lunedì 31 gennaio 2011

Chiesa e chiese nella storia d'Italia. Il peso morale degli edifici (Timothy Verdon)


Chiesa e chiese nella storia d'Italia

Il peso morale degli edifici

Timothy Verdon

Pubblichiamo alcuni stralci dal volume Ecclesia. Le chiese d'Italia nella vita del popolo (Torino, Utet, 2010, pagine 240).

Nell'Italia costellata di edifici religiosi grandi e piccoli, di cattedrali, pievi, oratori e cappelle, di santuari, monasteri, conventi e compagnie, che cosa comunica veramente la parola "chiesa"? E, nel Paese che ospita la Santa Sede, che cosa comunica lo stesso termine scritto con la c maiuscola "Chiesa"? Al di là di connotazioni politiche proprie della Repubblica, e prescindendo da situazioni sviluppatesi all'epoca del Risorgimento, qual è stato nei secoli l'effettivo peso morale degli edifici, l'influsso spirituale delle forme di vita a essi connesse, l'impatto sociale dell'istituzione che gli uni e le altre rappresentano? Oltre al loro valore architettonico, insomma, che senso hanno avuto le chiese d'Italia nella vita storica del popolo?

Sono domande complesse, queste, ma - proprio nell'Italia che festeggia 150 anni di unità politica - ineludibili. Tra le terre di antica religiosità dell'area mediterranea (ma anche del Medio Oriente e del subcontinente indiano), l'Italia infatti ha una posizione unica. Non solo ha conservato numerosi templi antichi e con essi il ricordo di credenze e pratiche cultuali superate da millenni, ma fino a oggi vive la fede cristiana, introdotta nella penisola pochi decenni dopo la morte di Gesù, in luoghi fisici e mentali espressivi di continuità con il passato. Lo sa bene il romano che prega in Santa Maria sopra Minerva, e lo scopre il turista che, nel tempio ricostruito dall'imperatore Adriano in onore di tutte le divinità olimpiche, il Pantheon, trova un altare eucaristico e la dedica a Maria e tutti i martiri. Lo sapevano i pisani che nell'XI secolo riportarono dalla Sardegna colonne antiche per la navata dell'erigenda Primaziale, e ne era consapevole l'artista duecentesco, forse Giotto, che ad Assisi ambientò un episodio della Vita di san Francesco davanti al tempio romano che ancora domina la piazza di quella città. Avverte con forza questa impressionante continuità il popolo di Siracusa che, oltre la facciata tardo barocca della loro cattedrale dedicata a Maria, trova la cella di un tempio dorico costruito 2.600 anni fa in onore di Atena. La religione in Italia, un po' come la madre terra venerata dagli antichi, racchiude il mistero della vita. Ce lo suggeriscono due miniature di un rotolo pergamenaceo del XI secolo custodito alla British Library di Londra: la figura di Tellus (la Madre Terra al cui seno si nutrono piante e animali) e, subito sotto, la Mater Ecclesia: la "Madre Chiesa" che sostiene la volta di un tempio affollato dei suoi figli, i cristiani. Queste miniature introducono l'Exultet, l'inno patristico cantato la notte di Pasqua, che infatti apre con l'invito alla "Terra" e alla "Madre Chiesa" di esultare per il trionfo di Cristo. L'immagine materna della Chiesa fa parte della cultura popolare in Italia.


Lo stesso posizionamento degli edifici di culto a volte configura un rapporto con il vicino abitato simile a quello della figura di Tellus nel rotolo dell'Exultet, come se davvero tutte le case di un quartiere o di una città attingessero vita dalla "Casa" al loro centro, proprio come fanno le creature dalla terra. Il parallelismo teologico tra Maria, da cui è nato Cristo, e la Chiesa da cui nascono i cristiani, ha poi ingenerato eloquenti allusioni iconografiche alla maternità: lo stemma quattrocentesco della cattedrale di Milano, per esempio, situa l'intera struttura sotto il manto di un'enorme Madonna, così che chiunque entri per le porte di facciata si trovi necessariamente "in Maria", praticamente nel suo grembo. Oppure una tavola di Francesco di Giorgio Martini raffigurante Maria che stende il manto sul duomo e sulle case di Siena (biccherna del 1467).

Nell'iconografia mariana la stesura del mantello implica la misericordia divina. Nel caso della tavola senese datata 1467,uno scritto precisa che l'occasione dell'esecuzione era un terremoto da cui la città era sopravvissuta senza gravi danni, sperimentando così in termini concreti la protezione materna della Vergine. Siena invero aveva un rapporto privilegiato con Maria, grazie al voto cittadino risalente all'epoca della vittoria senese sul nemico fiorentino a Montaperti nel 1260. Su impulso dell'allora sindaco, Buonaguida Lucari, alla vigilia della battaglia i senesi si sono "donati" alla Vergine, consegnando le chiavi della loro città a un'immagine mariana in duomo, in una cerimonia ripetuta annualmente nei secoli successivi.

Il caso senese non è atipico: analoghe forme di patronato mariano sono documentati ovunque. Si tratta di un rapporto tra Maria, figura della Chiesa, e città storiche la cui identità veniva letta attraverso la Vergine Madre di Cristo. "Un fiume e i suoi ruscelli rallegrano la città di Dio, la santa dimora dell'Altissimo", recita il Salmo 45: "Dio sta in essa: non potrà vacillare; la soccorrerà Dio, prima del mattino". Queste parole, che nel loro contesto originario connotavano Gerusalemme, vengono adoperate nella liturgia delle feste mariane, perché anche Maria è stata "rallegrata" dal fluire dello Spirito, diventando "dimora" del Dio che "in essa" è rimasto per nove mesi. Maria è figura della "città santa, la nuova Gerusalemme (...) pronta come una sposa adorna per il suo sposo", di cui parla il Nuovo Testamento (Apocalisse, 21, 2).

Tale associazione d'idee non è solo biblica. Pure la cultura greco-romana identificava le città con divinità femminili, e la più celebre carta dell'impero romano - la Tabula peutingeriana, compilata nel IV secolo - simboleggia Roma e altre città mediante imponenti figure di donne. Un uso metaforico, questo, trasmesso al medioevo come parte del "bagaglio" della tradizione classica e che entra nell'immaginario comune. Il cristianesimo poi riveste la metafora di preciso senso sociale: Maria, che aveva portato in grembo Cristo, viene pensata come icona della madre Chiesa che porta in sé una nuova umanità; la Chiesa a sua volta verrà considerata immagine terrena della Gerusalemme celeste. Sin dai primi secoli cristiani, poi, queste feconde figure semantiche - la terra, la maternità, la Chiesa, Maria e la città - s'intrecciano con altri simboli. Nella prima grande chiesa romana dedicata a Maria, per esempio, Santa Maria Maggiore, iniziata subito dopo il concilio di Efeso che nell'anno 431 confermò il titolo mariano "Madre di Dio", l'iconografia dell'arco d'ingresso al presbiterio fa vedere la vita della Vergine sopra raffigurazioni ideali di Bethlem e Hierusalem alle cui porte stanno pecore pronte a entrare; nell'arco di ciascuna porta urbica pende una croce dorata. In questa chiesa dedicata a Maria, l'idea è quella di abbinare al senso mariano della civitas, con la sua tradizionale connotazione ecclesiale, l'altrettanto ecclesiale figura del gregge, che nel Nuovo Testamento viene associata soprattutto con Cristo, Buon Pastore.

La croce che pende nella porta della città ricorda che, secondo l'insegnamento di Cristo, "il buon pastore offre la vita per le sue pecore" (Giovanni, 10, 11).


Attraverso le porte urbiche raffigurate in questi mosaici si vedono infine teorie di colonne simili a quelle della navata di Santa Maria Maggiore stessa, così che "città" e "chiesa" diventano un tutt'uno, e il messaggio di un luogo materno, nutritivo - al contempo urbs e ovile - si apre al mistero del Buon Pastore ucciso per le pecore che egli alimenta mentre camminano verso la città celeste. Il passaggio concettuale è suggestivo, e, guardando l'altare incorniciato da immagini della Vergine e delle due città, ancor oggi i fedeli si percepiscono - prima in rapporto a Maria, poi in rapporto a Cristo - come "figli partoriti" e "pecore nutrite" in cammino verso una città al cui ingresso vi è la croce dorata, segno di sofferenza e di gloria. Non si tratta di un fenomeno solo romano. I coevi mosaici di una chiesa ravennate, Sant'Apollinare Nuovo, offrono un'analoga gamma di messaggi. Fanno vedere appena sopra l'arcata della navata maggiore due processioni di martiri che avanzano verso Cristo e Maria raffigurati in trono, rispettivamente a destra e a sinistra del presbiterio. In questa organizzazione delle immagini, i fedeli al livello del calpestio, guardando in alto mentre avanzavano verso l'altare, si percepiscono come parte della doppia processione, incamminati assieme ai santi verso Cristo e sua madre, membri della stessa comunità. Ed ecco: il "luogo" in cui il popolo che prende parte ai riti si riconosce partecipe di questa alta dignità è la "chiesa": al contempo grembo, ovile, città e scuola di vita.

