sabato 30 aprile 2011

Quando il cardinale Joseph Ratzinger spiegava chi era Giovanni Paolo II: "Si è identificato con la Chiesa perciò ne può essere la voce"


Quando il cardinale Joseph Ratzinger spiegava chi era Giovanni Paolo II

Si è identificato con la Chiesa
perciò ne può essere la voce

Dal volume Giovanni Paolo II pellegrino per il Vangelo (Cinisello Balsamo - Torino, Edizioni Paoline - Editrice Saie, 1988) pubblichiamo integralmente l’articolo nel quale il cardinale Joseph Ratzinger ripercorreva e faceva emergere gli aspetti fondamentali dei primi dieci anni di pontificato di Karol Wojtyła.
Giovanni Paolo II è senz’altro colui che, ai nostri tempi, si è incontrato personalmente con il maggior numero di esseri umani. Innumerevoli sono le persone a cui egli ha stretto la mano, a cui ha parlato, con cui ha pregato e che ha benedetto. Se il suo elevato ufficio può creare distanza, la sua personale irradiazione crea invece vicinanza. Anche le persone semplici, incolte, povere non hanno da lui l’impressione della superiorità, dell’irraggiungibilità o del timore, quei sentimenti che colpiscono così sovente chi si trova nelle camere d’aspetto dei potenti, delle autorità. Quando poi si hanno contatti personali con lui, è come se lo si conoscesse da lungo tempo, come se si parlasse con un parente prossimo, con un amico. Il titolo di «Padre» (= Papa) non appare più solo un titolo, ma l’espressione di quel rapporto reale che si prova veramente davanti a lui.

Tutti conoscono Giovanni Paolo II: il suo volto, il suo modo caratteristico di muoversi e di parlare; la sua immersione nella preghiera, la sua spontanea letizia. Certe sue parole si sono incise in maniera indelebile nella memoria, a cominciare dall’appassionato richiamo con cui egli si è presentato all’inizio del suo pontificato: «Spalancate le porte a Cristo, non abbiate paura di lui!». Oppure queste altre: «Non si può vivere per prova, non si può amare per prova!». In parole come queste si condensa tutto un pontificato. È come se egli volesse aprire dappertutto vie d’accesso a Cristo, come se desiderasse rendere accessibile a tutti gli uomini il varco verso la vita vera, verso il vero amore. Se, come Paolo, lo si ritrova instancabilmente sempre in cammino, fino «ai confini della terra», se vuol essere vicino a tutti e non perdere alcuna occasione per annunciare la Buona Novella, non è per scopi pubblicitari o per sete di popolarità, ma perché si realizzi in lui la parola apostolica: Charitas Christi urget nos (II Corinzi, 5, 14). Accanto a lui lo si avverte: gli sta a cuore l’uomo perché gli sta a cuore Dio.

Molto probabilmente si conosce meglio Giovanni Paolo II quando si è concelebrato con lui e ci si è lasciati attirare nell’intenso silenzio della sua preghiera, più che non quando si sono analizzati i suoi libri o i suoi discorsi. Giacché, proprio partecipando alla sua preghiera, si attinge ciò che è proprio della sua natura, al di là di qualsiasi parola. A partire da questo centro ci si spiega anche perché egli, pur essendo un grande intellettuale, che nel dialogo culturale del mondo contemporaneo possiede una voce sua propria e importante, ha conservato anche quella semplicità che gli permette di comunicare con ogni singola persona.

Qui si manifesta anche un altro elemento di quella grande capacità di integrazione, che contrassegna il Papa che viene dalla Polonia: l’aver cambiato il classico «noi» dello stile pontificale con l’«io» personale e immediato dello scrittore e dell’oratore. Una simile rivoluzione stilistica non è da sottovalutare. A tutta prima può sembrarci l’ovvia eliminazione di un’usanza antiquata, che non si intonava più ai nostri tempi. Ma non si deve dimenticare che questo «noi» non era solo una formula di retorica cortigiana. Quando parla il Papa, egli non parla a nome proprio. In quel momento, in ultima analisi, non contano niente le teorie o le opinioni private che egli ha elaborato nel corso della sua vita, per quanto alto possa essere il loro livello intellettuale.

Il Papa non parla come un singolo uomo dotto, con il suo io privato o, per così dire, come un solista sulla scena della storia spirituale dell’umanità. Egli parla attingendo dal «noi» della fede di tutta la Chiesa, dietro il quale l’io ha il dovere di scomparire. Mi viene in mente a questo proposito il grande Papa umanista Pio ii, Enea Silvio Piccolomini, il quale da Papa doveva talvolta dire, attingendo appunto dal «noi» del suo magistero pontificio, cose in contraddizione con le teorie di quel dotto umanista che precedentemente era stato lui stesso. Quando gli venivano segnalate simili contraddizioni soleva rispondere: Eneam reicite, Pium recipite («Lasciate stare Enea, prendete Pio, il Papa»).

In un certo senso non è dunque un fenomeno innocuo se l’«io» rimpiazza il «noi». Ma chi fa la fatica di studiare attentamente tutti gli scritti di Papa Giovanni Paolo II, capisce ben presto che questo Papa sa distinguere molto bene tra le opinioni personali di Karol Wojtyła e il suo insegnamento magisteriale in quanto Papa; egli però sa anche riconoscere che le due cose non sono reciprocamente eterogenee, ma riflettono un’unica personalità imbevuta della fede della Chiesa. L’io, la personalità, è entrata interamente al servizio del «noi». Non ha degradato il «noi» sul piano soggettivo di opinioni private, ma gli ha semplicemente conferito la densità di una personalità tutta plasmata da questo «noi», tutta dedita al suo servizio.

