mercoledì 30 novembre 2011

Incontro del Consiglio d’Europa sulla dimensione religiosa del dialogo interculturale "Senza fede non si fa l’Europa"




Incontro del Consiglio d’Europa sulla dimensione religiosa del dialogo interculturale

Senza fede
non si fa l’Europa

di Marco Bellizi

Lussemburgo, 30. Senza l’aiuto della religione non si costruisce l’Europa. Specialmente in un contesto sempre più multiculturale, dove i valori comuni, se relativizzati, rischiano di essere svuotati di contenuto e di autorevolezza. È sulla base di queste considerazioni che arriva l’appello a sostenere il progetto di una piattaforma stabile di dialogo fra il Consiglio d’Europa e i rappresentanti delle religioni, dei gruppi non confessionali e dei media. La richiesta è arrivata al termine dell’incontro sul «Ruolo dei media nella promozione del dialogo interculturale, della tolleranza e della mutua comprensione: libertà d’espressione dei media e rispetto della diversità culturale e religiosa», organizzato in Lussemburgo dallo stesso Consiglio d’Europa, al quale hanno partecipato leader religiosi, rappresentanti di organizzazioni internazionali e professionisti dell’informazione. È stata in particolare Anne Brasseur, dell’assemblea parlamentare dello stesso organismo, a proporre di dare seguito concreto alla raccomandazione già posta all’attenzione del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa.

Viene dunque riconosciuta l’urgenza di ascoltare quello che le comunità religiose presenti nel continente hanno da dire riguardo al rispetto reciproco e a una fruttuosa convivenza. Un campo nel quale i rappresentanti religiosi, principalmente cristiani, e cattolici in particolare, vantano una riconosciuta expertise, costruita nel corso di decenni di confronto ecumenico e fra le diverse fedi. «C’è una nuova attenzione — spiega monsignor Aldo Giordano, Osservatore Permanente presso il Consiglio d’Europa — e una maggiore coscienza del ruolo delle religioni. La prospettiva è corretta, anche perché qui non si tratta di sostituirsi al dialogo interreligioso, che ovviamente viene condotto da tempo in altre sedi, né si vogliono affrontare temi teologici. Si tratta di riconoscere che la religione è determinante per l’identità culturale che, in Europa, è un’identità evidentemente cristiana. Del resto è proprio in virtù di questa identità, naturalmente portata ad aprirsi all’altro, che il continente cerca di affrontare nella giusta maniera le nuove sfide che gli si pongono di fronte». Fra queste c’è il tema dell’educazione. Di quanti operano nel mondo della comunicazione, ma anche di chi legge o ascolta le notizie. Nell’organizzare l’incontro in Lussemburgo il Consiglio d’Europa ha riconosciuto che il giornalismo tradizionale e i nuovi media hanno un ruolo cruciale nel favorire atteggiamenti tolleranti o meno rispetto alle diverse comunità religiose. In apparenza è una osservazione quasi scontata. Ma consente di affermare che le diversità oggettive e ineliminabili che esistono fra le fedi non possono essere sempre chiamate a pretesto per il sorgere di sentimenti di ostilità che spesso hanno altra natura: «Le religioni hanno molto da dire — osserva padre Duarte Nuno Queiroz de Barros da Cunha, segretario generale del Consiglio delle conferenza episcopali europee — nella costruzione di una comunità multiculturale. Esse sono interpellate dai media per contribuire a questa costruzione. Ma nello stesso tempo occorre che i media acquistino una maggiore consapevolezza quando raccontano la vita religiosa delle comunità». Stereotipi e sensazionalismi sono i pericoli più evidenti. Poi c’è la mancanza di competenza professionale, l’ignoranza che, ha sottolineato Anne Brasseur, «è il peggiore nemico della tolleranza». L’estremismo non è, purtroppo, un fatto nuovo nel continente. Oggi — ha detto il segretario generale del Consiglio d’Europa, Thorbjørn Jagland, presentando l’incontro in Lussemburgo — «l’Europa si sta polarizzando, anche per gli effetti della crisi economica. Assistiamo al successo di partiti che fanno leva su questi sentimenti: la discriminazione nei confronti dei rom, l’antisemitismo, gli atteggiamenti ostili nei confronti dei musulmani. Credo che, per esempio, musulmani e non musulmani debbano conoscersi meglio. Va riconosciuto il grande contributo che l’islam ha dato anche alla cultura europea ma, allo stesso tempo, il ruolo del cristianesimo nella costruzione dell’identità dell’Europa».

Si tratta anche di condividere dei valori comuni, che non possono essere quelli influenzati dal contesto storico e culturale ma quelli che hanno carattere universale in quanto inerenti alla natura umana. Diritti fondamentali che — osserva padre Laurent Mazas, del Pontifico Consiglio della Cultura — «sono un patrimonio che l’Europa ha ereditato dal cristianesimo e che non hanno niente a che fare con l’evoluzione giuridica che oggi talvolta si pretende di accreditare». Nel momento di individuare una base comune di convivenza, dunque, i cattolici ricordano che i valori universali sono quelli che l’Europa deriva proprio dalla sua identità cristiana. Del resto, come è stato osservato, se si vogliono costruire ponti è proprio per non tagliare le montagne.

© L'Osservatore Romano 1 dicembre 2011

Benedetto XVI all'Udienza Generale "La preghiera attraversa tutta la vita di Gesù" (30 novembre 2011)



BENEDETTO XVI

UDIENZA GENERALE

Aula Paolo VI
Mercoledì, 30 novembre 2011



La preghiera attraversa tutta la vita di Gesù

Cari fratelli e sorelle,

nelle ultime catechesi abbiamo riflettuto su alcuni esempi di preghiera nell’Antico Testamento, oggi vorrei iniziare a guardare a Gesù, alla sua preghiera, che attraversa tutta la sua vita, come un canale segreto che irriga l’esistenza, le relazioni, i gesti e che lo guida, con progressiva fermezza, al dono totale di sé, secondo il progetto di amore di Dio Padre. Gesù è il maestro anche delle nostre preghiere, anzi Egli è il sostegno attivo e fraterno di ogni nostro rivolgerci al Padre. Davvero, come sintetizza un titolo del Compendio del Catechismo della Chiesa Cattolica, «la preghiera è pienamente rivelata ed attuata in Gesù» (541-547). A Lui vogliamo guardare nelle prossime catechesi.


Un momento particolarmente significativo di questo suo cammino è la preghiera che segue il battesimo a cui si sottopone nel fiume Giordano. L'Evangelista Luca annota che Gesù, dopo aver ricevuto, insieme a tutto il popolo, il battesimo per mano di Giovanni il Battista, entra in una preghiera personalissima e prolungata: «Mentre tutto il popolo veniva battezzato e Gesù, ricevuto anche lui il battesimo, stava in preghiera, il cielo si aprì e discese sopra di lui lo Spirito Santo» (Lc 3,21-22). Proprio questo «stare in preghiera», in dialogo con il Padre illumina l'azione che ha compiuto insieme a tanti del suo popolo, accorsi alla riva del Giordano. Pregando, Egli dona a questo suo gesto, del battesimo, un tratto esclusivo e personale.

Il Battista aveva rivolto un forte appello a vivere veramente come «figli di Abramo», convertendosi al bene e compiendo frutti degni di tale cambiamento (cfr Lc 3,7-9). E un gran numero di Israeliti si era mosso, come ricorda l’Evangelista Marco, che scrive: «Accorrevano… [a Giovanni] tutta la regione della Giudea e tutti gli abitanti di Gerusalemme. E si facevano battezzare da lui nel fiume Giordano, confessando i loro peccati» (Mc 1,5). Il Battista portava qualcosa di realmente nuovo: sottoporsi al battesimo doveva segnare una svolta determinante, lasciare una condotta legata al peccato ed iniziare una vita nuova. Anche Gesù accoglie questo invito, entra nella grigia moltitudine dei peccatori che attendono sulla riva del Giordano. Ma, come ai primi cristiani, anche in noi sorge la domanda: perché Gesù si sottopone volontariamente a questo battesimo di penitenza e di conversione? Non ha da confessare peccati, non aveva peccati, quindi anche non aveva bisogno di convertirsi. Perché allora questo gesto? L’Evangelista Matteo riporta lo stupore del Battista che afferma: «Sono io che ho bisogno di essere battezzato da te, e tu vieni da me?» (Mt 3,14) e la risposta di Gesù: «Lascia fare per ora, perché conviene che adempiamo ogni giustizia» (v. 15). Il senso della parola «giustizia» nel mondo biblico è accettare pienamente la volontà di Dio. Gesù mostra la sua vicinanza a quella parte del suo popolo che, seguendo il Battista, riconosce insufficiente il semplice considerarsi figli di Abramo, ma vuole compiere la volontà di Dio, vuole impegnarsi perché il proprio comportamento sia una risposta fedele all’alleanza offerta da Dio in Abramo. Discendendo allora nel fiume Giordano, Gesù, senza peccato, rende visibile la sua solidarietà con coloro che riconoscono i propri peccati, scelgono di pentirsi e di cambiare vita; fa comprendere che essere parte del popolo di Dio vuol dire entrare in un’ottica di novità di vita, di vita secondo Dio.