All'indiscusso carattere biblico della sua concezione di Chiesa, l'Italia unisce poi una auto-comprensione politica, derivante dalla mai dimenticata origine romana delle sue città. L'identità ecclesiale, di nazione santa, s'innesta cioè sull'identità civica tramandata dal tardo impero, così che il concetto giudeo-cristiano di "popolo di Dio" viene a sovrapporsi a quello romano di plebs, un popolo autonomo con diritti e doveri, capace di difendersi e pronto al sacrificio.

Tale sovrapposizione concettuale, che segna profondamente lo sviluppo della Chiesa e delle chiese tra il V e il X secolo, porterà in alcune regioni al sistema "plebano" e alle pievi: letteralmente strutture in cui la plebs si riunisce, aule per un determinato "popolo". Per tutto il medioevo sarà infatti d'uso identificare la parrocchia di appartenenza, cittadina o rurale che sia, con questo termine: "popolo". Sostituendosi alla plebs antica, il popolo parrocchiale e il grande "popolo" della diocesi diventeranno l'ambito naturale della libertà, della solidarietà, della difesa dei valori.

(©L'Osservatore Romano - 31 gennaio 01 febbraio 2011)


Il celibato sacerdotale nell'insegnamento dei Pontefici: Pio XII e la "Sacra virginitas" (Mauro Piacenza)


Il celibato sacerdotale nell'insegnamento dei Pontefici

Pio XII e la "Sacra virginitas"

Sacra Virginitas (25 marzo 1954)
[Inglese, Italiano, Latino, Portoghese]

Mauro Piacenza

Da una relazione tenuta ad Ars dal cardinale prefetto della Congregazione per il Clero, pubblichiamo la parte relativa a Papa Pacelli.

Un contributo determinante dal punto di vista magisteriale è stato dato dall'enciclica Sacra virginitas, del 25 marzo 1954, del servo di Dio Pio XII. Essa, come tutte le encicliche di quel Pontefice, rifulge per la chiara e profonda impostazione dottrinale, per la ricchezza di riferimenti biblici, storici, teologici, spirituali, e costituisce ancora oggi un punto di riferimento di notevole rilievo.

Se, in senso stretto, l'enciclica ha come oggetto formale, non il celibato ecclesiastico, ma la verginità per il Regno dei cieli, nondimeno moltissimi sono, in essa, gli spunti di riflessione e gli espliciti riferimenti alla condizione celibataria anche del sacerdozio.

Il documento si compone di quattro parti: la prima delinea la "vera idea della condizione verginale", la seconda identifica e risponde ad alcuni errori dell'epoca, che non perdono la loro problematicità anche nell'oggi, la terza parte delinea il rapporto tra verginità e sacrificio, mentre l'ultima, a mo' di conclusione, delinea alcune speranze e alcuni timori legati alla verginità.

La verginità, nella prima parte, è presentata come un modo eccellente di vivere la sequela di Cristo. "Che cos'è, infatti, seguire se non imitare?", si domanda il Pontefice. E risponde: "Tutti questi discepoli hanno abbracciato lo stato di verginità per la conformità allo Sposo Cristo. (...) La loro ardente carità verso Cristo non poteva contentarsi di vincoli di affetto con Lui: essa aveva assoluto bisogno di manifestarsi con l'imitazione delle Sue virtù e, in modo speciale, con la conformità alla Sua vita tutta consacrata al bene e alla salvezza del genere umano. Se i sacerdoti (...) osservano la castità perfetta, questo è in definitiva perché il loro Divino Maestro è rimasto Egli stesso vergine fino alla morte".

In realtà, e non certo a caso, il Pontefice assimila la condizione verginale sacerdotale a quella dei religiosi e delle religiose, mostrando, in tal modo, come il celibato, che differisce dal punto di vista normativo, abbia in realtà il medesimo fondamento teologico e spirituale.

Un'altra ragione del celibato è individuata dal Pontefice nell'esigenza, connessa al Mistero, di una profonda libertà spirituale. Afferma l'enciclica: "Proprio perché i sacri Ministri possano godere di questa spirituale libertà di corpo e di anima, e per evitare che si immischino in affari terreni, la Chiesa latina esige da essi che assumano volontariamente l'obbligo della castità perfetta", e aggiunge: "I Ministri sacri, però, non rinunciano al matrimonio unicamente perché si dedicano all'apostolato, ma anche perché servono all'Altare".

Emerge, in tal modo, come alla ragione apostolica e missionaria si unisca propriamente, nel magistero di Pio XII, quella cultuale, in una sintesi che, oltre ogni polarizzazione, rappresenta la reale e completa unità di ragioni a favore del celibato sacerdotale.

Del resto già nell'esortazione apostolica Menti nostrae, lo stesso Pio XII affermava: "Per la legge del celibato, il Sacerdote, ben lontano dal perdere la paternità, la accresce all'infinito, perché egli genera figliuoli, non per questa vita terrena e caduca, ma per la celeste ed eterna".

Missionarietà, sacralità del ministero, realistica imitazione di Cristo, fecondità e paternità spirituale costituiscono, dunque, l'orizzonte imprescindibile di riferimento del celibato sacerdotale, non indipendentemente dalla correzione di alcuni errori sempre latenti, come il misconoscimento dell'eccellenza oggettiva, e non certo per santità soggettiva, dello stato verginale rispetto a quello matrimoniale, l'affermazione dell'impossibilità umana a vivere la condizione verginale o l'estraneità dei consacrati alla vita del mondo e della società. A tal riguardo afferma il Pontefice: "Le anime consacrate alla castità perfetta non impoveriscono per questo la propria personalità umana, poiché ricevono da Dio stesso un soccorso spirituale immensamente più efficace che il "mutuo aiuto" degli sposi. Consacrandosi direttamente a Colui che è il loro Principio e comunica la Sua Vita divina, non si impoveriscono ma si arricchiscono".

Tali affermazioni potrebbero essere sufficienti a rispondere, con la necessaria chiarezza, a tante obiezioni di carattere psico-antropologico, che ancora oggi vengono mosse al celibato sacerdotale.

Ultimo grande e fondamentale tema affrontato dall'enciclica Sacra virginitas è quello, più propriamente sacerdotale, del rapporto tra verginità e sacrificio. Osserva il Pontefice, citando sant'Ambrogio: "La castità perfetta non è che un consiglio, un mezzo capace di condurre più sicuramente e più facilmente alla perfezione evangelica (...) quelle anime "a cui è stato concesso" (Matteo, 19, 11). Essa non è imposta, ma proposta". In tal senso, è duplice l'invito di Pio XII sulla scia dei grandi Padri: da un lato, egli afferma il dovere di "ben misurare le forze" per comprendere se si è in grado di accogliere il dono di grazia del celibato, consegnando a tutta la Chiesa, in tal senso, specialmente ai giorni nostri, un sicuro criterio di onesto discernimento; dall'altro, pone in evidenza l'intrinseco legame tra castità e martirio, insegnando, con san Gregorio Magno, che la castità sostituisce il martirio e rappresenta, in ogni tempo, la più alta ed efficace forma di testimonianza.

Appare evidente a tutti come, soprattutto nella nostra società secolarizzata, la perfetta continenza per il Regno dei cieli, rappresenti una delle testimonianze più efficaci e maggiormente capaci di "provocare" salutarmente l'intelligenza e il cuore dei nostri contemporanei. In un clima sempre più grandemente, e quasi violentemente eroticizzato, la castità, soprattutto di coloro che nella Chiesa sono insigniti del sacerdozio ministeriale, rappresenta una sfida, ancora più potentemente eloquente, alla cultura dominante e, in definitiva, alla stessa domanda sull'esistenza di Dio e sulla possibilità di conoscerlo e di entrare in rapporto con lui.

Mi pare ora doveroso mettere in luce un'ultima riflessione sull'enciclica di Pio XII, poiché essa, più delle altre, appare decisamente controcorrente rispetto a molti dei costumi oggi diffusi anche tra non pochi membri del clero e in vari luoghi di "formazione". Citando san Girolamo, il Pontefice mette in luce come "a custodia della castità serve più la fuga che la lotta aperta (...) e tale fuga consiste non solo nell'allontanare premurosamente le occasioni del peccato, ma soprattutto nell'innalzare la mente, durante queste lotte, a Colui al Quale abbiamo consacrato la nostra verginità. "Rimirate la bellezza di Colui che vi ama" raccomanda Sant'Agostino".

Apparirebbe oggi quasi impossibile all'educatore trasmettere il valore del celibato e della purezza ai giovani seminaristi, in un contesto nel quale risulti, di fatto, impossibile vigilare sulle visioni, sulle letture, sull'utilizzo di internet, e sulle conoscenze. Se è sempre più evidente e necessario il coinvolgimento maturo della libertà dei candidati in una volontaria e consapevole collaborazione all'opera di formazione, non di meno l'enciclica giudica un errore, e concordiamo pienamente, permettere a chi si prepara al sacerdozio ogni esperienza, senza il necessario discernimento e il dovuto distacco dal mondo. Permettere ciò equivale a comprendere nulla dell'uomo, della sua psicologia, della società e della cultura che ci circonda. Significa essere chiusi in una sorta di ideologia preconcetta che va contro la realtà. Basta guardarsi attorno. Quanto realismo nei versetti del salmo: "Hanno occhi e non vedono"!