Io credo che tale fusione, maturata nella vita e nella riflessione di fede, tra il «noi» e l’«io» fondi in modo essenziale il fascino di questa figura di Papa. La fusione gli consente di muoversi in questo suo sacro ufficio in maniera del tutto libera e naturale; gli consente di essere come Papa interamente se stesso, senza dover temere di far scivolare troppo l’ufficio nel soggettivo.

Ma come è cresciuta questa unità? In che modo una strada personale di fede, di pensiero, di vita conduce a tal punto nel centro della Chiesa? Questa è una domanda che va ben oltre la semplice curiosità biografica. Giacché proprio tale «identificazione» con la Chiesa senza velo alcuno di ipocrisia o di schizofrenia sembra impossibile oggi a molti uomini che sono in travaglio per la fede.

Nella teologia è diventato, nel frattempo, quasi civetteria di moda il muoversi in distanza critica a riguardo della fede della Chiesa e far sentire al lettore che lui, il teologo, non è poi così ingenuo, così acritico e servile da porre il suo pensiero del tutto al servizio di questa fede. In tal modo mentre la fede viene svalutata, le frettolose proposte di questi teologi non ne traggono alcuna rivalutazione; invecchiano in fretta come in fretta sono nate. Nasce allora di nuovo un grande desiderio non solo di ripensare intellettualmente la fede in modo leale, ma anche di poterla vivere in modo nuovo.

La vocazione di Karol Wojtyła maturò quando egli lavorava in un’azienda di produzione chimica, durante gli orrori della guerra e dell’occupazione. Egli stesso ha de-finito questo periodo di quattro anni, vissuto nell’ambiente operaio, come la fase formativa più determinante della sua vita. In tale contesto egli ha studiato la filosofia, apprendendola faticosamente dai libri, e il sapere filosofico gli si presentava di primo acchito come una giungla impenetrabile.

Il suo punto di partenza era stato la filologia, l’amore per la lingua, combinata all’applicazione artistica della lingua, in quanto rappresentazione della realtà in una nuova forma di teatro. È sorta così quella specie particolare di «filosofia» caratteristica del Papa attuale. È un pensiero in dialettica con il concreto, un pensiero fondato sulla grande tradizione, ma sempre alla ricerca della sua verifica nella realtà presente. Un pensiero che scaturisce da uno sguardo artistico e, nello stesso tempo, è guidato dalla cura del pastore: rivolto all’uomo per indicargli la via.

Mi sembra interessante scorrere per un momento la serie cronologica degli autori determinanti nei quali egli si imbatté lungo l’iter della sua formazione. Il primo era stato, come lui stesso riferisce nella sua intervista ad André Frossard, un manuale d’introduzione alla metafisica. Se altri studenti tentano solo di comprendere in qualche modo l’intera logica della struttura concettuale esposta nel testo e di fissarsela in mente in vista dell’esame, in lui ebbe inizio invece la lotta per una reale comprensione, cioè per cogliere il rapporto tra concetto ed esperienza, ed effettivamente si accese, dopo due mesi di duro impegno, il cosiddetto «lampo»: «Scoprii quale senso profondo aveva tutto ciò che io avevo prima solo vissuto e presagito».

Poi arrivò l’incontro con Max Scheler e, quindi, con la fenomenologia. Questo indirizzo filosofico aveva la preoccupazione, dopo controversie infinite circa i confini e le possibilità del conoscere umano, di vedere di nuovo semplicemente i fenomeni così come appaiono, nella loro varietà e nella loro ricchezza. Questa precisione del vedere, questa intelligenza dell’uomo non a partire da astrazioni e da principi teorici, ma cercando di cogliere nell’amore la sua realtà, è stata ed è rimasta decisiva per il pensiero del Papa.

Infine egli scoprì assai presto, prima ancora della vocazione al sacerdozio, l’opera di san Giovanni della Croce, attraverso la quale gli si aprì il mondo dell’interiorità, «dell’anima maturata nella grazia». L’elemento metafisico, quello mistico, quello fenomenologico e quello estetico, collegandosi insieme, spalancano lo sguardo verso le molteplici dimensioni della realtà e diventano alla fine un’unica percezione sintetica, capace di paragonarsi con tutti i fenomeni e di imparare a comprenderli, proprio trascendendoli.

La crisi della teologia postconciliare è in larga misura la crisi dei suoi fondamenti filosofici. La filosofia presentata nelle scuole teologiche mancava di ricchezza percettiva; le mancava la fenomenologia, e le mancava la dimensione mistica. Ma, quando i fondamenti filosofici non vengono chiariti, alla teologia viene a mancare il terreno sotto i piedi. Perché allora non è più chiaro fino a che punto l’uomo conosce davvero la realtà, e quali sono le basi a partire da cui egli possa pensare e parlare.

Così pare a me che sia una disposizione della Provvidenza il fatto che, in questo tempo, è salito alla cattedra di Pietro un «filosofo», che fa filosofia non come una scienza da manuale, ma partendo dal travaglio necessario per reggere di fronte alla realtà e dall’incontro con l’uomo che cerca e che domanda.