In questo gesto Gesù anticipa la croce, dà inizio alla sua attività prendendo il posto dei peccatori, assumendo sulle sue spalle il peso della colpa dell’intera umanità, adempiendo la volontà del Padre. Raccogliendosi in preghiera, Gesù mostra l’intimo legame con il Padre che è nei Cieli, sperimenta la sua paternità, coglie la bellezza esigente del suo amore, e nel colloquio con il Padre riceve la conferma della sua missione. Nelle parole che risuonano dal Cielo (cfr Lc 3,22) vi è il rimando anticipato al mistero pasquale, alla croce e alla risurrezione. La voce divina lo definisce «Il Figlio mio, l’amato», richiamando Isacco, l'amatissimo figlio che il padre Abramo era disposto a sacrificare, secondo il comando di Dio (cfr Gen 22,1-14). Gesù non è solo il Figlio di Davide discendente messianico regale, o il Servo di cui Dio si compiace, ma è anche il Figlio unigenito, l’amato, simile a Isacco, che Dio Padre dona per la salvezza del mondo. Nel momento in cui, attraverso la preghiera, Gesù vive in profondità la propria figliolanza e l’esperienza della paternità di Dio (cfr Lc 3,22b), discende lo Spirito Santo (cfr Lc 3,22a), che lo guida nella sua missione e che Egli effonderà dopo essere stato innalzato sulla croce (cfr Gv 1,32-34; 7,37-39), perché illumini l’opera della Chiesa. Nella preghiera, Gesù vive un ininterrotto contatto con il Padre per realizzare fino in fondo il progetto di amore per gli uomini.

Sullo sfondo di questa straordinaria preghiera sta l’intera esistenza di Gesù vissuta in una famiglia profondamente legata alla tradizione religiosa del popolo di Israele. Lo mostrano i riferimenti che troviamo nei Vangeli: la sua circoncisione (cfr Lc 2,21) e la sua presentazione al tempio (cfr Lc 2,22-24), come pure l’educazione e la formazione a Nazaret, nella santa casa (cfr Lc 2,39-40 e 2,51-52). Si tratta di «circa trent’anni» (Lc 3,23), un tempo lungo di vita nascosta e feriale, anche se con esperienze di partecipazione a momenti di espressione religiosa comunitaria, come i pellegrinaggi a Gerusalemme (cfr Lc 2,41). Narrandoci l'episodio di Gesù dodicenne nel tempio, seduto in mezzo ai maestri (cfr Lc 2,42-52), l'evangelista Luca lascia intravedere come Gesù, che prega dopo il battesimo al Giordano, ha una lunga abitudine di orazione intima con Dio Padre, radicata nelle tradizioni, nello stile della sua famiglia, nelle esperienze decisive in essa vissute. La risposta del dodicenne a Maria e Giuseppe indica già quella filiazione divina, che la voce celeste manifesta dopo il battesimo: «Perché mi cercavate? Non sapete che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?» (Lc 2,49). Uscito dalle acque del Giordano, Gesù non inaugura la sua preghiera, ma continua il suo rapporto costante, abituale con il Padre; ed è in questa unione intima con Lui che compie il passaggio dalla vita nascosta di Nazaret al suo ministero pubblico.

L’insegnamento di Gesù sulla preghiera viene certo dal suo modo di pregare acquisito in famiglia, ma ha la sua origine profonda ed essenziale nel suo essere il Figlio di Dio, nel suo rapporto unico con Dio Padre. Il Compendio del Catechismo della Chiesa Cattolica risponde alla domanda: Da chi Gesù ha imparato a pregare?, così: «Gesù, secondo il suo cuore di uomo, ha imparato a pregare da sua Madre e dalla tradizione ebraica. Ma la sua preghiera sgorga da una sorgente più segreta, poiché è il Figlio eterno di Dio che, nella sua santa umanità, rivolge a suo Padre la preghiera filiale perfetta» (541).

Nella narrazione evangelica, le ambientazioni della preghiera di Gesù si collocano sempre all'incrocio tra l’inserimento nella tradizione del suo popolo e la novità di una relazione personale unica con Dio. «Il luogo deserto» (cfr Mc 1,35; Lc 5,16) in cui spesso si ritira, «il monte» dove sale a pregare (cfr Lc 6,12; 9,28), «la notte» che gli permette la solitudine (cfr Mc 1,35; 6,46-47; Lc 6,12) richiamano momenti del cammino della rivelazione di Dio nell’Antico Testamento, indicando la continuità del suo progetto salvifico. Ma al tempo stesso, segnano momenti di particolare importanza per Gesù, che consapevolmente si inserisce in questo piano, fedele pienamente alla volontà del Padre.

Anche nella nostra preghiera noi dobbiamo imparare, sempre di più, ad entrare in questa storia di salvezza di cui Gesù è il vertice, rinnovare davanti a Dio la nostra decisione personale di aprirci alla sua volontà, chiedere a Lui la forza di conformare la nostra volontà alla sua, in tutta la nostra vita, in obbedienza al suo progetto di amore per di noi.

La preghiera di Gesù tocca tutte le fasi del suo ministero e tutte le sue giornate. Le fatiche non la bloccano. I Vangeli, anzi, lasciano trasparire una consuetudine di Gesù a trascorrere in preghiera parte della notte. L'Evangelista Marco racconta una di queste notti, dopo la pesante giornata della moltiplicazione dei pani e scrive: «E subito costrinse i suoi discepoli a salire sulla barca e a precederlo sull’altra riva, a Betsàida, finché non avesse congedato la folla. Quando li ebbe congedati, andò sul monte a pregare. Venuta la sera, la barca era in mezzo al mare ed egli, da solo, a terra» (Mc 6,45-47). Quando le decisioni si fanno urgenti e complesse, la sua preghiera diventa più prolungata e intensa. Nell’imminenza della scelta dei Dodici Apostoli, ad esempio, Luca sottolinea la durata notturna della preghiera preparatoria di Gesù: «In quei giorni egli se ne andò sul monte a pregare e passò tutta la notte pregando Dio. Quando fu giorno, chiamò a sé i suoi discepoli e ne scelse dodici, ai quali diede anche il nome di apostoli» (Lc 6,12-13).

Guardando alla preghiera di Gesù, deve sorgere in noi una domanda: come prego io? come preghiamo noi? Quale tempo dedico al rapporto con Dio? Si fa oggi una sufficiente educazione e formazione alla preghiera? E chi può esserne maestro? Nell’Esortazione apostolica Verbum Domini ho parlato dell’importanza della lettura orante della Sacra Scrittura. Raccogliendo quanto emerso nell’Assemblea del Sinodo dei Vescovi, ho posto un accento particolare sulla forma specifica della lectio divina. Ascoltare, meditare, tacere davanti al Signore che parla è un'arte, che si impara praticandola con costanza. Certamente la preghiera è un dono, che chiede, tuttavia, di essere accolto; è opera di Dio, ma esige impegno e continuità da parte nostra; soprattutto, la continuità e la costanza sono importanti. Proprio l’esperienza esemplare di Gesù mostra che la sua preghiera, animata dalla paternità di Dio e dalla comunione dello Spirito, si è approfondita in un prolungato e fedele esercizio, fino al Giardino degli Ulivi e alla Croce. Oggi i cristiani sono chiamati a essere testimoni di preghiera, proprio perché il nostro mondo è spesso chiuso all'orizzonte divino e alla speranza che porta l’incontro con Dio. Nell’amicizia profonda con Gesù e vivendo in Lui e con Lui la relazione filiale con il Padre, attraverso la nostra preghiera fedele e costante, possiamo aprire finestre verso il Cielo di Dio. Anzi, nel percorrere la via della preghiera, senza riguardo umano, possiamo aiutare altri a percorrerla: anche per la preghiera cristiana è vero che, camminando, si aprono cammini.

Cari fratelli e sorelle, educhiamoci ad un rapporto con Dio intenso, ad una preghiera che non sia saltuaria, ma costante, piena di fiducia, capace di illuminare la nostra vita, come ci insegna Gesù. E chiediamo a Lui di poter comunicare alle persone che ci stanno vicino, a coloro che incontriamo sulla nostra strada, la gioia dell’incontro con il Signore, luce per la nostra l’esistenza. Grazie.




Saluti:


Chers pèlerins francophones, je suis heureux de vous accueillir et de saluer le séminaire pontifical français de Rome, ainsi que la délégation du diocèse de Belley-Ars accompagnée de l’Évêque, Mgr Guy Bagnard, venue offrir à la Basilique vaticane un portrait du saint curé d’Ars, en commémoration de l’Année sacerdotale. À la suite de saint Jean-Marie Vianney, réapprenons l’importance de la prière dans nos vies ! En priant régulièrement, nous entrerons avec Jésus dans le projet d’amour de Dieu sur nous et nous trouverons la force et la joie d’y répondre généreusement.


I greet the distinguished delegations from various countries taking part in the meeting promoted by the Community of Sant’Egidio on the theme: No Justice without Life. I express my hope that your deliberations will encourage the political and legislative initiatives being promoted in a growing number of countries to eliminate the death penalty and to continue the substantive progress made in conforming penal law both to the human dignity of prisoners and the effective maintenance of public order. Upon all the English-speaking pilgrims present, including those from the United States, I invoke God’s blessings of joy and peace!