Devo confidare, alla fine di questo breve excursus sull'enciclica di Pio XII - ma lo stesso potrei dire per l'Ad catholici sacerdotii di Pio XI - che rimango sempre sorpreso della sua modernità e attualità. Pur permanendo la preminente focalizzazione sull'aspetto sacrale del celibato e sul legame tra esercizio del culto e verginità per il Regno dei cieli, il magistero di questi due Pontefici presenta un celibato cristologicamente fondato, sia nella direttrice della configurazione ontologica a Cristo sacerdote-vergine, sia in quella della imitatio Christi.

Se appare in parte giustificata la lettura che vede nel magistero papale sul celibato, anteriore al concilio ecumenico Vaticano II, un'insistenza sulle argomentazioni sacrali-rituali, e, in quello successivo al Concilio, un'apertura a ragioni più cristologico-pastorali, nondimeno è doveroso riconoscere - e questo è fondamentale per la corretta ermeneutica della continuità, ovvero per l'ermeneutica "cattolica" - che sia Pio XI, sia Pio XII sottolineano ampiamente le ragioni di carattere teologico. Il celibato risulta, dai menzionati pronunciamenti, non solo particolarmente opportuno e appropriato alla condizione sacerdotale, ma intimamente connesso con l'essenza stessa del sacerdozio, compresa come partecipazione alla vita di Cristo, alla Sua identità e, perciò, alla Sua missione. Non è certo un caso che quelle Chiese di rito orientale che ordinano anche viri probati, non ammettono assolutamente all'ordinazione episcopale presbiteri uxorati!

(©L'Osservatore Romano - 30 gennaio 2011)

Vedi precedente relazione:
Pio XI e l' "Ad catholici sacerdoti!




domenica 30 gennaio 2011

San Giovanni Bosco, sacerdote (m) 31 gennaio 2011


MISSALE ROMANUM
31 Gennaio 2011

FORMA ORDINARIA
SAN GIOVANNI BOSCO (m)
Sacerdote (1815-1888)



Imitare Gesù a lasciarsi guidare dall'amore

Dalle «Lettere» di san Giovanni Bosco

Se vogliamo farci vedere amici del vero bene dei nostri allievi, e obbligarli fare il loro dovere, bisogna che voi non dimentichiate mai che rappresentate i genitori di questa cara gioventù, che fu sempre tenero oggetto delle mie occupazioni, dei miei studi, del mio ministero sacerdotale, e della nostra Congregazione salesiana. Se perciò sarete veri padri dei vostri allievi, bisogna che voi ne abbiate anche il cuore; e non veniate mai alla repressione o punizione senza ragione e senza giustizia, e solo alla maniera di chi vi si adatta per forza e per compiere un dovere.

Quante volte, miei cari figliuoli, nella mia lunga carriera ho dovuto persuadermi di questa grande verità! E’ certo più facile irritarsi che pazientare: minacciare un fanciullo che persuaderlo: direi ancora che è più comodo alla nostra impazienza e alla nostra superbia castigare quelli che resistono, che correggerli col sopportarli con fermezza e con benignità. La carità che vi raccomando è quella che adoperava san Paolo verso i fedeli di fresco convertiti alla religione del Signore, e che sovente lo facevano piangere e supplicare quando se li vedeva meno docili e corrispondenti al suo zelo.

Difficilmente quando si castiga si conserva quella calma, che è necessaria per allontanare ogni dubbio che si opera per far sentire la propria autorità, o sfogare la propria passione.

Riguardiamo come nostri figli quelli sui quali abbiamo da esercitare qualche potere. Mettiamoci quasi al loro servizio, come Gesù che venne a ubbidire e non a comandare, vergognandoci di ciò che potesse aver l’aria in noi di dominatori; e non dominiamoli che per servirli con maggior piacere. Così faceva Gesù con i suoi apostoli, tollerandoli nella loro ignoranza e rozzezza, nella loro poca fedeltà, e col trattare i peccatori con una dimestichezza e familiarità da produrre in alcuni lo stupore, in altri quasi

scandalo, e in molti la Santa speranza di ottenere il perdono da Dio. Egli ci disse perciò di imparare da lui ad essere mansueti e umili di cuore (4r.Mt 11,29).

Dal momento che sono i nostri figli, allontaniamo ogni collera quando dobbiamo reprimere i loro falli, o almeno moderiamola in maniera che sembri soffocata del tutto. Non agitazione dell’animo, non disprezzo negli occhi, non ingiuria sul labbro; ma sentiamo la compassione per il momento, la speranza per l’avvenire, e allora voi sarete i veri padri e farete una vera correzione.

In certi momenti molto gravi, giova più una raccomandazione a Dio, un atto di umiltà a lui, che una tempesta di parole, le quali, se da una parte non producono che male in chi le sente, dall’altra parte non arrecano vantaggio a chi le merita.

Ricordatevi che l’educazione è cosa del cuore, e che Dio solo ne è il padrone, e noi non potremo riuscire a cosa alcuna, se Dio non ce ne insegna l’arte, e non ce ne mette in mano le chiavi.

Studiamoci di farci amare, di insinuare il sentimento del dovere, del santo timore di Dio, e vedremo con mirabile facilità aprirsi le porte di tanti cuori e unirsi a noi per cantare le lodi e le benedizioni di colui, che volle farsi nostro modello, nostra via, nostro esempio in tutto, ma particolarmente nell’educazione della gioventù.


LE PAROLE DEL PAPA ALLA RECITA DELL'ANGELUS - 30 gennaio 2011


BENEDETTO XVI

ANGELUS

Piazza San Pietro
Domenica, 30 gennaio 2011

[Croato, Francese, Inglese, Italiano, Spagnolo, Tedesco]

Cari fratelli e sorelle!

In questa quarta domenica del Tempo Ordinario, il Vangelo presenta il primo grande discorso che il Signore rivolge alla gente, sulle dolci colline intorno al Lago di Galilea. «Vedendo le folle – scrive san Matteo –, Gesù salì sul monte: si pose a sedere e si avvicinarono a lui i suoi discepoli. Si mise a parlare e insegnava loro» (Mt 5,1-2). Gesù, nuovo Mosè, «prende posto sulla “cattedra” della montagna» (Gesù di Nazaret, Milano 2007, p. 88) e proclama «beati» i poveri in spirito, gli afflitti, i misericordiosi, quanti hanno fame della giustizia, i puri di cuore, i perseguitati (cfr Mt 5,3-10). Non si tratta di una nuova ideologia, ma di un insegnamento che viene dall’alto e tocca la condizione umana, proprio quella che il Signore, incarnandosi, ha voluto assumere, per salvarla. Perciò, «il Discorso della montagna è diretto a tutto il mondo, nel presente e nel futuro … e può essere compreso e vissuto solo nella sequela di Gesù, nel camminare con Lui» (Gesù di Nazaret, p. 92). Le Beatitudini sono un nuovo programma di vita, per liberarsi dai falsi valori del mondo e aprirsi ai veri beni, presenti e futuri. Quando, infatti, Dio consola, sazia la fame di giustizia, asciuga le lacrime degli afflitti, significa che, oltre a ricompensare ciascuno in modo sensibile, apre il Regno dei Cieli. «Le Beatitudini sono la trasposizione della croce e della risurrezione nell’esistenza dei discepoli» (ibid., p. 97). Esse rispecchiano la vita del Figlio di Dio che si lascia perseguitare, disprezzare fino alla condanna a morte, affinché agli uomini sia donata la salvezza.

Afferma un antico eremita: «Le Beatitudini sono doni di Dio, e dobbiamo rendergli grandi grazie per esse e per le ricompense che ne derivano, cioè il Regno dei Cieli nel secolo futuro, la consolazione qui, la pienezza di ogni bene e misericordia da parte di Dio … una volta che si sia divenuti immagine del Cristo sulla terra» (Pietro di Damasco, in Filocalia, vol. 3, Torino 1985, p. 79). Il Vangelo delle Beatitudini si commenta con la storia stessa della Chiesa, la storia della santità cristiana, perché – come scrive san Paolo – «quello che è debole per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i forti; quello che è ignobile e disprezzato per il mondo, quello che è nulla, Dio lo ha scelto per ridurre al nulla le cose che sono» (1 Cor 1,27-28). Per questo la Chiesa non teme la povertà, il disprezzo, la persecuzione in una società spesso attratta dal benessere materiale e dal potere mondano. Sant’Agostino ci ricorda che «non giova soffrire questi mali, ma sopportarli per il nome di Gesù, non solo con animo sereno, ma anche con gioia» (De sermone Domini in monte, I, 5,13: CCL 35, 13).

Cari fratelli e sorelle, invochiamo la Vergine Maria, la Beata per eccellenza, chiedendo la forza di cercare il Signore (cfr Sof 2,3) e di seguirlo sempre, con gioia, sulla via delle Beatitudini.


Dopo l'Angelus:

Si celebra in questa domenica la “Giornata mondiale dei malati di lebbra”, promossa negli anni ’50 del secolo scorso da Raoul Follereau e riconosciuta ufficialmente dall’ONU. La lebbra, pur essendo in regresso, purtroppo colpisce ancora molte persone in condizione di grave miseria. A tutti i malati assicuro una speciale preghiera, che estendo a quanti li assistono e, in diversi modi, si impegnano a sconfiggere il morbo di Hansen. Saluto in particolare l’Associazione Italiana Amici di Raoul Follereau, che compie 50 anni di attività.