Wojtyła è stato ed è l’uomo. Il suo interesse scientifico fu sempre più contrassegnato dalla sua vocazione di pastore. Di qui si comprende come la sua collaborazione alla Costituzione conciliare sulla Chiesa nel mondo contemporaneo, il cui testo è determinato in modo centrale dalla preoccupazione per l’uomo, è diventata un’esperienza decisiva per il futuro Papa.

«La via della Chiesa è l’uomo». Questa tematica, concretissima e radicalissima nella sua profondità, si è trovata sempre e ancora si trova al centro del suo pensiero che è insieme azione. Ne è risultato che la questione della teologia morale è divenuta il centro del suo interesse teologico. Anche questa era una importante predisposizione umana in ordine al compito del massimo pastore della Chiesa. Giacché la crisi dell’orientamento filosofico si manifesta dal punto di vista teologico soprattutto come crisi della norma teologico-morale. Qui si trova il collegamento tra filosofia e teologia, il ponte fra la ricerca razionale sull’uomo e il compito teologico, ed è così evidente, che non è possibile sottrarvisi.

Dove crolla l’antica metafisica, anche i comandamenti perdono il loro nesso interiore: allora grande diventa la tentazione di ridurli al piano unicamente storico-culturale. Wojtyła aveva imparato da Scheler a indagare, con una sensibilità umana finora ignota, l’essenza della verginità, del matrimonio, della maternità e della paternità, il linguaggio del corpo e, di conseguenza, l’essenza dell’amore. Egli ha assunto nel suo pensiero le nuove scoperte del personalismo, ma proprio così ha anche imparato nuovamente a capire che il corpo stesso parla, che la creazione parla e ci delinea le vie da percorrere: il pensiero dell’età moderna ha dischiuso per la teologia morale una dimensione nuova, e Wojtyła l’ha percepita in una continua implicazione di riflessione e d’esperienza, di vocazione pastorale e speculativa e l’ha compresa nella sua unità con i grandi temi della tradizione.

Un altro elemento ancora è stato importante per questo cammino di vita e di pensiero, per l’unità di esperienza, pensiero e fede. Tutta la battaglia di quest’uomo non si è svolta dentro un cerchio più o meno privato, unicamente nello spazio interno di una fabbrica o in un seminario. Essa era circonfusa dalle fiamme della grande storia.

La presenza di Wojtyła in fabbrica fu conseguenza dell’arresto dei suoi professori universitari. Il tranquillo corso accademico fu interrotto e sostituito da un durissimo tirocinio in mezzo a un popolo oppresso. L’appartenenza al seminario maggiore del cardinal Sapieha era già, in quanto tale, un atto di resistenza. E così la questione della libertà, della dignità e dei diritti dell’uomo, della responsabilità politica della fede, non penetrò nel pensiero del giovane teologo come un semplice problema teorico. Era la necessità, molto reale e concreta, di quel momento storico.

Ancora una volta la situazione particolare della Polonia, situata nel punto d’intersezione tra est e ovest, era diventata il destino di questo Paese. I critici del Papa osservano con frequenza che egli, come polacco, conosce veramente solo la pietà tradizionale, sentimentale, del suo Paese e non può quindi comprendere pienamente le complicate questioni del mondo occidentale.

Nulla è più insensato di una simile osservazione, che tradisce un’ignoranza completa della storia. Basta leggere l’enciclica Slavorum apostoli per derivarne l’idea che precisamente di questa eredità polacca aveva bisogno il Papa per poter pensare all’interno di una molteplicità di culture. Essendo la Polonia un punto di intersezione delle civiltà, in particolare delle tradizioni germaniche, romaniche, slave e greco-bizantine, la questione del dialogo delle varie culture proprio in Polonia è, per molti aspetti, più ardente che altrove. E così proprio questo Papa è un Papa veramente ecumenico e veramente missionario, preparato provvidenzialmente anche in tale senso per affrontare le questioni del tempo successivo al concilio Vaticano II.

Rifacciamoci ancora una volta all’interesse pastorale e antropologico del Papa. «La via della Chiesa è l’uomo». Il significato autentico di questa affermazione, spesso malintesa, dell’enciclica sul «Redentore dell’uomo» si può veramente capire se ci si ricorda che per il Papa «l’uomo» in senso pieno è Gesù Cristo. La sua passione per l’uomo non ha nulla a che fare con un antropocentrismo autosufficiente. Qui l’antropocentrismo è aperto verso l’alto.

Ogni antropocentrismo mirante a cancellare Dio come concorrente dell’uomo si è già da tempo capovolto in noia dell’uomo e per l’uomo. L’uomo non può più considerarsi centro del mondo. Ed ha paura di se stesso a motivo della sua propria potenza distruttiva. Quando l’uomo viene collocato al centro escludendovi Dio, l’equilibrio complessivo viene sconvolto: vale allora la parola della lettera ai Romani (8, 19. 21-22), in cui si dice che il mondo viene trascinato nel dolore e nel gemito dell’uomo; guastato in Adamo, è da allora in attesa della comparsa dei figli di Dio, della loro liberazione. Proprio perché al Papa sta a cuore l’uomo, egli vorrebbe aprire le porte a Cristo. Giacché unicamente con la venuta di Cristo i figli di Adamo possono diventare figli di Dio, e l’uomo e la creazione entrare nella loro libertà.