Mit Freude grüße ich die deutschsprachigen Pilger und Besucher. Auch wir sind als Kinder Gottes gerufen, durch das Gebet in die vertrauensvolle Beziehung zu Gott, unserem Vater zu treten. Seine Liebe schenkt uns die wahre Freude, die wir unseren Mitmenschen weitergeben dürfen. Euch allen wünsche ich eine gesegnete Adventszeit.

Saludo a los peregrinos de lengua española, en particular a los grupos provenientes de España, Argentina, Bolivia, Chile, Guatemala, México y otros países latinoamericanos. Invito a todos a una relación intensa con Dios, cultivando una oración constante, llena de confianza, capaz de iluminar la vida, para así comunicar a todos la alegría del encuentro con el Señor. Muchas gracias.

Saúdo os peregrinos de língua portuguesa, particularmente os brasileiros vindos de Lorena e de Curitiba, a quem desejo uma prática de oração constante e cheia de confiança para poderdes comunicar a todos quantos vivem ao vosso redor a alegria do encontro com o Senhor, luz para as nossas vidas! E que Ele vos abençoe a vós e às vossas famílias!

Saluto in lingua polacca:

Serdecznie witam polskich pielgrzymów. Słowa pozdrowienia i duchowej bliskości kieruję do sióstr mistrzyń ze Zgromadzenia Elżbietanek. Na początku adwentu zachęcam wszystkich do czuwania na modlitwie i przygotowania serc na spotkanie z przychodzącym Panem przez dzieła miłosierdzia wobec braci. Niech Bóg wam błogosławi!

Traduzione italiana:

Do un cordiale benvenuto ai pellegrini polacchi. In particolare rivolgo una parola di saluto e di spirituale vicinanza alle suore maestre della Congregazione delle Elisabettane. All’inizio dell’Avvento incoraggio tutti voi a vigilare nella preghiera e a preparare i cuori – attraverso le opere di misericordia verso i fratelli – all’incontro con il Signore che viene. Dio vi benedica!

Saluto in lingua croata:

Najsrdačnije pozdravljam sve hrvatske hodočasnike, a osobito časne sestre Kćeri Božje Ljubavi, praćene Gospodinom Kardinalom Vinkom Puljićem. Vaše hodočašće je zahvala za nedavnu beatifikaciju u Sarajevu vaših pet sestara koje su podnijele mučeništvo za vrijeme Drugog svjetskog rata. Dok zahvaljujemo na njihovom svjedočanstvu, molimo Boga da nam podari hrabrost i ustrajnost u našem služenju. Hvaljen Isus i Marija!

Traduzione italiana:

Saluto di cuore i pellegrini Croati, in modo particolare le Suore della Congregazione delle Figlie della Divina Carità, accompagnate dal Signor Cardinale Vinko Puljić. Il vostro pellegrinaggio è occasione di ringraziamento per la recente beatificazione a Sarajevo delle cinque vostre consorelle che hanno subito il martirio durante la II^ Guerra mondiale. Mentre siamo grati per la loro testimonianza, preghiamo Dio che ci doni il coraggio e la perseveranza nel nostro servizio. Siano lodati Gesù e Maria!

Saluto in lingua slovacca:

S láskou vítam pútnikov zo Slovenska: osobitne z Farnosti Modra.
Bratia a sestry, v tomto milostivom čase Adventu prosme Ducha Svätého aby nás pretvoril na svedkov Božej lásky a na nositeľov pokoja. Zo srdca žehnám vás i vaše rodiny.
Pochválený buď Ježiš Kristus!

Traduzione italiana:

Con affetto do il benvenuto ai pellegrini provenienti dalla Slovacchia: particolarmente a quelli dalla Parrocchia di Modra.
Fratelli e sorelle, in questo tempo di grazia dell’Avvento chiediamo allo Spirito Santo che ci trasformi in testimoni dell’amore di Dio e portatori di pace. Cordialmente benedico voi e le vostre famiglie.
Sia lodato Gesù Cristo!

* * *

Cari fratelli e sorelle,

rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. In particolare, saluto i rappresentanti della «Federazione Italiana Panificatori e Pasticceri» ed esprimo loro viva riconoscenza per il gradito dono dei panettoni destinati alle opere di carità del Papa. Saluto i volontari della «Croce Rossa della Puglia» e li esorto a proseguire nella loro attività in favore dei fratelli più bisognosi. Saluto la Delegazione del Comune di Cervia, ringraziando per il tradizionale omaggio di un prodotto tipico della loro terra.

Rivolgo infine un pensiero affettuoso ai giovani, ai malati e agli sposi novelli. Cari giovani, vi invito a riscoprire, nel clima spirituale dell'Avvento, l'intimità con Cristo, ponendovi alla scuola della Vergine Maria. Raccomando a voi, cari ammalati, di trascorrere questo periodo di attesa e di preghiera più intensa offrendo al Signore che viene le vostre sofferenze per la salvezza del mondo. Esorto infine voi, cari sposi novelli, ad essere costruttori di famiglie cristiane autentiche, ispirandovi al modello della Santa Famiglia di Nazaret, a cui guardiamo particolarmente in questo tempo di preparazione al Natale.

© Copyright 2011 - Libreria Editrice Vaticana

Sant'Andrea, apostolo (f) 30 novembre




30 NOVEMBRE

Andrea, dal bel nome greco (Andreas = Virile), appare un uomo generoso, pronto, aperto, entusiasta. Era figlio di Giona di Betsaida (Mt 16,17), fratello minore di Pietro. Fu discepolo di Giovanni Battista, presso il quale conobbe l’apostolo Giovanni, e con lui seguì per primo Gesù, al quale condusse il fratello Pietro (Gv 1,35-42).

I suoi interventi nel gruppo degli apostoli sono pochi ma significativi. Davanti alla folla affamata, Andrea indica a Gesù un fanciullo provvisto di cinque pani d’orzo e di due pesci (Gv 6,9), quasi per invitarlo a rinnovare dei prodigi. Alla scuola di Giovanni Battista, Andrea conobbe l’essenismo e fu fortemente colpito dalla speranza messianica: è lui, infatti, che pose la domanda alla quale Cristo rispose con il suo discorso escatologico (Mc 13,3-37). Infine, Andrea si è dimostrato particolarmente aperto di fronte al problema missionario: infatti, assieme a Filippo, e nelle forme prescritte dal giudaismo, si fece garante delle buone disposizioni dei pagani che volevano avvicinare Gesù (Gv 12,20-22).

Alcune tradizioni, che non possiamo controllare, riferiscono che Andrea svolse il suo ministero apostolico in Grecia e in Asia minore. Secondo queste tradizioni, egli morì martire a Patrasso, sopra una croce formata ad X, detta appunto «croce di sant’Andrea».
Paolo VI ha restituito alla Chiesa Orientale le reliquie di Sant’Andrea che si conservavano in San Pietro e furono riportate a Patrasso.

Andrea è il primo «missionario» fra gli Apostoli: lo testimonia Giovanni che era con lui al momento della chiamata (l’ora decima). Subito dopo l’incontro con Gesù Andrea testimonia al fratello Simone: «Abbiamo trovato il Messia!» e lo condusse a Gesù (Gv 1,41). La nostra Eucaristia rimane inefficace se non partiamo dalla Messa col desiderio stimolante di testimoniare che anche noi «abbiamo trovato il Signore» e non avvertiamo l’urgenza di condurre altri fratelli a Cristo, perché li accolga con noi alla mensa del Padre
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Calendario Liturgico 2012 - Pag. 1 di 4 - Messale Romano e Liturgia delle Ore



Abbiamo trovato il Messia

Dalle «Omelie sul vangelo di Giovanni» di san Giovanni Crisostomo, vescovo.

Andrea, dopo essere restato con Gesù e aver imparato tutto ciò che Gesù gli aveva insegnato, non tenne chiuso in sé il tesoro, ma si affrettò a correre da suo fratello per comunicargli la ricchezza che aveva ricevuto. Ascolta bene cosa gli disse: «Abbiamo trovato il Messia (che significa il Cristo)» (Gv 1,41).

Vedi in che maniera notifica ciò che aveva appreso in poco tempo? Da una parte mostra quanta forza di persuasione aveva il Maestro sui discepoli, e dall’altra rivela il loro interessamento sollecito e diligente circa il suo insegnamento.

Quella di Andrea è la parola di uno che aspettava con ansia la venuta del Messia, che ne attendeva la discesa dal cielo, che trasalì di gioia quando lo vide arrivare, e che si affrettô a comunicare agli altri la grande notizia.

Dicendo subito al fratello ciò che aveva saputo mostra quanto gli volesse bene, come fosse affezionato ai suoi cari, quanto sinceramente fosse premuroso di porgere loro la mano nel cammino spirituale.
Guarda anche l’animo di Pietro, fin dall’inizio docile e pronto alla fede: immediatamente come senza preoccuparsi di nient’altro. Infatti dice: «Lo condusse da Gesù» (Gv 1,42).

Nessuno certo condannerà la facile condiscendenza di Pietro nell’accogliere la parola del fratello senza aver prima esaminato a lungo le cose. E' probabile infatti che il fratello gli abbia narrato i fatti con maggior precisione e più a lungo, mentre gli evangelisti compendiano ogni loro racconto preoccupandosi della brevità.