Nei prossimi giorni, in vari Paesi dell’Estremo Oriente si celebra, con gioia, specialmente nell’intimità delle famiglie, il capodanno lunare. A tutti quei grandi popoli auguro di cuore serenità e prosperità.

Oggi ricorre anche la “Giornata internazionale di intercessione per la pace in Terra Santa”. Mi associo al Patriarca Latino di Gerusalemme e al Custode di Terra Santa nell’invitare tutti a pregare il Signore affinché faccia convergere le menti e i cuori a concreti progetti di pace.

Sono lieto di rivolgere un caloroso saluto ai ragazzi e alle ragazze dell’Azione Cattolica della Diocesi di Roma, guidati dal Cardinale Vicario Agostino Vallini. Cari ragazzi, anche quest’anno siete venuti numerosi, al termine della vostra “Carovana della Pace”, il cui motto era: “Contiamo sulla Pace!”. Ascoltiamo ora il messaggio che i vostri amici, qui accanto a me, ci leggeranno.

Je salue les pèlerins francophones et plus particulièrement les Scouts Unitaires de France, qui célèbrent cette année leur quarantième anniversaire. Que la marche-relais, que vous entreprenez à la suite du Christ, soit pour vous une source de bonheur et de joie. Vous pourrez ensuite en partager les fruits, notamment lors des prochaines Journées Mondiales de la Jeunesse, à Madrid, où j’invite tous les jeunes francophones à venir très nombreux m’y rejoindre. Que Marie soit notre guide sur les sentiers qui nous conduisent à vivre en vérité les Béatitudes! Bon dimanche et bonne semaine à tous!

I greet warmly all the English-speaking visitors present at today’s Angelus. In this Sunday’s Gospel, we hear the eight Beatitudes, that beautiful account of what Christian discipleship demands of us. Jesus himself showed us the way by the manner of his life and death, and by rising from the dead he revealed the new life that awaits those who follow him along the path of love. Upon all of you here today, and upon your families and loved ones at home, I invoke abundant blessings of peace and joy.

Ein herzliches „Grüß Gott“ sage ich den Pilgern und Besuchern aus den Ländern deutscher Sprache. Im heutigen Evangelium zeigt Jesus mit den Seligpreisungen den Weg zur Glückseligkeit auf. Die Seligpreisungen stellen gleichsam ein Selbstbildnis Christi dar: seine Armut und Schlichtheit sowie seine Milde und Leidenschaft für Gerechtigkeit und Frieden. Je eifriger wir ihn in diesen Haltungen nachahmen, um so mehr schenkt er uns seine Liebe und stillt unsere innerste Sehnsucht nach Glückseligkeit und Frieden. Laßt uns diese wunderbare Gemeinschaft mit Christus pflegen. Dazu begleite euch Gott mit seiner Gnade.

Saludo con afecto a los peregrinos de lengua española presentes en esta oración mariana, en particular a los fieles de diversas parroquias de las diócesis de Valencia, Cádiz y Jerez de la Frontera. El anuncio de las Bienaventuranzas, que hoy nos presenta la liturgia, es una clara propuesta del Señor para vivir en comunión con Él y alcanzar la auténtica felicidad. Quien acoge con radicalidad este programa de vida, encuentra la fuerza necesaria para colaborar en la edificación del Reino de Dios y ser instrumento de salvación. Feliz domingo.

Moją myśl i słowo pozdrowienia kieruję do wszystkich Polaków. Ewangelia dzisiejszej Mszy świętej wspomina Kazanie Jezusa na Górze. Osiem Błogosławieństw, to fundament moralności nowego człowieka, program życia uczniów i wyznawców Chrystusa; to nowy wymiar relacji i wzajemnych odniesień. Zachęcając do realizacji tego programu, skierowanego do każdego z nas, z serca wszystkim błogosławię.

[Rivolgo ora il mio pensiero e la mia parola di saluto a tutti i Polacchi. Il Vangelo dell’odierna domenica presenta il “Discorso della montagna” di Gesù. Otto beatitudini: ecco il fondamento della moralità dell’uomo nuovo, il programma di vita dei discepoli di Cristo e di quanti credono in Lui; è una nuova dimensione delle relazioni e dei reciproci comportamenti. Invitandovi a seguire tale programma, destinato a ognuno di noi, vi benedico di cuore.]

Saluto infine i pellegrini di lingua italiana, in particolare i fedeli venuti da Chieti e Villamagna. A tutti auguro una buona domenica. Ed ora, insieme con i ragazzi dell’Azione Cattolica, liberiamo le colombe, simbolo di pace.

© Copyright 2011 - Libreria Editrice Vaticana



"Don Bosco l'italiano" La cultura come coscienza e identità di un popolo (Francesco Motto)


La cultura come coscienza e identità di un popolo

Don Bosco l'italiano

di Francesco Motto

Nelle librerie sono ormai sempre più numerosi i volumi sui 150 anni dell'Unità d'Italia. A breve, altri due illustreranno il contributo dato da don Giovanni Bosco, dai salesiani e dalle Figlie di Maria Ausiliatrice a "fare gli Italiani," dopo che l'Italia era stata fatta in un modo certamente non condiviso dal santo di Torino. Sul suo apporto personale all'identità italiana non esiste, tuttavia, dubbio alcuno. Gli si riconosce di aver portato alla ribalta nazionale la "questione giovanile" e lo si colloca nella collana "L'identità italiana" volta a presentare "la nostra storia: gli uomini, le donne, i luoghi, le idee, le cose che ci hanno fatti quello che siamo".

Che la nostra identità abbia radici nel passato e che, prima ancora del carattere politico assunto con il Regno d'Italia nel 1861, da secoli abbia un suo carattere nazionale linguistico, religioso, letterario, artistico è indubitabile.

Può essere allora interessante e anche inedito vedere l'apporto di don Bosco a tale italianità già nel quindicennio precedente l'Italia unita.

Del resto nel 1846 indicava alla massima autorità di Torino che egli intendeva insegnare ai suoi ragazzi quattro "valori": l'amore al lavoro, la frequenza dei santi sacramenti, il rispetto a ogni superiorità e la fuga dai cattivi compagni. Li avrebbe successivamente sintetizzati nella celebre espressione "onesto cittadino e buon cristiano".

Nel 1845 pubblica dunque un volume di 400 paginette: la Storia ecclesiastica ad uso delle scuole, utile ad ogni ceto di persone. In evidenza sono subito due dimensioni: quella religiosa e quella di taglio giovanile e popolare. Gli ecclesiastici, gli studiosi, le persone colte, gli allievi delle (poche) scuole superiori avevano già a loro disposizione grossi volumi; non così sempre i ragazzi delle scuole inferiori, dei collegi, dei piccoli seminari; non così i giovanotti semianalfabeti che frequentavano le scuole festive e serali; non così la gran massa della popolazione semianalfabeta dell'epoca. Quella di don Bosco non ha nulla a che vedere con le storie dotte e con quelle pure similari di Antoine-Henri de Bérault-Bercastel, di Réné F. Rohrbacher, di Johann J. I. von Döllinger. L'obiettivo che si propone è educativo, apologetico, catechistico: formare religiosamente i lettori, soprattutto i giovani studenti, con una bella storia, dando spazio ai "fatti più luminosi che direttamente alla Chiesa riguardano", soprattutto ai papi e ai santi, tralasciando o appena accennando i "fatti del tutto profani e civili aridi o meno interessanti, oppure posti in questione". L'Educatore. Giornale di educazione e di istruzione primaria lo recensiva positivamente, sottolineandone il principio educativo sotteso ("illuminare la mente per rendere buono il cuore") e apprezzandone il periodare "schietto e facile", "la lingua abbastanza pura"e "la sparsa unzione, che dolcemente ti commuove e alletta al bene", Il volume ebbe 25 edizioni-ristampe fino al 1913.

Non passano due anni che don Bosco dà alle stampe un'opera analoga, ossia La storia sacra per uso delle scuole, utile ad ogni stato di persone, arricchita di analoghe incisioni. Come sempre, onde "giovare alla gioventù", l'autore si prone la "facilità della dicitura e popolarità dello stile", anche se con ciò non può garantire "un lavoro elegante". I modelli ancora una volta sono libriccini esistenti sul mercato. Il volume è ben accolto dalla critica. Sul citato periodico di pedagogia torinese un maestro scrive che apprezza tanto l'opera al punto da adottarla e da consigliarla ai suoi colleghi: "I miei scolari vanno a ruba per averla nelle mani, e la leggono con ansietà e non rifiniscono di presentarla agli altri e di parlarne, chiaro segno che la capiscono". Tale comprensione è dovuta, a giudizio del maestro, alla "forma di dialogo" e alla dicitura "popolare, ma pura ed italiana".

Potrebbe essere stato questo apprezzamento uno dei motivi per cui don Bosco, sul finire del 1849, avanza richiesta alle autorità scolastiche del regno di adottare come testo scolastico un suo Corso di Storia Sacra dell'Antico e del Nuovo Testamento che intende "pubblicare, adorno anche di stampe, in modo acconcio per l'ammaestramento delle scuole elementari".