L’antropocentrismo del Papa è quindi, nel suo nucleo più profondo, teocentrismo. Se la sua prima enciclica è apparsa tutta concentrata sull’uomo, le sue tre grandi encicliche si coordinano naturalmente tra di loro in un grande trittico trinitario: l’antropocentrismo è nel Papa teocentrismo, perché egli vive la sua vocazione pastorale a partire dalla preghiera, fa la sua esperienza dell’uomo nella comunione con Dio e a partire da qui egli ha appreso a comprenderla.

Un’ultima osservazione. Il profondo amore del Papa a Maria è certamente, innanzitutto, un’eredità che gli viene dalla sua patria polacca. Ma l’enciclica mariana dimostra quanto questa pietà mariana è stata in lui biblicamente approfondita nella preghiera e nella vita. Nello stesso modo in cui la sua filosofia era stata resa più concreta e vivificata mediante la fenomenologia, ossia attraverso lo sguardo alla realtà che appare, così anche il rapporto con Cristo non rimane per il Papa nell’astratto delle grandi verità dogmatiche, ma diventa un concreto umano incontrarsi con il Signore in tutta la sua realtà e in tal modo logicamente anche un incontrarsi con la Madre, nella quale l’Israele credente e la Chiesa orante sono diventati persona.

Ancora una volta è sempre e solo a partire da questa concreta vicinanza, in cui si vede il mistero di Cristo in tutta la ricchezza della sua pienezza divino-umana, che il rapporto col Signore riceve il suo calore e la sua vitalità. E naturalmente è qualcosa che si ripercuote su tutta l’immagine dell’uomo il fatto che questa risposta della fede ha preso figura per sempre in una donna, in Maria.

Che cosa voglio dire con tutto ciò? Il mio scopo era quello di dimostrare l’unità fra mistero e persona nella figura di Papa Giovanni Paolo II. Egli si è realmente «identificato» con la Chiesa, e ne può quindi essere anche la voce. Tutto ciò non è detto per glorificare una creatura umana, ma per dimostrare che il credere non estingue il pensare e non ha bisogno di mettere fra parentesi l’esperienza del nostro tempo. Al contrario: soltanto la fede dona al pensiero la sua apertura e all’esperienza il suo significato. L’uomo non diventa libero quando diviene un solista, ma quando riesce a trovare il grande contesto al quale appartiene.

Dieci anni di pontificato di Giovanni Paolo II. L’ampiezza del suo messaggio appare già ora quasi incalcolabile, immensa. Ho voluto tentare di accennare in pochi tratti alle energie portanti che ne costituiscono la forza profonda, e, insieme, rendere così meglio comprensibile la direzione che egli ci indica. Il Signore voglia conservarci a lungo questo Papa, perché ci sia di guida sulla strada verso il terzo millennio della storia cristiana.

(©L'Osservatore Romano 1° maggio 2011)

Alla vigilia della beatificazione di Giovanni Paolo II. Nella dimensione di Dio (C.D.C.)


Alla vigilia della beatificazione di Giovanni Paolo II

Nella dimensione di Dio

Riflettere interiormente su una beatificazione come quella di Giovanni Paolo II aiuta a entrare, con interiore libertà, nella dimensione di Dio: alla quale i beati e i santi della Chiesa cattolica necessariamente rimandano e nella quale trovano senso. Spazi di silenzio aiutano a percepire il carattere spirituale di avvenimenti religiosi collettivi e a viverli personalmente.

La sorpresa più grande che Giovanni Paolo II ci lascia in eredità non è tanto la scoperta di un’intuizione di governo pastorale, lo stile personalissimo e mai solo protocollare nel ministero di successore di Pietro, quanto piuttosto la sua capacità di vivere il rapporto con Dio. Dal processo canonico sulla sua pratica eroica delle virtù cristiane e dal carattere miracoloso della guarigione dal morbo di Parkinson della religiosa attribuita alla sua intercessione emerge una voce comune: l’unione con Dio in tutta la vita di Karol Wojtyła era tanto normale da sembrare una sua seconda natura. Egli appare un’anima che ha cercato di adeguarsi alla santità di Dio, alla cui presenza ordinariamente respirava e agiva. Esprimendo una tensione verso l’alto cresciuta negli anni e divenuta impressionante nell’ultimo decennio di pontificato, quando la malattia inarrestabile ha progressivamente minato le sue forze fisiche.

Del resto, mentre nel primo periodo del suo pontificato prevaleva l’ammirazione, una volta divenuto debole e fragile agli occhi del mondo — così esigente nella cura dell’immagine — Giovanni Paolo II è diventato familiare ed è stato percepito da credenti e non credenti come un testimone credibile e umano del Vangelo predicato senza sosta in tutto il mondo.

L’invito ad aprire le porte a Cristo senza paura, lanciato all’inizio del suo pontificato, è stato poi incarnato nella sofferenza. Affrontata con serena pazienza perché in compagnia di Cristo e insieme a milioni di uomini e donne accomunati da analoghi patimenti. Le parole predicate apparivano verificate dalla sua testimonianza semplicemente cristiana. Nella massima debolezza fisica, mai nascosta, il successore di Pietro è apparso ancora più amato perché ancora più simile al Buon Pastore che dà la sua vita, e così incoraggia a vivere. Era diffusa la convinzione che il Papa capisse la piccola vita quotidiana di quanti faticano a tirare avanti: tutta questa gente ai margini dei riflettori cercava di carpire il segreto della forza interiore che sprigionava da Giovanni Paolo II.