D’altra parte non è detto nemmeno che abbia creduto senza porre domande, ma che Andrea «lo condusse da Gesù»; affidandolo a lui perché imparasse tutto da lui direttamente. C’era insieme infatti anche un altro discepolo e anche lui fu guidato nello stesso modo.

Se Giovanni Battista, dicendo: «Ecco l’Agnello di Dio», e ancora: ecco colui che battezza nello Spirito (cfr. Gv 1, 29. 33), lasciò che un più chiaro insegnamento su questo venisse da Cristo stesso, certamente con motivi ancor più validi si comportò in questo modo Andrea, non ritenendosi tale da dare una spiegazione completa ed esauriente. Per cui guidò il fratello alla sorgente stessa della luce con tale premura e gioia da non aspettare nemmeno un istante.

martedì 29 novembre 2011

Da uno scritto poco conosciuto del cardinale Joseph Ratzinger pubblicato nel 1998 "La pastorale del matrimonio deve fondarsi sulla verità"




Da uno scritto poco conosciuto del cardinale Joseph Ratzinger pubblicato nel 1998

La pastorale del matrimonio
deve fondarsi sulla verità

A proposito di alcune obiezioni contro la dottrina della Chiesa circa la
recezione della Comunione eucaristica da parte di fedeli divorziati risposati

Nel 1998 il cardinale Joseph Ratzinger, prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, introdusse il volume intitolato Sulla pastorale dei divorziati risposati, pubblicato dalla Libreria Editrice Vaticana in una collana del dicastero («Documenti e Studi», 17). Per l’attualità e l’ampiezza di prospettive di questo scritto poco conosciuto, ne riproponiamo la terza parte, con l’aggiunta di tre note. Il testo è disponibile sul sito del nostro giornale (www.osservatoreromano.va), oltre che in italiano, anche in francese, inglese, portoghese, spagnolo e tedesco.



La Lettera della Congregazione per la Dottrina della Fede circa la recezione della Comunione eucaristica da parte di fedeli divorziati risposati del 14 settembre 1994 ha avuto una vivace eco in diverse parti della Chiesa. Accanto a molte reazioni positive si sono udite anche non poche voci critiche. Le obiezioni essenziali contro la dottrina e la prassi della Chiesa sono presentate qui di seguito in forma per altro semplificata.

Alcune obiezioni più significative — soprattutto il riferimento alla prassi ritenuta più flessibile dei Padri della Chiesa, che ispirerebbe la prassi delle Chiese orientali separate da Roma, così come il richiamo ai principi tradizionali dell’epikèia e della aequitas canonica — sono state studiate in modo approfondito dalla Congregazione per la Dottrina della Fede. Gli articoli dei professori Pelland, Marcuzzi e Rodriguez Luño1 sono stati elaborati nel corso di questo studio. I risultati principali della ricerca, che indicano la direzione di una risposta alle obiezioni avanzate, saranno ugualmente qui brevemente riassunti.

1. Molti ritengono, adducendo alcuni passi del Nuovo Testamento, che la parola di Gesù sull’indissolubilità del matrimonio permetta un’applicazione flessibile e non possa essere classificata in una categoria rigidamente giuridica.

Alcuni esegeti rilevano criticamente che il Magistero in relazione all’indissolubilità del matrimonio citerebbe quasi esclusivamente una sola pericope — e cioè Marco, 10, 11-12 — e non considererebbe in modo sufficiente altri passi del Vangelo di Matteo e della prima Lettera ai Corinzi. Questi passi biblici menzionerebbero una qualche “eccezione” alla parola del Signore sull’indissolubilità del matrimonio, e cioè nel caso di pornèia (Matteo, 5, 32; 19, 9) e nel caso di separazione a motivo della fede (1 Corinzi, 7, 12-16). Tali testi sarebbero indicazioni che i cristiani in situazioni difficili avrebbero conosciuto già nel tempo apostolico un’applicazione flessibile della parola di Gesù.


A questa obiezione si deve rispondere che i documenti magisteriali non intendono presentare in modo completo ed esaustivo i fondamenti biblici della dottrina sul matrimonio. Essi lasciano questo importante compito agli esperti competenti. Il Magistero sottolinea però che la dottrina della Chiesa sull’indissolubilità del matrimonio deriva dalla fedeltà nei confronti della parola di Gesù. Gesù definisce chiaramente la prassi veterotestamentaria del divorzio come una conseguenza della durezza di cuore dell’uomo. Egli rinvia — al di là della legge — all’inizio della creazione, alla volontà del Creatore, e riassume il suo insegnamento con le parole: «L’uomo dunque non separi ciò che Dio ha congiunto» (Marco, 10, 9). Con la venuta del Redentore il matrimonio viene quindi riportato alla sua forma originaria a partire dalla creazione e sottratto all’arbitrio umano — soprattutto all’arbitrio del marito, per la moglie infatti non vi era in realtà la possibilità del divorzio. La parola di Gesù sull’indissolubilità del matrimonio è il superamento dell’antico ordine della legge nel nuovo ordine della fede e della grazia. Solo così il matrimonio può rendere pienamente giustizia alla vocazione di Dio all’amore ed alla dignità umana e divenire segno dell’alleanza di amore incondizionato di Dio, cioè «Sacramento» (cfr. Efesini, 5, 32).

La possibilità di separazione, che Paolo prospetta in 1 Corinzi, 7, riguarda matrimoni fra un coniuge cristiano e uno non battezzato. La riflessione teologica successiva ha chiarito che solo i matrimoni tra battezzati sono «sacramento» nel senso stretto della parola e che l’indissolubilità assoluta vale solo per questi matrimoni che si collocano nell’ambito della fede in Cristo. Il cosiddetto «matrimonio naturale» ha la sua dignità a partire dall’ordine della creazione ed è pertanto orientato all’indissolubilità, ma può essere sciolto in determinate circostanze a motivo di un bene più alto — nel caso la fede. Così la sistematizzazione teologica ha classificato giuridicamente l’indicazione di san Paolo come privilegium paulinum, cioè come possibilità di sciogliere per il bene della fede un matrimonio non sacramentale. L’indissolubilità del matrimonio veramente sacramentale rimane salvaguardata; non si tratta quindi di una eccezione alla parola del Signore. Su questo ritorneremo più avanti.

A riguardo della retta comprensione delle clausole sulla pornèia esiste una vasta letteratura con molte ipotesi diverse, anche contrastanti. Fra gli esegeti non vi è affatto unanimità su questa questione. Molti ritengono che si tratti qui di unioni matrimoniali invalide e non di eccezioni all’indissolubilità del matrimonio. In ogni caso la Chiesa non può edificare la sua dottrina e la sua prassi su ipotesi esegetiche incerte. Essa deve attenersi all’insegnamento chiaro di Cristo.

2. Altri obiettano che la tradizione patristica lascerebbe spazio per una prassi più differenziata, che renderebbe meglio giustizia alle situazioni difficili; la Chiesa cattolica in proposito potrebbe imparare dal principio di «economia» delle Chiese orientali separate da Roma.

Si afferma che il Magistero attuale si appoggerebbe solo su di un filone della tradizione patristica, ma non su tutta l’eredità della Chiesa antica. Sebbene i Padri si attenessero chiaramente al principio dottrinale dell’indissolubilità del matrimonio, alcuni di loro hanno tollerato sul piano pastorale una certa flessibilità in riferimento a singole situazioni difficili. Su questo fondamento le Chiese orientali separate da Roma avrebbero sviluppato più tardi accanto al principio della akribìa, della fedeltà alla verità rivelata, quello della oikonomìa, della condiscendenza benevola in singole situazioni difficili. Senza rinunciare alla dottrina dell’indissolubilità del matrimonio, essi permetterebbero in determinati casi un secondo e anche un terzo matrimonio, che d’altra parte è differente dal primo matrimonio sacramentale ed è segnato dal carattere della penitenza. Questa prassi non sarebbe mai stata condannata esplicitamente dalla Chiesa cattolica. Il Sinodo dei Vescovi del 1980 avrebbe suggerito di studiare a fondo questa tradizione, per far meglio risplendere la misericordia di Dio.


Lo studio di padre Pelland mostra la direzione, in cui si deve cercare la risposta a queste questioni. Per l’interpretazione dei singoli testi patristici resta naturalmente competente lo storico. A motivo della difficile situazione testuale le controversie anche in futuro non si placheranno. Dal punto di vista teologico si deve affermare:

a. Esiste un chiaro consenso dei Padri a riguardo dell’indissolubilità del matrimonio. Poiché questa deriva dalla volontà del Signore, la Chiesa non ha nessun potere in proposito. Proprio per questo il matrimonio cristiano fu fin dall’inizio diverso dal matrimonio della civiltà romana, anche se nei primi secoli non esisteva ancora nessun ordinamento canonico proprio. La Chiesa del tempo dei Padri esclude chiaramente divorzio e nuove nozze, e ciò per fedele obbedienza al Nuovo Testamento.

b. Nella Chiesa del tempo dei Padri i fedeli divorziati risposati non furono mai ammessi ufficialmente alla sacra comunione dopo un tempo di penitenza. È vero invece che la Chiesa non ha sempre rigorosamente revocato in singoli Paesi concessioni in materia, anche se esse erano qualificate come non compatibili con la dottrina e la disciplina. Sembra anche vero che singoli Padri, ad esempio Leone Magno, cercarono soluzioni “pastorali” per rari casi limite.

c. In seguito si giunse a due sviluppi contrapposti:

— Nella Chiesa imperiale dopo Costantino si cercò, a seguito dell’intreccio sempre più forte di Stato e Chiesa, una maggiore flessibilità e disponibilità al compromesso in situazioni matrimoniali difficili. Fino alla riforma gregoriana una simile tendenza si manifestò anche nell’ambito gallico e germanico. Nelle Chiese orientali separate da Roma questo sviluppo continuò ulteriormente nel secondo millennio e condusse a una prassi sempre più liberale. Oggi in molte Chiese orientali esiste una serie di motivazioni di divorzio, anzi già una «teologia del divorzio», che non è in nessun modo conciliabile con le parole di Gesù sull’indissolubilità del matrimonio. Nel dialogo ecumenico questo problema deve essere assolutamente affrontato.