La domanda in un primo momento parve poter venire accolta favorevolmente, stante "l'assoluta mancanza di un libro migliore". Nel corso della seduta del consiglio superiore della Pubblica istruzione del 16 dicembre 1849 si esprimono sì delle riserve "dal lato dello stile e della esposizione", ma esse vengono compensate dalle "opportunissime considerazioni morali" e dalla "necessaria chiarezza" che fa "emergere assai bene dai fatti i dogmi fondamentali della religione". L'intervento critico e autorevole del relatore don Giuseppe Ghiringhello fa però mutare opinione allo stesso consiglio per i "molti errori grammaticali e ortografici", che rendono "meno utile quel lavoro per altro verso assai commendevole".

Evidentemente le esigenze del teologo Ghiringhello docente di Sacra Scrittura nella facoltà teologica della città non erano quelle dei maestri di scuole elementari (e di don Bosco), quotidianamente alle prese con fanciulli appena alfabetizzati, che normalmente si esprimevano in dialetto. La "fortuna" dell'opera è comunque notevole se alla morte di don Bosco (1888) le edizioni-ristampe sono arrivate a 19, e tante altre sarebbero state immesse sul mercato editoriale e scolastico fino al 1964.

Alla trilogia mancava ancora una storia, quella d'Italia che peraltro era richiesta dall'aria che si respirava. Ed ecco don Bosco darla alle stampe nel 1855: La storia d'Italia raccontata alla gioventù da' suoi primi abitatori sino ai nostri giorni, corredata da una carta geografica d'Italia. Questa volta la narrazione, che attinge come sempre ai compendi e manualetti dell'epoca, è più limpida del passato, dal momento che l'autore è ormai allenato da un decennio a scrivere. Sono però sempre pagine di uno scrittore che si adegua all'intelligenza dei suoi lettori, di un sacerdote che vuole presentare fatti fecondi di ammaestramenti spirituali, di un educatore di giovani "poveri ed abbandonati" che non fanno storia, ma la subiscono dalla prepotenza dei grandi. Non se ne rese conto Benedetto Croce 60 anni dopo quando - nonostante il rispettabile successo di ben 31 edizioni fino al 1907 - per la presenza di certe pagine lo definisce un "povero libro reazionario e clericale", mentre il coevo ministro cavouriano Giovanni Lanza lo encomia. Niccolò Tommaseo ne tesse gli elogi, pur notando che "non tutti i giudizi di lui sopra i fatti a me paiono indubitabili né i fatti tutti esattamente narrati", ma senza tacere che "non pochi de' moderni (...) nella storia (...) propongono a se un assunto da dover dimostrare e quello perseguono dal principio alla fine; e a quello piegano e torcono i fatti e gli affetti". Alla triplice storia si può accostare il fascicolo Il sistema metrico decimale ridotto a semplicità, preceduto dalle quattro prime operazioni dell'aritmetica, ad uso degli artigiani e della gente di campagna, rieditato nel dicembre 1849 alla vigilia del definitivo mutamento dei sistemi di misura in Piemonte (1° gennaio 1850). L'intento è sempre quello di insegnare in prospettiva educativa e moralistico, ma ciò che più interessa è il fatto che esso è pure rappresentato come commedia brillante in tre atti. Se ne conservano i dialoghi, ma non la sceneggiatura, anche se sappiamo che "variava sempre l'aspetto delle scene, ora rappresentando una bottega, ora un'officina, ora un'osteria, ora un'aperta campagna o la casa di un fattore. Erano recati in vista, e adoperati i nuovi e vecchi pesi, le vecchie e le nuove misure; primeggiava eziandio in mezzo il globo terracqueo (...) Talora il palco aveva l'aspetto di scuola co' suoi cartelloni, il pallottoliere e la lavagna (...) Coloro che rappresentavano gli scolari erano vestiti chi da contadino, chi da brentatore, chi da cuoco, chi da signorotto di campagna e altri in altre fogge. Un mugnaio era tutto bianco per la farina, un fabbro tutto nero per la polvere e il fumo del carbone. Gli spettatori godevano un mondo di queste scene e ancor più i giovanetti".

Fu un successo, stante anche il clima di comprensibile ansietà di un'opinione pubblica scarsamente istruita che dava al lavoro una cornice di straordinaria attualità e attesa. Nel lasciare la sala dello spettacolo il celebre abate Ferrante Aporti avrebbe commentato: "Bosco non poteva immaginare un mezzo più efficace per rendere popolare il sistema metrico decimale; qui lo si impara ridendo". "Ragazzi di strada", pressoché analfabeti, che diventano attori e docenti di una materia nuova e ostica, mezzi scenografici estremamente semplici che costituiscono il supporto per conferire all'apprendimento scolastico solidità e concretezza e allo spettacolo la naturale drammatizzazione: ce ne è a sufficienza per definire il "teatrino di don Bosco" come una scuola viva, coinvolgente, antesignana di una futura didattica partecipata e di nuovi mezzi espressivi.

Dunque ancor prima del 1861 don Bosco investe sulla massa dei giovani, perché il domani della società italiana sta nelle loro mani; per la loro formazione investe sulla storia d'Italia, perché la casa comune italiana ha radici ben più antiche dello Stato unitario; investe sulla fede cattolica perché è convinto che essa sia l'anima profonda del Paese; investe sull'italiano semplice, popolare, perché non c'è cultura nazionale senza lingua che tutti possano capire; investe sull'arte, anche se poverissima di mezzi, messa a servizio dell'educazione e del gusto estetico dei giovani di cui nessuno o quasi si interessa.

(©L'Osservatore Romano - 30 gennaio 2011)


sabato 29 gennaio 2011

Benedetto XVI alla comunità del Pontificio Collegio Etiopico in Vaticano "La santità dei sacerdoti segno di speranza per la Chiesa"


Benedetto XVI alla comunità del Pontificio Collegio Etiopico in Vaticano

La santità dei sacerdoti
segno di speranza per la Chiesa


La santità dei sacerdoti come segno di speranza per la Chiesa e per il mondo è stata proposta dal Papa alla comunità del Pontificio Collegio Etiopico in Vaticano, durante l'udienza svoltasi sabato mattina, 29 gennaio, nella Sala dei Papi. L'occasione è stata la ricorrenza del centocinquantesimo anniversario della morte di san Giustino De Jacobis, del quale Benedetto XVI ha illustrato l'esemplarità. Questo il discorso.


Cari fratelli e sorelle!

Sono lieto di accogliervi per la felice circostanza del 150° anniversario della nascita al Cielo di san Giustino De Jacobis. Saluto cordialmente ciascuno di voi, cari sacerdoti e seminaristi del Pontificio Collegio Etiopico, che la Divina Provvidenza ha posto a vivere vicino al sepolcro dell'Apostolo Pietro, segno degli antichi e profondi legami di comunione che uniscono la Chiesa in Etiopia ed in Eritrea con la Sede Apostolica. Saluto in modo speciale il Rettore, Padre Teclezghi Bahta, che ringrazio per le cortesi espressioni con cui ha introdotto il nostro incontro, ricordando le diverse e significative circostanze che lo hanno suggerito. Vi accolgo oggi con particolare affetto e, insieme a voi, mi è caro pensare alle vostre comunità di origine.

Vorrei ora soffermarmi sulla luminosa figura di san Giustino De Jacobis, del quale avete celebrato il significativo anniversario lo scorso 31 luglio. Degno figlio di san Vincenzo de' Paoli, san Giustino visse in modo esemplare il suo "farsi tutto a tutti", specialmente al servizio del popolo abissino. Inviato a trentotto anni dall'allora Prefetto di Propaganda Fide, il Cardinale Franzoni, come missionario in Etiopia, nel Tigrai, lavorò prima ad Adua e poi a Guala, dove pensò subito a formare preti etiopi, dando vita ad un seminario chiamato "Collegio dell'Immacolata". Con il suo zelante ministero operò instancabilmente perché quella porzione di popolo di Dio ritrovasse il fervore originario della fede, seminata dal primo evangelizzatore san Frumenzio (cfr. PL 21, 473-80). Giustino intuì con lungimiranza che l'attenzione al contesto culturale doveva essere una via privilegiata sulla quale la grazia del Signore avrebbe formato nuove generazioni di cristiani. Imparando la lingua locale e favorendo la plurisecolare tradizione liturgica del rito proprio di quelle comunità, egli si adoperò anche per un'efficace opera ecumenica. Per oltre un ventennio il suo generoso ministero, sacerdotale prima ed episcopale poi, andò a beneficio di quanti incontrava e amava come membra vive del popolo a lui affidato.

Per la sua passione educativa, specialmente nella formazione dei sacerdoti, può essere giustamente considerato il patrono del vostro Collegio; infatti, ancora oggi questa benemerita Istituzione accoglie presbiteri e candidati al sacerdozio sostenendoli nel loro impegno di preparazione teologica, spirituale e pastorale. Rientrando nelle comunità di origine, o accompagnando i connazionali emigrati all'estero, sappiate suscitare in ciascuno l'amore a Dio e alla Chiesa, sull'esempio di san Giustino De Jacobis. Egli coronò il suo fecondo contributo alla vita religiosa e civile dei popoli abissini con il dono della sua vita, silenziosamente riconsegnata a Dio dopo molte sofferenze e persecuzioni. Fu beatificato dal Venerabile Pio XII il 25 giugno 1939 e canonizzato dal Servo di Dio Paolo VI il 26 ottobre 1975.