Quando, dopo l’imposizione della berretta rossa, sul sagrato della basilica Vaticana i nuovi cardinali si scambiavano il saluto tra loro e con gli altri porporati più anziani in un clima festoso, Papa Wojtyła — era il suo ultimo concistoro nell’ottobre del 2003 e il Parkinson era ormai evidentissimo — guardava in silenzio, quasi con un occhio di congedo da questa vita. Sembrò d’improvviso come appartato in un’altra dimensione che, in quel momento lieto e importante, si rivelava essere un ritiro abituale del suo spirito. Sempre presente a tutto e a tutti mentre la sua anima risiedeva altrove, in un rifugio interiore ove avveniva un colloquio ininterrotto con Dio. Lì era la fonte della sua amabilità, della sua energia, del coraggio pastorale.

La necessità di riaprire nella Chiesa e nel tempo presente — secolare e globalizzato — l’interesse a Dio, il Vivente, per tornare a edificare società libere e fraterne, ha abitato il suo insegnamento e costituito il segreto della sua vita quotidiana.

È l’eredità che lascia Giovanni Paolo II, questione moderna per eccellenza. Non a caso, Benedetto XVI ne ha fatto la ragione stessa del suo pontificato.

C.D.C.
(©L'Osservatore Romano 30 aprile 2011)

Estratta dalla tomba la teca contentente il corpo di Papa Wojtyla (29 aprile 2011)


Estratta dalla tomba la teca
contentente il corpo di Papa Wojtyla

Dopo la Beatificazione l'omaggio dei fedeli

di Alessandro De Carolis

In vista dell’omaggio che le verrà dedicato subito dopo la cerimonia di Beatificazione, e della successiva reposizione in San Pietro, stamattina la teca contenente il corpo di Giovanni Paolo II è stata estratta dalla tomba che la custodiva nelle Grotte Vaticane. Le operazioni di apertura della tomba, informa una nota ufficiale della Sala Stampa Vaticana, sono iniziate questa mattina presto finché verso le 9 ha avuto luogo un breve momento di preghiera, con il il cardinale Angelo Comastri che ha intonato il canto delle litanie. Tra i presenti, vi erano anche il cardinale segretario di Stato, Tarcisio Bertone, il cardinale Giovanni Lajolo e il cardinale Stanislao Dziwisz, oltre a personalità di Curia, alle suore dell’appartamento pontificio di Giovanni Paolo II e ai responsabili della Gendarmenia e della Guardia Svizzera. Poco dopo, sempre al canto delle litanie, la teca – posta su un carrello – è stata portata con un percorso brevissimo davanti alla tomba di San Pietro, sempre al livello delle Grotte Vaticane e ricoperta da un ampio drappo ricamato in oro. Lì, il cardinale Bertone ha recitato una breve preghiera conclusiva e l’assemblea si è sciolta verso le 9.15.


La nota ufficiale ricorda che le spoglie del prossimo Beato erano state sepolte all’interno di tre casse. La prima, di legno, esposta durante il funerale; la seconda di piombo e sigillata; la terza, ancora in legno, è quella più esterna e visibile, estratta questa mattina dalla tomba: il suo stato di conservazione, specifica la nota, è “buono” pur “manifestando alcuni segni del tempo”. “La grande lapide tombale, rimossa e posta in altra parte delle Grotte è conservata intatta e sarà trasportata a Cracovia per essere poi collocata – informa ancora il comunicato – in una nuova chiesa da dedicare al Beato”. La teca rimarrà invece nelle Grotte Vaticane fino a domenica mattina, quando sarà portata nella Basilica, davanti all’altare centrale, per l’omaggio del Santo Padre e dei fedeli dopo la Beatificazione. Nel frattempo, le Grotte restano chiuse al pubblico. “La reposizione stabile del corpo del Beato sotto l’altare della cappella di San Sebastiano – conclude la nota – avverrà probabilmente la sera di lunedì 2 maggio dopo la chiusura serale della Basilica”.

Fonte: Radio Vaticana 29 aprile 2011

II Domenica di Pasqua o della Divina Misericordia - Domínica in Albis, In octava Paschae (1 maggio 2011)


MISSALE ROMANUM
Domenica, 1 Maggio 2011

FORMA ORDINARIA




FORMA STRAORDINARIA

SANTA MESSA DI BEATIFICAZIONE DEL SERVO DI DIO GIOVANNI PAOLO II
II Domenica di Pasqua o della Divina Misericordia
Cappella Papale
Presieduta dal Santo Padre

BENEDETTO XVI
Sagrato della Basilica Vaticana, ore 10

Notificazione
Libretto della Celebrazione
Omaggio a Giovanni Paolo II - Una vita in immagimi




Nuova creatura in Cristo

Dai «Discorsi» di sant'Agostino, vescovo
(Disc. 8 nell'ottava di Pasqua 1, 4; Pl 46, 838. 841)
Rivolgo la mia parola a voi, bambini appena nati, fanciulli in Cristo, nuova prole della Chiesa, grazia del Padre, fecondità della Madre, pio germoglio, sciame novello, fiore del nostro onore e frutto della nostra fatica, mio gaudio e mia corona, a voi tutti che siete qui saldi nel Signore.