— Nell’Occidente fu recuperata grazie alla riforma gregoriana la concezione originaria dei Padri. Questo sviluppo trovò in qualche modo una sanzione nel concilio di Trento e fu riproposto come dottrina della Chiesa nel concilio Vaticano II.

La prassi delle Chiese orientali separate da Roma, che è conseguenza di un processo storico complesso, di una interpretazione sempre più liberale — e che si allontanava sempre più dalla parola del Signore — di alcuni oscuri passi patristici così come di un non trascurabile influsso della legislazione civile, non può per motivi dottrinali essere assunta dalla Chiesa cattolica. Al riguardo non è esatta l’affermazione che la Chiesa cattolica avrebbe semplicemente tollerato la prassi orientale. Certamente Trento non ha pronunciato nessuna condanna formale. I canonisti medievali nondimeno ne parlavano continuamente come di una prassi abusiva. Inoltre vi sono testimonianze secondo cui gruppi di fedeli ortodossi, che divenivano cattolici, dovevano firmare una confessione di fede con un’indicazione espressa dell’impossibilità di un secondo matrimonio.

3. Molti propongono di permettere eccezioni dalla norma ecclesiale, sulla base dei tradizionali principi dell’epikèia e della aequitas canonica.

Alcuni casi matrimoniali, così si dice, non possono venire regolati in foro esterno. La Chiesa potrebbe non solo rinviare a norme giuridiche, ma dovrebbe anche rispettare e tollerare la coscienza dei singoli. Le dottrine tradizionali dell’epikèia e della aequitas canonica potrebbero giustificare dal punto di vista della teologia morale ovvero dal punto di vista giuridico una decisione della coscienza, che si allontani dalla norma generale. Soprattutto nella questione della recezione dei sacramenti la Chiesa dovrebbe qui fare dei passi avanti e non soltanto opporre ai fedeli dei divieti.

I due contributi di don Marcuzzi e del professor Rodríguez Luño illustrano questa complessa problematica. In proposito si devono distinguere chiaramente tre ambiti di questioni:

a. Epikèia ed aequitas canonica sono di grande importanza nell’ambito delle norme umane e puramente ecclesiali, ma non possono essere applicate nell’ambito di norme, sulle quali la Chiesa non ha nessun potere discrezionale. L’indissolubilità del matrimonio è una di queste norme, che risalgono al Signore stesso e pertanto vengono designate come norme di «diritto divino». La Chiesa non può neppure approvare pratiche pastorali — ad esempio nella pastorale dei Sacramenti —, che contraddirebbero il chiaro comandamento del Signore. In altre parole: se il matrimonio precedente di fedeli divorziati risposati era valido, la loro nuova unione in nessuna circostanza può essere considerata come conforme al diritto, e pertanto per motivi intrinseci non è possibile una recezione dei sacramenti. La coscienza del singolo è vincolata senza eccezioni a questa norma.2

b. La Chiesa ha invece il potere di chiarire quali condizioni devono essere adempiute, perché un matrimonio possa essere considerato come indissolubile secondo l’insegnamento di Gesù. Nella linea delle affermazioni paoline in 1 Corinzi, 7 essa ha stabilito che solo due cristiani possano contrarre un matrimonio sacramentale. Essa ha sviluppato le figure giuridiche del privilegium paulinum e del privilegium petrinum. Con riferimento alle clausole sulla pornèia in Matteo e in Atti, 15, 20 furono formulati impedimenti matrimoniali. Inoltre furono individuati sempre più chiaramente motivi di nullità matrimoniale e furono ampiamente sviluppate le procedure processuali. Tutto questo contribuì a delimitare e precisare il concetto di matrimonio indissolubile. Si potrebbe dire che in questo modo anche nella Chiesa occidentale fu dato spazio al principio della oikonomìa, senza toccare tuttavia l’indissolubilità del matrimonio come tale.

In questa linea si colloca anche l’ulteriore sviluppo giuridico nel Codice di Diritto Canonico del 1983, secondo il quale anche le dichiarazioni delle parti hanno forza probante. Di per sé, secondo il giudizio di persone competenti, sembrano così praticamente esclusi i casi, in cui un matrimonio invalido non sia dimostrabile come tale per via processuale. Poiché il matrimonio ha essenzialmente un carattere pubblico-ecclesiale e vale il principio fondamentale nemo iudex in propria causa («Nessuno è giudice nella propria causa»), le questioni matrimoniali devono essere risolte in foro esterno. Qualora fedeli divorziati risposati ritengano che il loro precedente matrimonio non era mai stato valido, essi sono pertanto obbligati a rivolgersi al competente tribunale ecclesiastico, che dovrà esaminare il problema obiettivamente e con l’applicazione di tutte le possibilità giuridicamente disponibili.

c. Certamente non è escluso che in processi matrimoniali intervengano errori. In alcune parti della Chiesa non esistono ancora tribunali ecclesiastici che funzionino bene. Talora i processi durano in modo eccessivamente lungo. In alcuni casi terminano con sentenze problematiche. Non sembra qui in linea di principio esclusa l’applicazione della epikèia in “foro interno”. Nella Lettera della Congregazione per la Dottrina della Fede del 1994 si fa cenno a questo, quando viene detto che con le nuove vie canoniche dovrebbe essere escluso «per quanto possibile» ogni divario tra la verità verificabile nel processo e la verità oggettiva (cfr. Lettera, 9). Molti teologi sono dell’opinione che i fedeli debbano assolutamente attenersi anche in “foro interno” ai giudizi del tribunale a loro parere falsi. Altri ritengono che qui in “foro interno” sono pensabili delle eccezioni, perché nell’ordinamento processuale non si tratta di norme di diritto divino, ma di norme di diritto ecclesiale. Questa questione esige però ulteriori studi e chiarificazioni. Dovrebbero infatti essere chiarite in modo molto preciso le condizioni per il verificarsi di una “eccezione”, allo scopo di evitare arbitri e di proteggere il carattere pubblico — sottratto al giudizio soggettivo — del matrimonio.

4. Molti accusano l’attuale Magistero di involuzione rispetto al Magistero del Concilio e di proporre una visione preconciliare del matrimonio.

Alcuni teologi affermano che alla base dei nuovi documenti magisteriali sulle questioni del matrimonio starebbe una concezione naturalistica, legalistica del matrimonio. L’accento sarebbe posto sul contratto fra gli sposi e sullo ius in corpus. Il Concilio avrebbe superato questa comprensione statica e descritto il matrimonio in un modo più personalistico come patto di amore e di vita. Così avrebbe aperto possibilità per risolvere in modo più umano situazioni difficili. Sviluppando questa linea di pensiero alcuni studiosi pongono la domanda se non si possa parlare di «morte del matrimonio», quando il legame personale dell’amore fra due sposi non esiste più. Altri sollevano l’antica questione se il Papa non abbia in tali casi la possibilità di sciogliere il matrimonio.

Chi però legga attentamente i recenti pronunciamenti ecclesiastici riconoscerà che essi nelle affermazioni centrali si fondano su Gaudium et spes e con tratti totalmente personalistici sviluppano ulteriormente sulla traccia indicata dal Concilio la dottrina ivi contenuta. È tuttavia inadeguato introdurre una contrapposizione fra la visione personalistica e quella giuridica del matrimonio. Il Concilio non ha rotto con la concezione tradizionale del matrimonio, ma l’ha sviluppata ulteriormente. Quando ad esempio si ripete continuamente che il Concilio ha sostituito il concetto strettamente giuridico di “contratto” con il concetto più ampio e teologicamente più profondo di “patto”, non si può dimenticare in proposito che anche nel “patto” è contenuto l’elemento del “contratto” pur essendo collocato in una prospettiva più ampia. Che il matrimonio vada molto al di là dell’aspetto puramente giuridico affondando nella profondità dell’umano e nel mistero del divino, è già in realtà sempre stato affermato con la parola “sacramento”, ma certamente spesso non è stato messo in luce con la chiarezza che il Concilio ha dato a questi aspetti. Il diritto non è tutto, ma è una parte irrinunciabile, una dimensione del tutto. Non esiste un matrimonio senza normativa giuridica, che lo inserisce in un insieme globale di società e Chiesa. Se il riordinamento del diritto dopo il Concilio tocca anche l’ambito del matrimonio, allora questo non è tradimento del Concilio, ma esecuzione del suo compito.