Anche per voi, cari sacerdoti e seminaristi, è tracciata la via della santità! Cristo continua ad essere presente nel mondo e a rivelarsi attraverso coloro che, come san Giustino De Jacobis, si lasciano animare dal suo Spirito. Ce lo ricorda il Concilio Vaticano II che, tra l'altro, afferma: "Nella vita di quelli che, sebbene partecipi della nostra natura umana, sono tuttavia più perfettamente trasformati nell'immagine di Cristo (cfr. 2 Cor 3, 18), Dio manifesta vivamente agli uomini la sua presenza ed il suo volto. In loro è Egli stesso che ci parla e ci mostra il contrassegno del suo Regno" (Cost. dog. Lumen gentium, 50).

Cristo, l'eterno Sacerdote della Nuova Alleanza, che con la speciale vocazione al ministero sacerdotale ha "conquistato" la nostra vita, non sopprime le qualità caratteristiche della persona; al contrario, le eleva, le nobilita e, facendole sue, le chiama a servire il suo mistero e la sua opera. Dio ha bisogno anche di ciascuno di noi "per mostrare nei secoli futuri la straordinaria ricchezza della sua grazia mediante la sua bontà verso di noi in Cristo Gesù" (Ef 2, 7). Nonostante il carattere proprio della vocazione di ciascuno, non siamo separati tra di noi; siamo invece solidali, in comunione all'interno di un unico organismo spirituale. Siamo chiamati a formare il Cristo totale, un'unità ricapitolata nel Signore, vivificata dal suo Spirito per diventare il suo "pleroma" e arricchire il cantico di lode che Egli innalza al Padre. Cristo è inseparabile dalla Chiesa che è il suo Corpo. È nella Chiesa che Cristo congiunge più strettamente a sé i battezzati e, nutrendoli alla Mensa eucaristica, li rende partecipi della sua vita gloriosa (cfr. Lumen gentium, 48). La santità si colloca quindi nel cuore stesso del mistero ecclesiale ed è la vocazione a cui tutti siamo chiamati. I Santi non sono un ornamento che riveste la Chiesa dall'esterno, ma sono come i fiori di un albero che rivelano la inesauribile vitalità della linfa che lo percorre. È bello contemplare così la Chiesa, in modo ascensionale verso la pienezza del Vir perfectus; in continua, faticosa, progressiva maturazione; dinamicamente sospinta verso il pieno compimento in Cristo.

Cari sacerdoti e seminaristi del Pontificio Collegio Etiopico, vivete con gioia e dedizione questo periodo importante della vostra formazione, all'ombra della cupola di San Pietro: camminate con decisione sulla strada della santità. Voi siete un segno di speranza, specialmente per la Chiesa nei vostri Paesi di origine. Sono certo che l'esperienza di comunione vissuta qui a Roma vi aiuterà anche a portare un prezioso contributo alla crescita e alla pacifica convivenza delle vostre amate Nazioni. Accompagno il vostro cammino con la mia preghiera e, per intercessione di san Giustino De Jacobis e della Vergine Maria, vi imparto con affetto la Benedizione Apostolica, che estendo volentieri alle Suore di Maria Bambina, al Personale della Casa e a tutte le persone a voi care.

(©L'Osservatore Romano - 30 gennaio 2011)





Terra Santa News, 28 gennaio 2011



Terra Santa News - 28/01/2011


IV Domenica del Tempo Ordinario, Anno A - Domínica quarta post Epiphaníam (30 gennaio 2011)


MISSALE ROMANUM
Domenica, 30 Gennaio 2011

FORMA ORDINARIA


FORMA STRAORDINARIA


Cristo ci ha chiamati al suo regno e alla sua gloria

Dalla «Lettera ai cristiani di Smirne» di sant'Ignazio di Antiochia, vescovo e martire
(Intr.; Capp. 1, 1 -4, 1 Funk 1, 235-237)

Ignazio, detto anche Teoforo, si rivolge alla chiesa di Dio e del diletto Figlio suo Gesù Cristo. A questa chiesa, che si trova a Smirne in Asia, augura di godere ogni bene nella purezza dello spirito e nella parola di Dio: essa ha ottenuto per divina misericordia ogni grazia, è piena di fede e di carità e nessun dono le manca. E' degna di Dio e feconda di santità.

Ringrazio Gesù Cristo Dio che vi ha resi così saggi. Ho visto infatti che siete fondati su una fede incrollabile, come se foste inchiodati, carne e spirito, alla croce del Signore Gesù Cristo, e che siete pieni di carità nel sangue di Cristo. Voi credete fermamente nel Signore nostro Gesù, credete che egli discende veramente «dalla stirpe» di Davide secondo la carne» (Rm 1, 3) ed è figlio di Dio secondo la volontà e la potenza di Dio; che nacque veramente da una vergine; che fu battezzata da Giovanni per adempiere ogni giustizia (cfr. Mt 3, 15); che fu veramente inchiodato in croce per noi nella carne sotto Ponzio Pilato e il tetrarca Erode. Noi siamo infatti il frutto della sua croce e della sua beata passione. Avete ferma fede inoltre che con la sua risurrezione ha innalzato nei secoli il suo vessillo per riunire i suoi santi e i suoi fedeli, sia Giudei che Gentili, nell'unico corpo della sua Chiesa.

Egli ha sofferto la sua passione per noi, perché fossimo salvi; e ha sofferto realmente, come realmente ha risuscitato se stesso.

Io so e credo fermamente che anche dopo la risurrezione egli è nella sua carne. E quando si mostrò a Pietro e ai suoi compagni, disse loro: Toccatemi, palpatemi e vedete che non sono uno spirito senza corpo (cfr. Lc 24, 39). E subito lo toccarono e credettero alla realtà della sua carne e del suo spirito. Per questo disprezzarono la morte e trionfarono di essa. Dopo la sua risurrezione, poi, Cristo mangiò e bevve con loro proprio come un uomo in carne ed ossa, sebbene spiritualmente fosse unito al Padre.

Vi ricordo queste cose, o carissimi, quantunque sappia bene che voi vi gloriate della stessa fede mia.


venerdì 28 gennaio 2011

Intervista al cardinale Jean-Louis Tauran "Con i musulmani il dialogo deve proseguire" (Mario Ponzi)


Intervista al cardinale Jean-Louis Tauran

Con i musulmani il dialogo deve proseguire

di Mario Ponzi
Tra cristiani e musulmani c'è un dialogo che deve proseguire. Lo riafferma con convinzione il cardinale Jean-Louis Tauran, presidente del Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso, rispondendo a un'intervista sulle tensi0ni che stanno attraversando l'Egitto e altri Paesi arabi in questi giorni drammatici. Il cardinale coglie anche l'occasione per ribadire la disponibilità, mai venuta meno, all'incontro, ricordando che "a dialogare non sono le religioni ma i credenti, che sono un misto di bene e di male" e conferma che restano validi tutti gli appuntamenti fissati "compreso quello di febbraio con i nostri partner del Cairo".

Si aggrava la situazione in Egitto. C'è preoccupazione da parte del Pontificio Consiglio per quanto riguarda il dialogo tra cristiani e musulmani?

Sì, perché desideriamo capire bene quali siano i motivi che hanno potuto spingere il Consiglio dell'Accademia delle Ricerche Islamiche di Al Azhar, il 20 gennaio scorso, a "congelare" il dialogo con noi. Penso che una lettura attenta delle parole di Benedetto XVI nel messaggio per la Giornata della pace 2011, nonché del suo discorso al Corpo Diplomatico del 10 gennaio, possa aiutare a dissipare i malintesi. Da questi due testi, si capisce bene che il Papa si rifà ai valori universali e perciò, nel parlare del rispetto effettivo dei diritti e delle libertà della persona umana, egli non commette alcuna ingerenza in questioni che non sono di sua competenza. Si tratta di rimanere fedeli alla linea di Nostra Aetate, che ci esorta tutti a "dimenticare il passato e a esercitare sinceramente la mutua comprensione, nonché a difendere e promuovere insieme per tutti gli uomini la giustizia sociale, i valori morali, la pace e la libertà". E questo è valido per tutti.

Ma qualcuno afferma anche che il Papa non ama l'islam.

Niente di più falso. Basta leggere le parole rivolte ai rappresentanti delle religioni non cristiane proprio all'inizio del suo Pontificato, il 25 aprile 2005, in cui Benedetto XVI espresse il suo apprezzamento per "la crescita del dialogo con l'islam" e augurava di "continuare a stabilire ponti di amicizia con tutte le religioni, nella ricerca dell'autentico bene di ogni persona e della società intera". Poi, come non ricordare la visita alla Moschea blu di Istanbul, il 30 novembre 2007. Qualche giorno prima, rivolgendosi al Corpo Diplomatico accreditato in Turchia, volle dire "ancora una volta la sua stima per tutti i credenti musulmani, invitandoli ad impegnarsi assieme, grazie al mutuo rispetto a favore della dignità di ogni essere umano, e per la crescita di una società dove libertà personale e attenzione all'altro permettano a ciascuno di vivere nella pace e nella serenità". Il Papa invitava a valorizzare le nostre differenze storiche e culturali, non per affrontarsi, ma per rispettarsi reciprocamente. Sono stato pure testimone oculare del rispetto, col quale il Pontefice ha visitato la Cupola della Roccia, nel piazzale delle Moschee di Gerusalemme. Anche in quella circostanza, le sue parole durante la visita al Gran Muftì, sono state eloquenti: "È di somma importanza che quelli che adorano il Dio unico possano dimostrare di essere radicati contemporaneamente nella famiglia umana e di essere in relazione fondamentalmente gli uni con gli altri quali creature del Dio unico, segnati col sigillo indelebile del divino, chiamati a svolgere un ruolo attivo, ponendo riparo alle divisioni e promuovendo la solidarietà umana". Si potrebbe anche ricordare la riunione del novembre 2008 qui a Roma con i firmatari della famosa Lettera delle 138 personalità musulmane ai capi religiosi cristiani. Non ho mai trovato nelle parole di Benedetto XVI il minimo disprezzo per l'islam. Ricordiamoci che a dialogare non sono le religioni, ma i credenti, che sono un misto di bene e di male. Non sono le religioni a essere violente, ma semmai i loro seguaci.