Mi rivolgo a voi con le parole stesse dell'apostolo: «Rivestitevi del Signore Gesù Cristo e non seguite la carne nei suoi desideri» (Rm 13, 14), perché vi rivestiate, anche nella vita, di colui del quale vi siete rivestiti per mezzo del sacramento. «Poiché quanti siete stati battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo. Non c'è più Giudeo, né Greco; non c'è più schiavo, né libero; non c'è più uomo, né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù» (Gal 3, 27-28).

In questo sta proprio la forza del sacramento. E' infatti il sacramento della nuova vita, che comincia in questo tempo con la remissione di tutti i peccati, e avrà il suo compimento nella risurrezione dei morti. Infatti siete stati sepolti insieme con Cristo nella morte per mezzo del battesimo, perché, come Cristo è risuscitato dai morti, così anche voi possiate camminare in una vita nuova (cfr. Rm 6, 4).

Ora poi camminate nella fede, per tutto il tempo in cui, dimorando in questo corpo mortale, siete come pellegrini lontani dal Signore. Vostra via sicura si è fatto colui al quale tendete, cioè lo stesso Cristo Gesù, che per voi si è degnato di farsi uomo. Per coloro che lo temono ha riservato tesori di felicità, che effonderà copiosamente su quanti sperano in lui, allorché riceveranno nella realtà ciò che hanno ricevuto ora nella speranza.

Oggi ricorre l'ottavo giorno della vostra nascita, oggi trova in voi la sua completezza il segno della fede, quel segno che presso gli antichi patriarchi si verificava nella circoncisione, otto giorni dopo la nascita al mondo. Perciò anche il Signore ha impresso il suo sigillo al suo giorno, che è il terzo dopo la passione. Esso però, nel ciclo settimanale, è l'ottavo dopo il settimo cioè dopo il sabato, e il primo della settimana. Cristo, facendo passare il proprio corpo dalla mortalità all'immortalità, ha contrassegnato il suo giorno con il distintivo della risurrezione.

Voi partecipate del medesimo mistero non ancora nella piena realtà, ma nella sicura speranza, perché avete un pegno sicuro, lo Spirito Santo. «Se dunque siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù, dove si trova Cristo assiso alla destra di Dio; pensate alle cose di lassù, non a quelle della terra. Voi infatti siete morti e la vostra è ormai nascosta con Cristo in Dio! Quando si manifesterà Cristo, la vostra vita, allora anche voi sarete manifestati con lui nella gloria» (Col 3, 1-4).
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venerdì 29 aprile 2011

I viaggi apostolici nei ricordi di Alberto Gasbarri. Quel baciamano in volo lungo ventisei anni (Mario Ponzi)


I viaggi apostolici nei ricordi di Alberto Gasbarri

Quel baciamano in volo
lungo ventisei anni

di Mario Ponzi

«“Padre Santo, che sei nei cieli...”. Mi viene spontaneo rivolgermi così, nelle mie preghiere, a Papa Wojtyła. “Padre Santo”, perché sin dall’inizio del nostro rapporto di amicizia l’ho chiamato così, con tanta devozione. Mentre “che sei nei cieli” è legato letteralmente al ricordo delle oltre quattromila udienze personali che ha concesso ai membri degli equipaggi degli aerei mentre eravamo in volo verso le mete dei suoi viaggi apostolici. Glieli presentavo uno per uno. Si intratteneva con ciascuno in cordiale colloquio. In quei momenti era più facile comprendere la statura dell’uomo, oltre che del pastore». Schivo e molto riservato, Alberto Gasbarri non ha mai voluto rilasciare interviste. Fa un’eccezione per i lettori del nostro giornale, con i quali condivide alcuni ricordi — «non i più intimi e personali» precisa — dell’esperienza maturata seguendo da vicino Giovanni Paolo II nel suo ministero itinerante per le strade della mondo.

Direttore amministrativo della Radio Vaticana, Gasbarri è soprattutto l’uomo che organizza concretamente il programma dei viaggi del Papa oltre i confini d’Italia. Una delicata missione iniziata nel 1982 come assistente del gesuita Roberto Tucci, ora cardinale, chiamato in quell’anno a sostituire nell’incarico monsignor Paul Marcinkus. Quando infatti il presule statunitense, di origine lituana, passò a un’altra mansione pastorale, la scelta per sostituirlo cadde, anche se provvisoriamente, sull’allora direttore generale della Radio Vaticana e sul suo assistente. Si riteneva infatti che, avendo seguito, per il loro specifico lavoro radiofonico, tutti i viaggi compiuti dal 1978 sino a quel momento, avessero maturato una sufficiente esperienza. Per Gasbarri il «provvisorio» va avanti da trent’anni. Anzi, da quando padre Tucci ha lasciato l’incarico, e dopo un breve periodo di collaborazione con monsignor Renato Boccardo — oggi arcivescovo di Spoleto-Norcia — la responsabilità dei viaggi papali è tutta nelle sue mani. Ha fatto la «gavetta» con Giovanni Paolo II. Di quell’esperienza conserva molti ricordi. Alcuni li racconta in questa intervista.

Il suo è certamente un lavoro atipico, grazie al quale ha avuto l’opportunità di conoscere aspetti di Papa Wojtyła dai più ignorati. Qual è la prima cosa che le è rimasta impressa?

Come uomo, la sua volontà d’acciaio. Come pastore, la forza contagiante della sua preghiera.

Volontà d’acciaio?

Sì. Quando prendeva una decisione era assolutamente irremovibile. È stato difficilissimo, per me, seguirlo in questo atteggiamento. E pensare che ero preparato ad affrontare la difficoltà.

