto un vaso di elezione, riempiendolo di rivelazioni sublimi ed elevate, e hai insegnato a lui i tuoi divini misteri. Ha percorso tutte le strade della terra volando come aquila del volo rapido, e ha riempito il mondo con l’annuncio di vita: ha ammonito re e principi, incoraggiato i deboli e alla fine ha chinato la testa al taglio della spada e ricevuto la corona del martirio assieme a Pietro, capo degli apostoli».

Seguono dodici invocazioni che iniziano tutte con la stessa formula: «Pace a voi apostoli Pietro e Paolo, coltivatori e agricoltori zelanti che avete sradicato dalla terra le erbe delle dottrine sbagliate e le spine dell’errore. Pace a voi, Pietro e Paolo, pescatori abili, perché nelle reti del Vangelo avete salvato le anime degli uomini». Cinque altre invocazioni contemplano Pietro e Paolo nel loro ruolo di apostoli, garanti della professione di fede, predicatori della verità della croce di Cristo, annunciatori della fede da Gerusalemme sino ai confini del mondo: «Pace a voi, illustri apostoli Pietro e Paolo, principi degli eserciti del re celeste e garanti dei tesori della sua divinità. Pace a voi, Pietro e Paolo, apostoli scelti, capi che avete fatto ammutolire l’empietà dei re pagani con la testimonianza della verità e dell’autenticità della croce. Pace a voi, Pietro e Paolo, apostoli benedetti, vero oro puro, perché i raggi del vostro insegnamento risplendono per tutta la terra e la illuminano. Pace a voi, Pietro e Paolo, grandi apostoli, predicatori della vera fede che da Gerusalemme avete portato la buona novella a tutto il mondo».

Una delle invocazioni ancora li paragona a un grappolo d’uva pressato, con un riferimento al martirio, e il cui vino è annuncio del Vangelo: «Pace a voi, Pietro e Paolo, apostoli virtuosi, grappoli mistici, pressati dagli empi ma il cui vino ha annunciato per tutta la terra il vero Dio, e tutti gli uomini lo hanno adorato». L’ultima invocazione riprende l’immagine di Pietro e Paolo come colonne della Chiesa edificata su di loro: «Pace a voi, Pietro e Paolo, colonne e fondamento della santa Chiesa, perché contro di essa non può niente la forza dell’inferno».

(©L'Osservatore Romano 29 giugno 2011)