Come pensa che si uscirà da questa crisi?

Si tratta d'incoraggiare tutte le religioni a vivere il dialogo tra le religioni come un'opportunità. Malgrado le deficienze dei seguaci delle religioni, dobbiamo tutti avere il coraggio di vigilare e di essere testimoni per promuovere l'amore, il rispetto, la pace. Nel mondo così precario e pieno di muri di separazione, fisici o morali, mi pare più che mai opportuno che le religioni, malgrado le loro differenze, promuovano assieme l'amore e la pace. Chi prega, ricorda a tutti gli uomini che l'uomo non vive di solo pane. Il dialogo tra le religioni è sempre una chiamata di Dio a riscoprire le proprie radici spirituali e a essere credenti coerenti.

Lei sembra molto ottimista.

Direi che sono realista. Se vogliamo progredire nel dialogo, si deve prima di tutto trovare il tempo di sedersi e parlarsi da persona a persona, non attraverso i giornali. Spero che chi legga i discorsi di Papa Benedetto XVI, sia aiutato a comprendere come le comunità di credenti siano chiamate a diventare scuole di preghiera e di fraternità. Poi, personalmente, credo molto nel ruolo della scuola e dell'Università, dove s'impone, secondo me, l'urgenza di una nuova redazione dei libri di storia, tanto dal punto di vista dello stile, che del contenuto. Così il dialogo interreligioso rimane uno strumento prioritario per la promozione della pace. Il Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso comunque continuerà ad accogliere con amicizia chi vuole entrare in conversazione con la Chiesa cattolica e diciamo ai nostri amici che apprezziamo quanto hanno fatto e fanno con coraggio e costanza per mantenere le antiche usanze di buon vicinato con i seguaci delle altre religioni. Quindi, per il momento, tutti i nostri appuntamenti restano validi, compreso quello di febbraio con i nostri partner del Cairo. Più che mai incombe su di noi credenti il dovere di far riscoprire ai nostri contemporanei che esiste un Amore più grande di loro, e quest'amore non può che spingerci a portare a tutti, nelle nostre mani disarmate, la luce di un'amicizia che niente può scoraggiare.

(©L'Osservatore Romano - 29 gennaio 2011)


Benedetto XVI ai partecipanti alla riunione della Commissione Mista Internazionale per il Dialogo Teologico tra la Chiesa Cattolica e le Chiese Orientali Ortodosse (28 gennaio 2011)


Preoccupazione del Papa per le prove e le difficoltà di tanti fedeli in diverse regioni

Fiducia reciproca tra i cristiani
per servire la pace e la giustizia


Preoccupazione per la situazione in cui vivono le comunità cristiane in alcune regioni del mondo è stata espressa dal Papa nella mattina di venerdì 28 gennaio durante l'incontro con i membri della commissione mista internazionale per il dialogo teologico tra Chiesa cattolica e Chiese ortodosse orientali. Il Papa ha anche invitato a proseguire in modo risoluto e decisivo il cammino verso la piena comunione. Del discorso pubblichiamo qui di seguito una nostra traduzione e a pagina 8 il testo in lingua inglese pronunciato da Benedetto XVI.


Eminenze, Eccellenze,
Cari Fratelli in Cristo,

è con grande gioia che vi accolgo, membri della Commissione Mista Internazionale per il Dialogo Teologico tra la Chiesa cattolica e le Chiese Orientali ortodosse. Attraverso di voi estendo volentieri saluti fraterni ai miei venerabili fratelli, i Capi delle Chiese orientali ortodosse.

Sono grato per l'opera della Commissione che è cominciata nel gennaio 2003 come iniziativa condivisa delle autorità ecclesiali della famiglia delle Chiese Orientali ortodosse e del Pontificio Consiglio per la Promozione dell'Unità dei cristiani.

Come sapete, l'esito della prima fase del dialogo, dal 2003 al 2009, è stato il testo congiunto intitolato Natura, Costituzione e missione della Chiesa. Il documento ha evidenziato aspetti di principi ecclesiologici fondamentali che condividiamo e questioni specifiche che richiederanno una riflessione più profonda in fasi successive del dialogo. Non possiamo che essere grati per il fatto che, dopo quasi cinquecento anni di separazione, troviamo ancora accordo sulla natura sacramentale della Chiesa, sulla successione apostolica nel servizio sacerdotale e sulla necessità impellente di testimoniare nel mondo il Vangelo di nostro Signore e Salvatore Gesù Cristo.

Nella seconda fase la Commissione ha riflettuto da un punto di vista storico sui modi in cui le Chiese hanno espresso la propria comunione nel corso dei secoli. Questa settimana, durante l'incontro, state approfondendo lo studio sulla comunione e sulla comunicazione esistenti fra le Chiese fino alla metà del quinto secolo della storia cristiana nonché sul ruolo svolto dal monachesimo nella vita della Chiesa primitiva.

Dobbiamo avere fiducia nel fatto che la vostra riflessione teologica condurrà le nostre Chiese non solo a comprendersi reciprocamente, ma a proseguire in modo risoluto e decisivo il nostro cammino verso la piena comunione alla quale siamo chiamati dalla volontà di Cristo. Per questa intenzione abbiamo elevato la nostra preghiera comune durante la Settimana di Preghiera per l'Unità dei Cristiani che si è appena conclusa.

Molti di voi giungono da regioni in cui le singole persone e le comunità cristiane affrontano prove e difficoltà che sono motivo di profonda preoccupazione per noi tutti. Tutti i cristiani devono cooperare all'accettazione e alla fiducia reciproche per servire la causa della pace e della giustizia. Che l'intercessione e l'esempio dei numerosi martiri e santi, che hanno reso una testimonianza generosa a Cristo in tutte le nostre Chiese, sostengano e rafforzino voi e le vostre comunità cristiane.
Con sentimenti di affetto fraterno invoco su tutti voi la grazia e la pace di nostro Signore Gesù Cristo.

(©L'Osservatore Romano - 29 gennaio 2011)



"Testimoni della Bellezza incarnata" Le opere di Melozzo accostate a capolavori di Piero della Francesca e Raffaello


In mostra a Forlì le opere di Melozzo
accostate a capolavori di Piero della Francesca e Raffaello

Testimoni della Bellezza incarnata

Sarà aperta dal 29 gennaio al 12 giugno a Forlì, nei Musei di San Domenico, la mostra "Melozzo da Forlì. L'umana bellezza tra Piero della Francesca e Raffaello". Pubblichiamo una presentazione scritta dal direttore dei Musei Vaticani che è curatore dell'esposizione.

di Antonio Paolucci

Questa è la terza mostra che, in età moderna, Forlì dedica al suo pittore eponimo. Perché per tutti, nella storia delle arti, Forlì e Melozzo si pronunciano insieme. La prima, rimasta celebre, è del 1938. Nasceva "sotto gli auspici del Duce" (così sta scritto in apertura di catalogo) e non c'è dubbio che a Mussolini avrà fatto piacere un evento che onorava la storia artistica della sua terra. Ciò non influì tuttavia - a parte l'inevitabile scotto pagato alla retorica del Ventennio e pur "nel profilo generale di una celebratività per certi aspetti stentorea" (Emiliani, 1994) - sul livello scientifico della mostra che è da considerare, per quegli anni, eccellente. Anche perché poteva contare sulla consulenza di Roberto Longhi professore a Bologna e ascoltatissimo mentore del Ministro della cultura Giuseppe Bottai, e sulla partecipazione al catalogo di storici dell'arte del livello di Cesare Gnudi e di Luisa Becherucci, all'epoca giovani ispettori di Soprintendenza. Anche Carlo Ludovico Ragghianti partecipò all'impresa. Il soprintendente di Bologna Calzecchi Onesti lo cita nella prefazione istituzionale al catalogo con parole di calorosa gratitudine.

Il limite della mostra del 1938 stava nel suo programmatico "panmelozzismo", quasi che il pittore forlivese avesse svolto, nel secolo XV, il ruolo di alfiere e ispiratore della storia artistica romagnola. Assunto politico-campanilistico indimostrato e indimostrabile. Prima di tutto perché il Melozzo vaticano - l'affresco del Platina e gli angeli musicanti dai Santi Apostoli - non c'era, sintomo ben significativo dei tesi rapporti, nel 1938, fra Papa Pio XI e Mussolini. Poi perché, nelle schede del catalogo, quella insostenibile teoria veniva minuziosamente ed efficacemente smontata dai giovani studiosi di formazione longhiana.

Il secondo appuntamento di Melozzo con la sua città è del 1994. La mostra, curata da Marina Foschi e da Luciana Prati, era dislocata fra l'Oratorio di San Sebastiano e Palazzo Albertini perché all'epoca gli spazi del San Domenico erano ancora di là da venire.