Se la Chiesa accettasse la teoria che un matrimonio è morto, quando i due coniugi non si amano più, allora approverebbe con questo il divorzio e sosterrebbe l’indissolubilità del matrimonio in modo ormai solo verbale, ma non più in modo fattuale. L’opinione, secondo cui il Papa potrebbe eventualmente sciogliere un matrimonio sacramentale consumato, irrimediabilmente fallito, deve pertanto essere qualificata come erronea. Un tale matrimonio non può essere sciolto da nessuno. Gli sposi nella celebrazione nuziale si promettono la fedeltà fino alla morte.

Ulteriori studi approfonditi esige invece la questione se cristiani non credenti — battezzati, che non hanno mai creduto o non credono più in Dio — veramente possano contrarre un matrimonio sacramentale. In altre parole: si dovrebbe chiarire se veramente ogni matrimonio tra due battezzati è ipso facto un matrimonio sacramentale. Di fatto anche il Codice indica che solo il contratto matrimoniale «valido» fra battezzati è allo stesso tempo sacramento (cfr. Codex iuris canonici, can. 1055, § 2). All’essenza del sacramento appartiene la fede; resta da chiarire la questione giuridica circa quale evidenza di «non fede» abbia come conseguenza che un sacramento non si realizzi.3

5. Molti affermano che l’atteggiamento della Chiesa nella questione dei fedeli divorziati risposati è unilateralmente normativo e non pastorale.

Una serie di obiezioni critiche contro la dottrina e la prassi della Chiesa concerne problemi di carattere pastorale. Si dice ad esempio che il linguaggio dei documenti ecclesiali sarebbe troppo legalistico, che la durezza della legge prevarrebbe sulla comprensione per situazioni umane drammatiche. L’uomo di oggi non potrebbe più comprendere tale linguaggio. Gesù avrebbe avuto un orecchio disponibile per le necessità di tutti gli uomini, soprattutto per quelli al margine della società. La Chiesa al contrario si mostrerebbe piuttosto come un giudice, che esclude dai sacramenti e da certi incarichi pubblici persone ferite.

Si può senz’altro ammettere che le forme espressive del Magistero ecclesiale talvolta non appaiano proprio come facilmente comprensibili. Queste devono essere tradotte dai predicatori e dai catechisti in un linguaggio, che corrisponda alle diverse persone e al loro rispettivo ambiente culturale. Il contenuto essenziale del Magistero ecclesiale in proposito deve però essere mantenuto. Non può essere annacquato per supposti motivi pastorali, perché esso trasmette la verità rivelata. Certamente è difficile rendere comprensibili all’uomo secolarizzato le esigenze del Vangelo. Ma questa difficoltà pastorale non può condurre a compromessi con la verità. Giovanni Paolo II nella Lettera Enciclica Veritatis splendor ha chiaramente respinto le soluzioni cosiddette «pastorali», che si pongono in contrasto con le dichiarazioni del Magistero (cfr. ibidem, 56).

Per quanto riguarda la posizione del Magistero sul problema dei fedeli divorziati risposati, si deve inoltre sottolineare che i recenti documenti della Chiesa uniscono in modo molto equilibrato le esigenze della verità con quelle della carità. Se in passato nella presentazione della verità talvolta la carità forse non risplendeva abbastanza, oggi è invece grande il pericolo di tacere o di compromettere la verità in nome della carità. Certamente la parola della verità può far male ed essere scomoda. Ma è la via verso la guarigione, verso la pace, verso la libertà interiore. Una pastorale, che voglia veramente aiutare le persone, deve sempre fondarsi sulla verità. Solo ciò che è vero può in definitiva essere anche pastorale. «Allora conoscerete la verità e la verità vi farà liberi» (Giovanni, 8,32).

Note:

1 Cfr. Ángel Rodríguez Luño, L’epicheia nella cura pastorale dei fedeli divorziati risposati, in Sulla pastorale dei divorziati risposati, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 1998, («Documenti e Studi», 17), pp. 75-87; Piero Giorgio Marcuzzi, s.d.b., Applicazione di «aequitas et epikeia» ai contenuti della Lettera della Congregazione per la Dottrina della Fede del 14 settembre 1994, ibidem, pp. 88-98; Gilles Pelland, s. j., La pratica della Chiesa antica relativa ai fedeli divorziati risposati, ibidem, pp. 99-131.

2 A tale riguardo vale la norma ribadita da Giovanni Paolo II nella Lettera apostolica postsinodale Familiaris consortio, n. 84: «La riconciliazione nel sacramento della penitenza — che aprirebbe la strada al sacramento eucaristico — può essere accordata solo a quelli che, pentiti di aver violato il segno dell’Alleanza e della fedeltà a Cristo, sono sinceramente disposti ad una forma di vita non più in contraddizione con l’indissolubilità del matrimonio. Ciò comporta, in concreto, che quando l’uomo e la donna, per seri motivi — quali, ad esempio, l’educazione dei figli — non possono soddisfare l’obbligo della separazione, “assumono l’impegno di vivere in piena continenza, cioè di astenersi dagli atti propri dei coniugi”». Cfr. anche Benedetto XVI, Lettera apostolica postsinodale Sacramentum caritatis, n. 29.

3 Durante un incontro con il clero della diocesi di Aosta, svoltosi il 25 luglio 2005, Papa Benedetto XVI ha affermato in merito a questa difficile questione: «Particolarmente dolorosa è la situazione di quanti erano sposati in Chiesa, ma non erano veramente credenti e lo hanno fatto per tradizione, e poi trovandosi in un nuovo matrimonio non valido si convertono, trovano la fede e si sentono esclusi dal Sacramento. Questa è realmente una sofferenza grande e quando sono stato prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede ho invitato diverse Conferenze episcopali e specialisti a studiare questo problema: un sacramento celebrato senza fede. Se realmente si possa trovare qui un momento di invalidità perché al sacramento mancava una dimensione fondamentale non oso dire. Io personalmente lo pensavo, ma dalle discussioni che abbiamo avuto ho capito che il problema è molto difficile e deve essere ancora approfondito.

© L'Osservatore Romano 30 novembre 2011

lunedì 28 novembre 2011

Novena della Immacolata 2011 - Chiesa dei Frati Cappuccini di Sestri Levante GE



Novena della Immacolata 2011
Chiesa dei Frati Cappuccini di Sestri Levante GE

Il prefetto della Congregazione per il Clero sulla formazione di sacerdoti e religiosi "Nell’umanità di Cristo il primo fattore educativo" (Mauro Piacenza)




Il prefetto della Congregazione per il Clero sulla formazione di sacerdoti e religiosi

Nell’umanità di Cristo
il primo fattore educativo

«A immagine della santa Umanità di Cristo» è il titolo della lectio magistralis al corso di formazione umana per il sacerdozio e la vita consacrata che il cardinale prefetto della Congregazione per il Clero ha tenuto lunedì 21 novembre all’Istituto Camillianum di Roma. Ne pubblichiamo stralci.

di Mauro Piacenza

Di fronte a quest’uomo, che è domanda di significato e che vive i valori non come imposizioni esterne alla propria coscienza, ma come il fiorire vigoroso delle proprie domande fondamentali (vivo la giustizia perché sono bisogno di giustizia; vivo la verità perché sono bisogno di verità) si pone Cristo. Prima di qualunque atto di fede in Gesù di Nazareth Signore e Cristo, è necessario sottolineare come l’evento-Cristo abbia una propria irriducibile dimensione storica.

Lo ha efficacemente ricordato Benedetto XVI nell’incipit della sua prima enciclica Deus caritas est, nella quale l’essere cristiano è definito come «incontro con un avvenimento, con una Persona» (n. 1). L’incontro, dunque, presuppone qualcosa-qualcuno di «altro» da me, che mi si fa incontro e che io posso incontrare. Le conseguenze di questa chiarificazione sull’essenza del cristianesimo sono immediatamente recepibili da tutti: da un lato la fedeltà al dato storico esclude ogni autoreferenzialità soggettiva, intimistica o autoproiettiva nel rapporto con Cristo e, dall’altro, ancora più profondamente, la dimensione storica risulta radicalmente incompatibile con ogni concezione idealista e relativista, che affermi l’impossibilità dell’uomo di conoscere la realtà.

È possibile dunque affermare — ed è in fondo la traduzione che ne fa l’evangelista Giovanni — che la risposta a ciò che l’uomo è, che non è dentro di lui, si è resa incontrabile, ci è venuta incontro, si è rivelata in quello che era l’ambito più prossimo all’uomo: l’uomo stesso. Tale incontro tra l’umanità, come domanda, e l’avvenimento di Cristo, come risposta, costituisce la possibilità di ogni formazione umana autentica.

Con due corollari. Il primo: è possibile vivere un intenso senso religioso, cioè una profonda domanda esistenziale, senza ancora avere incontrato Cristo, la risposta. Ed è necessario riconoscere e affermare come già il senso religioso autenticamente vissuto rappresenti e costituisca un fattore fondamentale di formazione umana. Per contro, secondo corollario, nella maggior parte dei casi accade — e probabilmente tutti potremmo darne testimonianza — che proprio l’incontro con Cristo determini il ridestarsi di un senso religioso assopito, il risvegliarsi dell’umanità; pertanto, con altrettanto realismo, è possibile affermare che l’avvenimento dell’incontro con Cristo è il primo fattore educativo dell’umano, proprio perché lo educa a stare in quella posizione di grato stupore, tipica del senso religioso, che costituisce l’essenza dell’uomo di fronte a Dio. In tal senso, la santa Umanità di Cristo, che, in forza dell’unione ipostatica, vive permanentemente alla presenza del Padre nello Spirito, è per noi insuperato modello di formazione umana.