In che senso, scusi?

Nel senso che ero stato messo in guardia da monsignor Marcinkus. Ci trasmise le sue conoscenze su questo lavoro veramente atipico. Ci confidò fin dall’inizio che si trattava di un impegno molto difficile. Bisognava tenere conto di tantissimi dettagli, di tante situazioni da valutare. Insomma era qualcosa di oggettivamente molto complesso. In più si aggiungevano nuovi elementi, a volte imprevedibili. Aveva maturato una certa esperienza organizzando i viaggi di Paolo VI e dunque poteva a ragione valutare la grande differenza con quelli di Giovanni Paolo II. «Ricordatevi sempre — ci disse — che Papa Wojtyła ha una volontà d’acciaio, un carattere e una personalità fortissimi. Quando ha un obiettivo in mente, nessuno lo può fermare. E di questo dovete imparare a tener conto nel preparare i suoi viaggi». Ne facemmo subito esperienza diretta.

Quando?

Non posso dire esattamente quando accadde la prima volta. I momenti sono stati tanti e si sovrappongono nella memoria. Però posso raccontare un episodio che può aiutare a capire quale fosse la sua determinazione. Siamo nel 1992. Nel mese di giugno il Papa aveva compiuto una visita pastorale in Africa. A luglio dovette essere ricoverato per un serio intervento chirurgico. Qualche giorno dopo l’operazione decidemmo, con padre Tucci, di andare al policlinico Gemelli per avere dal suo segretario don Stanislao notizie dirette. Quando ci vide, monsignor Dziwisz insistette per farci entrare nella stanza di degenza. Non volevamo assolutamente disturbarlo. Don Stanislao voleva invece testarne l’umore perché lo vedeva ansioso, inquieto più che sofferente. Era convinto che vedendoci avrebbe pensato subito ai suoi viaggi. Lo trovammo seduto in poltrona. Giusto il tempo di salutare i «due direttori», come ci chiamava affettuosamente; poi, con quell’umorismo che lo contraddistingueva in ogni momento, ci disse: «Ecco, come vedete sono già seduto. Mi manca solo di allacciare la cintura di sicurezza, poi possiamo partire». E non scherzava. Il 14 ottobre eravamo a Santo Domingo per la commemorazione del cinquecentesimo anniversario dell’evangelizzazione. Erano passati poco più di due mesi dalla dimissione dall’ospedale. Si sottopose a un programma massacrante. Tanto che un cardinale del seguito ci rimproverò per questo, soprattutto considerando le condizioni fisiche del Papa. Ma tappe e appuntamenti li decideva lui personalmente. Noi dovevamo solo renderli possibili e organizzarli. Vero è che tanti non riuscivano a stargli dietro, neppure alcuni tra i più giovani al suo seguito. Aveva una forza incredibile.

Esempio indimenticabile della sua «testardaggine» fu quella volta in cui...

Volle sfidare la sua stessa infermità pur di pregare sul Golgota. In occasione del grande Giubileo del 2000, ci chiese infatti di tornare in Terra Santa. Era in condizioni di salute piuttosto critiche e aveva grandi problemi di mobilità, quindi dovemmo tenere in considerazione il suo stato fisico nella preparazione del viaggio. D’accordo con don Stanislao, quando si pensò di fare la visita al Santo Sepolcro, escludemmo che potesse salire sino al Golgota poiché la scala di accesso è talmente stretta e ripida da non consentire l’aiuto a una persona che abbia delle difficoltà. Nelle condizioni del Papa dunque era impossibile. La visita si sviluppò lungo nove densissime e faticose giornate. Al momento di lasciare la residenza del Patriarca latino di Gerusalemme Michel Sabbah — dove il Pontefice era stato ospite prima del congedo — per raggiungere l’aeroporto e partire per Roma, mi accorsi che, nonostante la testa del corteo si fosse mossa, la macchina vhe aveva a bordo Giovanni Paolo II era ferma. Don Stanislao mi chiamò per dirmi che il Papa chiedeva di poter tornare al Santo Sepolcro e di andare a pregare sul Golgota. Per le rigidissime forze di sicurezza israeliane non c’erano dubbi: era impossibile e da escludere assolutamente perché tutte le misure di protezione erano state rimosse, i negozi della città vecchia erano riaperti e i pellegrini avevano già invaso quella parte della città. Dunque non c’erano assolutamente le condizioni per realizzare quel desiderio. Lo spiegai a don Stanislao e al Pontefice. A quel punto Papa Wojtyła prese il braccio del segretario e disse: «Se non vado a pregare sul Golgota, non posso partire da Gerusalemme». Dal suo sguardo capii che non c’erano alternative e mi tornarono alla mente le parole di monsignor Marcinkus: «Quando ha un obiettivo, nessuno lo ferma». Lo feci presente alle autorità competenti. Dovevano scegliere: o avere il Papa fermo in mezzo alla strada per chissà quanto tempo o puntare sulla sorpresa e portarlo al Golgota.

E salì sul colle?