L'argomento era Melozzo in rapporto con Forlì nella seconda metà del XV secolo. Nel catalogo pubblicato per l'occasione (edizioni Leonardo) andranno ricordati il denso saggio di Andrea Emiliani e la ricostruzione biografica storica e stilistica dell'artista scritta dal mio compianto amico Stefano Tumidei; vera e propria monografia su Melozzo, un testo che, da allora, rimane per tutti noi fondamentale.


Ed eccoci all'ultimo incontro di Melozzo con la sua città. È la mostra curata da chi scrive con Daniele Benati e Mauro Natale per l'allestimento dello Studio Lucchi e Biserni, il catalogo di Silvana Editoriale, il coordinamento generale, come sempre efficientissimo e felicemente creativo, di Gianfranco Brunelli.

La ragione critica che governa il "nostro" Melozzo all'anno 2011, sta nel sottotitolo che campeggia nel catalogo e nei manifesti: "L'umana bellezza tra Piero della Francesca e Raffaello".

All'origine c'è una intuizione del giovane Gnudi affidata al catalogo del 1938: "Questa storicità delle figure di Melozzo, rispetto a quelle assolute e, senza tempo, di Piero, questo cercare una naturalezza ed immediatezza umana pur nell'impianto largo e solenne del maestro, definisce la personalità del forlivese".

Luca Pacioli nel suo Summa de arithmetica, geometria, proportioni e proporzionalità (1494) aveva dato di Melozzo la definizione teorematica e speculativa ("con libella e circino") destinata a durare nei secoli a venire. Roberto Longhi (1927) aveva visto nel forlivese il traduttore della prospettiva pierfrancescana in termini di alta retorica, di colorata scenografia.

Cesare Gnudi, da ultimo, aveva capito che "umana naturalezza" e "immediatezza" vivono nelle figure di Melozzo senza che ciò contraddica o diminuisca il suo genio di grande prospettico e di inventore (come a Loreto, come a Roma, come nella perduta Cappella Feo di Forlì) degli scenari celebrativi ed encomiastici più suggestivi del secolo.

Partendo da quella intuizione e organizzando la mostra in modo che i capolavori della Pinacoteca Vaticana ne fossero il fuoco concettuale e scenografico, abbiamo voluto presentare Melozzo come portatore e testimone della Bellezza incarnata.

C'è stata un'epoca nella storia delle arti - un'epoca che possiamo collocare fra la metà del XV secolo e i primi due decenni del XVI, fra Piero della Francesca a Sansepolcro e ad Arezzo e Raffaello nelle Stanze - che ha visto i supremi principi della Filosofia, dell'Etica, della Religione assumere le forme della umana venustà. La Bellezza che incarna l'idea ha da essere assoluta e allo stesso tempo naturale: così pensava Melozzo. La bellezza abita l'empireo dei supremi Veri e tuttavia è calata nella storia, è riconoscibile nelle donne e negli uomini che vivono sotto il cielo. Per questo è chiamata a essere definitiva, esemplare e proverbiale. E infatti ancora oggi si dice "bella come una Madonna di Raffaello", "bello come un angelo di Melozzo".

Per illustrare questo concetto, per dar forma a un fenomeno storico che si identifica con l'apice della stagione che i manuali chiamano del "rinascimento" e ne rappresenta il vero carattere distintivo, abbiamo chiamato in mostra, oltre a tutto il Melozzo conosciuto, Piero della Francesca (la Madonna di Senigallia da Urbino e il San Giuliano da Sansepolcro) gli Armigeri del Bramante di Brera, Botticelli dagli Uffizi, gli Antoniazzo più belli (la tavola di Montefalco), la Santa Eufemia di Mantegna da Capodimonte, Perugino rari e preziosi come il San Sebastiano Borghese, come la squisita e già nota agli studi Annunciazione di proprietà privata. Oltre, naturalmente, a Raffaello: il Raffaello dell'Angelo di Brescia, del San Sebastiano di Bergamo.

È una adunata di grandi artisti che in parte replica (con Piero monarcha de la pictura, con Mantegna, con Perugino, con Sandro Botticelli) la celebre lista stesa nel 1494 da Luca Pacioli.

Sono pittori, tutti, che negli stessi anni e sia pure nella diversità delle tendenze e degli stili, partecipano con Melozzo dello stesso obiettivo: far sì che l'umana bellezza appaia agli occhi di chi guarda, l'ombra di Dio sulla terra.

Pittore "ideologico" e teorematico al pari dell'Alberti e del Mantegna, Melozzo fu veramente pictor papalis come è chiamato nei documenti. La via romana e cattolica alla gloria della bellezza visibile - la via inaugurata nel 1450 dall'Angelico nella Cappella di Niccolò V e conclusa da Raffaello nelle Stanze, sintesi di ideologia sublime e di altissima propaganda - negli anni Settanta e Ottanta del Quattrocento ebbe in Melozzo da Forlì il suo massimo testimone. Credo che chiunque visiterà la mostra lo capirà.

Per questo ho voluto al San Domenico - ed è la prima volta che esce dal Vaticano - l'affresco del Platina, con la scena del grande intellettuale che riceve in ginocchio da Papa Sisto iv la carica di Prefetto della Biblioteca Apostolica. È l'alleanza fra la Chiesa e la Cultura che in quel celebre dipinto viene significata.

Tutto quello che avverrà dopo sotto il cielo di Roma - il Belvedere del Bramante e la cupola di San Pietro, Raffaello e Michelangelo, la Galleria di Annibale Carracci in Palazzo Farnese, i cieli barocchi di Pietro da Cortona, le fontane e gli obelischi nelle piazze, le biblioteche sterminate e i musei mirabili - tutto quello che ha fatto la visibile immagine d'Italia sotto il segno della Bellezza, ha in quell'affresco le sue premesse.

(©L'Osservatore Romano - 29 gennaio 2011)


San Tommaso d'Aquino, sacerdote e dottore della Chiesa (m) 28 gennaio


MISSALE ROMANUM
28 Gennaio 2011

FORMA ORDINARIA
SAN TOMMASO D'AQUINO(m)
Sacerdote e dottore della Chiesa



Nessun esempio di virtù è assente dalla croce

Dalle «Conferenze» di san Tommaso d'Aquino, sacerdote

Fu necessario che il Figlio di Dio soffrisse per noi? Molto, e possiamo parlare di una duplice necessità: come rimedio contro il peccato e come esempio nell'agire.

Fu anzitutto un rimedio, perché è nella passione di Cristo che troviamo rimedio contro tutti i mali in cui possiamo incorrere per i nostri peccati.

Ma non minore è l'utilità che ci viene dal suo esempio. La passione di Cristo infatti è sufficiente per orientare tutta la nostra vita.

Chiunque vuol vivere in perfezione non faccia altro che disprezzare quello che Cristo disprezzò sulla croce, e desiderare quello che egli desiderò. Nessun esempio di virtù infatti è assente dalla croce.

Se cerchi un esempio di carità, ricorda: «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici» (Gv 15, 13).

Questo ha fatto Cristo sulla croce. E quindi, se egli ha dato la sua vita per noi, non ci deve essere pesante sostenere qualsiasi male per lui.

Se cerchi un esempio di pazienza, ne trovi uno quanto mai eccellente sulla croce. La pazienza infatti si giudica grande in due circostanze: o quando uno sopporta pazientemente grandi avversità, o quando si sostengono avversità che si potrebbero evitare, ma non si evitano.

Ora Cristo ci ha dato sulla croce l'esempio dell'una e dell'altra cosa. Infatti «quando soffriva non minacciava» (1 Pt 2, 23) e come un agnello fu condotto alla morte e non apri la sua bocca (cfr. At 8, 32).

Grande è dunque la pazienza di Cristo sulla croce: «Corriamo con perseveranza nella corsa, tenendo fisso lo sguardo su Gesù, autore e perfezionatore della fede. Egli, in cambio della gioia che gli era posta innanzi, si sottopose alla croce, disprezzando l'ignominia» (Eb 12, 2).

Se cerchi un esempio di umiltà, guarda il crocifisso: Dio, infatti, volle essere giudicato sotto Ponzio Pilato e morire.

Se cerchi un esempio di obbedienza, segui colui che si fece obbediente al Padre fino alla morte: «Come per la disobbedienza di uno solo, cioè di Adamo, tutti sono stati costituiti peccatori, così anche per l'obbedienza di uno solo tutti saranno costituiti giusti» (Rm 5, 19).

Se cerchi un esempio di disprezzo delle cose terrene, segui colui che è il Re dei re e il Signore dei signori, «nel quale sono nascosti tutti i tesori della sapienza e della scienza» (Col 2, 3). Egli è nudo sulla croce, schernito, sputacchiato, percosso, coronato di spine, abbeverato con aceto e fiele.

Non legare dunque il tuo cuore alle vesti ed alle ricchezze, perché «si sono divise tra loro le mie vesti» (Gv 19, 24); non gli onori, perché ho provato gli oltraggi e le battiture (cfr. Is 53, 4); non alle dignità, perché intrecciata una corona di spine, la misero sul mio capo (cfr. Mc 15, 17); non ai piaceri, perché «quando avevo sete, mi han dato da bere aceto» (Sal 68, 22).