Ciò che Cristo vive per natura, noi possiamo vivere per grazia. Il percepire se stessi alla presenza del Mistero permette all’umano di vivere secondo l’alta vocazione alla quale il Creatore lo ha chiamato: essere immagine e somiglianza di Dio.


Analizzata la situazione storica in cui ci troviamo e posto lo sguardo sul rapporto essenziale tra formazione umana e fede, come persone chiamate a vivere il carisma della castità per il Regno dei Cieli, sia nella vita consacrata, sia nel ministero sacerdotale, è necessario porsi, in maniera autentica, in ascolto di ciò che il carisma ricevuto dice al personale cammino di formazione umana. Innanzitutto nessuno, men che meno chi è chiamato alla castità, è dispensato dal lavoro su se stesso, sul proprio carattere, sulle proprie qualità, e dall’affinamento del proprio tratto umano. Come sottolineato dal secondo corollario del punto precedente, ritengo che la distinzione tra formazione umana, professione di fede e vita sacerdotale e religiosa, sia didatticamente fondata ma, esistenzialmente, sempre da integrare. È l’incontro con Cristo a ridestare l’umanità di ciascuno ed è il nuovo orizzonte nel quale Egli ci introduce, non disgiuntamente dalla nuova direzione che la vita prende dopo l’incontro con Lui (cfr. Deus caritas est, n. 1) a determinare anche la fioritura del carisma della castità e la sua fedele accoglienza dalla libertà umana. Se interpretiamo la vita come domanda di significato, alla quale Cristo risponde, ne deriva, come immediata conseguenza, che il primo compito di una donna e di un uomo di fede, sia testimoniare al mondo la risposta incontrata: testimoniare Cristo Salvatore dell’uomo. In quest’ottica di viva domanda esistenziale e di vivificante risposta incontrata in Gesù di Nazareth Signore e Cristo, si colloca l’accoglienza del carisma della castità. Se la vocazione non è compresa e accolta come testimonianza a Cristo e, in essa, la castità non è compresa come suprema testimonianza, che, dopo il martirio, è possibile darGli, allora non c’è formazione umana sufficiente per accogliere il soprannaturale dono della chiamata. Nessuno di noi aveva, prima dell’incontro con Cristo, un’umanità capace di accogliere il grande dono della vocazione. Possiamo e dobbiamo testimoniare, anche in vista di una rinnovata azione evangelizzatrice e di un’autentica pastorale vocazionale, come, insieme al dono della vocazione, il Signore ci abbia donato una rinnovata umanità. Egli ci ha chiamati, ci ha plasmati, ci ha resi capaci di accogliere un dono nuovo. Dio non chiama i «capaci» o i «perfetti», ma rende capaci coloro che chiama. Lavorare per la propria formazione umana, allora, non è una premessa per poi poter lavorare sulla fede, sulla vocazione e sulla fedeltà a essa — anche nella dimensione del celibato e della castità consacrata — ma è l’opera di Dio, compiuta dalla Sua grazia, nella nostra umanità. Anche dal punto di vista del rapporto tra formazione umana e carisma della castità, il modello è e rimane sempre la santa Umanità di Nostro Signore Gesù Cristo.

Un’umanità nella quale i suoi contemporanei hanno potuto riconoscere, per lo straordinario fascino che esercitava su di essi, per l’autorevolezza dell’insegnamento e per i prodigi compiuti, la presenza del Mistero, di Dio. Forse noi non compiremo prodigi o miracoli, ma possiamo domandare ogni giorno a Dio il dono di un’umanità che sia trasparenza di Lui, il dono di un’autorevolezza nell’insegnamento della Sua parola, che faccia sorgere, in tutti i nostri fratelli uomini, la domanda che ha attraversato i primi decenni dell’era cristiana e che, fino alla consumazione della storia, deve sorgere ogni qual volta si incontra un cristiano: «Perché costui è così?», «Perché mi ama così?», «Perché ha questa passione per la vita?», «Perché prende così sul serio la propria e altrui esistenza?».

© L'Osservatore Romano 29 novembre 2011

Benedetto XVI agli studenti partecipanti all'Incontro promosso dalla Fondazione "Sorella Natura" (28 novembre 2011)



DISCORSO DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI
AGLI STUDENTI PARTECIPANTI ALL'INCONTRO
PROMOSSO DALLA FONDAZIONE "SORELLA NATURA"

Aula Paolo VI
Lunedì, 28 novembre 2011

Signor Cardinale,
illustri Autorità,
cari ragazzi e giovani!

E’ con grande gioia che do a tutti voi il mio benvenuto a questo incontro dedicato all’impegno per “sorella natura”, per usare il nome della Fondazione che lo ha promosso. Saluto cordialmente il Cardinale Rodríguez Maradiaga e lo ringrazio per le parole che mi ha rivolto anche a nome vostro e per il dono della preziosa riproduzione del Codice 338, che contiene le fonti francescane più antiche. Saluto il Presidente, Signor Roberto Leoni, come pure le Autorità e Personalità e i numerosi insegnanti e genitori. Ma soprattutto saluto voi, cari ragazzi e ragazze, cari giovani! E’ proprio per voi che ho voluto questo incontro, e vorrei dirvi che apprezzo molto la vostra scelta di essere “custodi del creato”, e che in questo avete il mio appoggio pieno.

Prima di tutto dobbiamo ricordare che la vostra Fondazione e questo stesso incontro hanno una profonda ispirazione francescana. Anche la data odierna è stata scelta per fare memoria della proclamazione di san Francesco d’Assisi quale Patrono dell’ecologia da parte del mio amato Predecessore, il beato Giovanni Paolo II, nel 1979. Tutti voi sapete che san Francesco è anche Patrono d’Italia. Forse però non sapete che a dichiararlo tale fu il Papa Pio XII, nel 1939, quando lo definì “il più italiano dei santi, il più santo degli italiani”. Se dunque il santo Patrono d’Italia è anche Patrono dell’ecologia, mi pare giusto che le giovani e i giovani italiani abbiano una speciale sensibilità per “sorella natura”, e si diano da fare concretamente per la sua difesa.

Quando si studia la letteratura italiana, uno dei primi testi che si trovano nelle antologie è proprio il “Cantico di Frate Sole”, o “delle creature”, di san Francesco d’Assisi: “Altissimo, onnipotente, bon Signore…”. Questo cantico mette in luce il giusto posto da dare al Creatore, a Colui che ha chiamato all’esistenza tutta la grande sinfonia delle creature. “…tue so’ le laude, la gloria e l’honore et onne benedictione… Laudato sie, mi’ Signore, cum tucte le Tue creature”. Questi versi fanno parte giustamente della vostra tradizione culturale e scolastica. Ma sono anzitutto una preghiera, che educa il cuore nel dialogo con Dio, lo educa a vedere in ogni creatura l’impronta del grande Artista celeste, come leggiamo anche nel bellissimo Salmo 19: “I cieli narrano la gloria di Dio, l’opera delle sue mani annuncia il firmamento… Senza linguaggi, senza parole, senza che si oda la loro voce, per tutta la terra si diffonde il loro annuncio” (v. 1.4-5). Frate Francesco, fedele alla Sacra Scrittura, ci invita a riconoscere nella natura un libro stupendo, che ci parla di Dio, della sua bellezza e della sua bontà. Pensate che il Poverello di Assisi chiedeva sempre al frate del convento incaricato dell’orto, di non coltivare tutto il terreno per gli ortaggi, ma di lasciare una parte per i fiori, anzi di curare una bella aiuola di fiori, perché le persone passando elevassero il pensiero a Dio, creatore di tanta bellezza (cfr Vita seconda di Tommaso da Celano, CXXIV, 165).


Cari amici, la Chiesa, considerando con apprezzamento le più importanti ricerche e scoperte scientifiche, non ha mai smesso di ricordare che rispettando l’impronta del Creatore in tutto il creato, si comprende meglio la nostra vera e profonda identità umana. Se vissuto bene, questo rispetto può aiutare un giovane e una giovane anche a scoprire talenti e attitudini personali, e quindi a prepararsi ad una certa professione, che cercherà sempre di svolgere nel rispetto dell’ambiente. Se infatti, nel suo lavoro, l’uomo dimentica di essere collaboratore di Dio, può fare violenza al creato e provocare danni che hanno sempre conseguenze negative anche sull’uomo, come vediamo, purtroppo, in varie occasioni. Oggi più che mai ci appare chiaro che il rispetto per l’ambiente non può dimenticare il riconoscimento del valore della persona umana e della sua inviolabilità, in ogni fase della vita e in ogni sua condizione. Il rispetto per l’essere umano e il rispetto per la natura sono un tutt’uno, ma entrambi possono crescere ed avere la loro giusta misura se rispettiamo nella creatura umana e nella natura il Creatore e la sua creazione. Su questo, cari ragazzi, sono convinto di trovare in voi degli alleati, dei veri “custodi della vita e del creato”.

E ora vorrei cogliere questa occasione per rivolgere una parola specifica anche agli insegnanti e alle Autorità qui presenti. Vorrei sottolineare la grande importanza che ha l’educazione anche in questo campo dell’ecologia. Ho accolto volentieri la proposta di questo incontro proprio perché esso coinvolge tanti giovanissimi studenti, perché ha una chiara prospettiva educativa. E’ infatti ormai evidente che non c’è un futuro buono per l’umanità sulla terra se non ci educhiamo tutti ad uno stile di vita più responsabile nei confronti del creato. E sottolineo l'importanza della parola “creato”, perché il grande e meraviglioso albero della vita non è frutto di un'evoluzione cieca e irrazionale, ma questa evoluzione riflette la volontà creatrice del Creatore e la sua bellezza e bontà. Questo stile di responsabilità si impara prima di tutto in famiglia e nella scuola. Incoraggio, pertanto, i genitori, i dirigenti scolastici e gli insegnanti a portare avanti con impegno una costante attenzione educativa e didattica con questa finalità. Inoltre, è indispensabile che questo lavoro delle famiglie e delle scuole sia sostenuto dalle istituzioni preposte, che oggi sono qui ben rappresentate.

Cari amici, affidiamo questi pensieri e queste aspirazioni alla Vergine Maria, Madre dell’intera umanità. Mentre abbiamo appena iniziato il Tempo di Avvento, Ella ci accompagni e ci guidi a riconoscere in Cristo il centro del cosmo, la luce che illumina ogni uomo e ogni creatura. E san Francesco ci insegni a cantare, con tutta la creazione, un inno di lode e di ringraziamento al Padre celeste, datore di ogni dono. Vi ringrazio di cuore per essere venuti numerosi e accompagno volentieri il vostro studio, il vostro lavoro e il vostro impegno con la mia Benedizione. Ho parlato di cantare, cantiamo insieme il Padre Nostro, la grande preghiera insegnata da Gesù a noi tutti.

© Copyright 2011 - Libreria Editrice Vaticana

Benedetto XVI ai partecipanti all'Incontro promosso dal Pontificio Consiglio per gli Operatori Sanitari (per la Pastorale della Salute) (26 novembre 2011)




DISCORSO DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI
AI PARTECIPANTI ALL'INCONTRO PROMOSSO DAL
PONTIFICIO CONSIGLIO PER GLI OPERATORI SANITARI
(PER LA PASTORALE DELLA SALUTE)

Sala Clementina
Sabato, 26 novembre 2011

Cari fratelli e sorelle!

è motivo di grande gioia incontrarvi in occasione della XXVI Conferenza Internazionale, organizzata dal Pontificio Consiglio per gli Operatori Sanitari e che ha inteso riflettere sul tema: La Pastorale sanitaria a servizio della vita alla luce del magistero del Beato Giovanni Paolo II. Mi è gradito salutare i Vescovi incaricati per la Pastorale della Salute, che per la prima volta si sono riuniti presso la Tomba dell’Apostolo Pietro per verificare i modi di un’azione collegiale in quest’ambito tanto delicato e importante della missione della Chiesa. Esprimo riconoscenza al Dicastero per il suo prezioso servizio, iniziando dal Presidente, Mons. Zygmunt Zimowski, che ringrazio per le cordiali parole che mi ha rivolto, con le quali ha illustrato anche i lavori e le iniziative di questi giorni. Il mio saluto va anche al Segretario e al Sotto-Segretario, entrambi di recente nomina, agli Officiali e al personale, come pure ai relatori e agli esperti, ai responsabili degli Istituti di Cura, agli operatori sanitari, a tutti i presenti e a quanti hanno collaborato per la realizzazione del Convegno.

Sono certo che le vostre riflessioni hanno contribuito ad approfondire il «Vangelo della Vita», preziosa eredità del magistero del beato Giovanni Paolo II. Nel 1985, egli istituì questo Pontificio Consiglio per darne concreta testimonianza nel vasto e articolato ambito della Sanità; vent’anni or sono, stabilì la celebrazione della Giornata Mondiale del Malato; e, da ultimo, costituì la Fondazione «Il Buon Samaritano», come strumento di una nuova azione caritativa verso i malati più poveri in diversi Paesi, Fondazione per la quale faccio appello ad un rinnovato impegno per sostenerla.


Nei lunghi e intensi anni di Pontificato il beato Giovanni Paolo II ha proclamato che il servizio alla persona malata nel corpo e nello spirito costituisce un costante impegno di attenzione e di evangelizzazione per tutta la comunità ecclesiale, secondo il mandato di Gesù ai Dodici di sanare gli infermi (cfr Lc 9,2). In particolare, nella Lettera apostolica Salvifici doloris, dell’11 febbraio 1984, il mio venerato Predecessore afferma: «La sofferenza sembra appartenere alla trascendenza dell’uomo: essa è uno di quei punti, nei quali l’uomo viene in certo senso “destinato” a superare se stesso, e viene a ciò chiamato in modo misterioso» (n. 2). Il mistero del dolore sembra offuscare il volto di Dio, rendendolo quasi un estraneo o, addirittura, additandolo quale responsabile del soffrire umano, ma gli occhi della fede sono capaci di guardare in profondità questo mistero. Dio si è incarnato, si è fatto vicino all’uomo, anche nelle sue situazioni più difficili; non ha eliminato la sofferenza, ma nel Crocifisso risorto, nel Figlio di Dio che ha patito fino alla morte e alla morte di croce, Egli rivela che il suo amore scende anche nell’abisso più profondo dell’uomo per dargli speranza. Il Crocifisso è risorto, la morte è stata illuminata dal mattino di Pasqua: «Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna» (Gv 3,16). Nel Figlio «dato» per la salvezza dell’umanità, la verità dell’amore viene, in un certo senso, provata mediante la verità della sofferenza, e la Chiesa, nata dal mistero della Redenzione nella Croce di Cristo, «è tenuta a cercare l’incontro con l’uomo in modo particolare sulla via della sua sofferenza. In tale incontro l’uomo diventa la via della Chiesa, ed è, questa, una delle vie più importanti» (Giovanni Paolo II, Lett. ap. Salvifici doloris, 3).

Cari amici, il servizio di accompagnamento, di vicinanza e di cura ai fratelli ammalati, soli, provati spesso da ferite non solo fisiche, ma anche spirituali e morali, vi pone in una posizione privilegiata per testimoniare l’azione salvifica di Dio, il suo amore per l’uomo e per il mondo, che abbraccia anche le situazioni più dolorose e terribili. Il Volto del Salvatore morente sulla croce, del Figlio consostanziale al Padre che soffre come uomo per noi (cfr ibid., 17), ci insegna a custodire e a promuovere la vita, in qualunque stadio e in qualsiasi condizione si trovi, riconoscendo la dignità e il valore di ogni singolo essere umano, creato a immagine e somiglianza di Dio (cfr Gen 1,26-27) e chiamato alla vita eterna.

Questa visione del dolore e della sofferenza illuminata dalla morte e risurrezione di Cristo ci è stata testimoniata dal lento calvario, che ha segnato gli ultimi anni di vita del beato Giovanni Paolo II e a cui si possono applicare le parole di san Paolo: «do compimento a ciò che, dei patimenti di Cristo, manca nella mia carne, a favore del suo corpo che è la Chiesa» (Col 1,24). La fede ferma e sicura ha pervaso la sua debolezza fisica, rendendo la sua malattia, vissuta per amore di Dio, della Chiesa e del mondo, una concreta partecipazione al cammino di Cristo fin sul Calvario.

La sequela Christi non ha risparmiato al beato Giovanni Paolo II di prendere la propria croce ogni giorno fino alla fine, per essere come il suo unico Maestro e Signore, che dalla Croce è diventato punto di attrazione e di salvezza per l’umanità (cfr Gv 12,32; 19,37) e ha manifestato la sua gloria (cfr Mc 15,39). Nell’Omelia durante la Santa Messa di Beatificazione del mio venerato Predecessore ho ricordato come «il Signore lo ha spogliato pian piano di tutto, ma egli è rimasto sempre una “roccia”, come Cristo lo ha voluto. La sua profonda umiltà, radicata nell’intima unione con Cristo, gli ha permesso di continuare a guidare la Chiesa e a dare al mondo un messaggio ancora più eloquente proprio nel tempo in cui le forze fisiche gli venivano meno» (Omelia, 1° maggio 2011).

Cari amici, facendo tesoro del testamento vissuto dal beato Giovanni Paolo II nella propria carne, auguro che anche voi, nell’esercizio del ministero pastorale e nell’attività professionale, possiate scoprire nell’albero glorioso della Croce di Cristo «il compimento e la rivelazione piena di tutto il Vangelo della vita» (Lett. enc. Evangelium vitae, 50). Nel servizio che prestate nei diversi ambiti della pastorale della salute, possiate sperimentare che «solo il servizio al prossimo apre i miei occhi su quello che Dio fa per me e su come Egli mi ama» (Lett. Enc. Deus Caritas est, 18).

Affido ciascuno di voi, i malati, le famiglie e tutti gli operatori sanitari alla materna protezione di Maria, e volentieri imparto di cuore a voi tutti la Benedizione Apostolica.

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