Sino alla cima. Con grande difficoltà raggiungemmo il Santo Sepolcro. Lì ho vissuto un momento che mai dimenticherò. Il Papa non camminava quasi più, si teneva a malapena in piedi e non riusciva a procedere da solo. Lì davanti a quella scala, però, raccolse tutte le sue poche forze residue e si aggrappò ai corrimano. Cominciò a salire lentamente. Lo precedevo camminando all’indietro per controllarlo. Il solerte e fedele comandante della Gendarmeria pontificia, Camillo Cibin, era dietro, pronto a sorreggerlo in caso di difficoltà. Ho visto il volto di Giovanni Paolo II trasfigurarsi per la sofferenza a mano a mano che saliva. Non ebbi la percezione del tempo che impiegammo a salire quei venticinque gradini. Mi sembrò un’eternità. In cima non c’era neanche un inginocchiatoio. Appena giunto crollò in ginocchio sul lastricato per la stanchezza. Era ai piedi dell’altare di marmo del Golgota. Rimase in quella posizione a lungo, assorto nella preghiera. Non dimenticherò mai quell’immagine mai. Anzi, ogni volta che arriva il periodo di Pasqua e penso alla Passione di Cristo, rivedo il volto di Wojtyła mentre sale le scale del Golgota. È stato impressionante. Dopo aver pregato disse: «Adesso possiamo andare».

È vero che a qualunque latitudine si trovasse, il 16 ottobre celebrava la messa di ringraziamento per la sua elezione?

Sì, lo faceva sempre. In genere intorno alle 18. Celebrava la sua messa da solo.

Quando capitò fuori d’Italia?

Lo ricordo bene perché, tra l’altro, fu una evidente testimonianza del suo rapporto con la preghiera. Era il 1991, in Brasile, e credo sia stata l’unica volta in cui nel periodo di un viaggio era compresa la ricorrenza della sua elezione a Pontefice. Ci trovavamo nel Mato Grosso, a Campo Grande, in una piccola missione dei salesiani, dove c’era la residenza del Papa. In quei giorni, come al solito, il programma era massacrante. Anche quella giornata era stata intensissima. Tornammo verso le 18 nella residenza per una breve pausa prima di altri impegni. Don Stanislao chiamò padre Tucci e chiese di preparare subito la cappella perché il Pontefice doveva celebrare. Il nostro disorientamento — o forse la nostra incredulità e preoccupazione per questo ulteriore impegno — spinse don Stanislao a rassicurarci. Sorridendo ci disse: «Il Santo Padre deve celebrare la sua messa». Capimmo e ci unimmo, anche se con la dovuta discrezione, alla sua preghiera.

Come fu possibile fargli accettare le brevi pause che vennero introdotte nel programma dei viaggi per rendere meno gravose le sue fatiche?

Fu difficile e le accettò solo in rarissime occasioni, per una mezza giornata al massimo. Capitò per due volte, in Polonia e in Slovacchia. In Polonia riuscimmo a organizzare una gita in barca sul lago Masuri. Eravamo pochissime persone. Il Papa si lasciò andare ai suoi ricordi: ci raccontò di quando era vescovo e accompagnava gruppi di giovani in quei luoghi per periodi di ritiro spirituale. Mentre parlava, ci indicava i punti precisi sulle sponde del lago dove avevano campeggiato, pregato, trascorso giorni di vacanza. Sul suo volto era visibile la nostalgia per quel tempo passato. In Slovacchia, poi, trascorremmo alcune ore sui monti Tatra, proprio al confine con la Polonia. Anche quella volta ricordò le sue escursioni con i giovani. Anzi, ci raccontò di quando, senza accorgersene, sconfinarono nel territorio cecoslovacco. Alcune guardie di frontiera li fermarono e gli chiesero i documenti con fare minaccioso. Quando lessero il suo nome bisbigliarono qualcosa in slovacco, lingua cheWojtyła conosceva benissimo. «Questo — disse una delle guardie — è il vescovo di Cracovia e mi hanno detto che è meglio lasciarlo stare perché è un tipo difficile».

È vero che non amava passare in rassegna i reparti militari schierati in suo onore quando giungeva in visita nei diversi Paesi?

Per lui era una piccola sofferenza. L’accettava con pazienza. Sapeva che non poteva farne a meno. Ma era piuttosto insofferente. Noi cercavamo di lasciare spazio soprattutto alla gente che accorreva a fargli festa. Era l’unico modo per distrarlo un po’ dalle formalità di quelle cerimonie.

E quando era a tu per tu con i capi di Stato?

Non si è mai fatto problemi, convinto della necessità di dare a Cesare quel che è di Cesare, e a Dio quel che è di Dio.

Cosa è rimasto in lei di questa esperienza accanto a Papa Wojtyła?

Intanto la forza sconvolgente e coinvolgente del suo pregare, sempre e comunque. E poi la sua grande umanità e la sua altrettanto grande capacità di ascolto.

In quale circostanza particolare ha potuto percepire questi due aspetti?

Sono stato suo compagno di viaggio per quasi 27 anni in oltre 130 Paesi. Ho volato accanto a lui con 70 compagnie aeree diverse, con ogni tipo di veivolo. I trasferimenti aerei non erano tappe ufficiali della visita e gli equipaggi, dunque, non rientravano nell’elenco delle udienze normali. Tuttavia non c’è stato volo che si sia concluso senza l’incontro con il personale in servizio. Diventò da subito una consuetudine irrinunciabile per il Papa stesso. Ancora oggi continua, perché Benedetto XVI ha voluto mantenerla. Ho fatto un rapido calcolo e sono giunto alla conclusione che si è trattato di una vera e propria «udienza in volo» per circa quattromila persone tra assistenti, piloti, meccanici, dirigenti di compagnie aeree.

Cosa pensava in quei momenti?

Ero quasi sempre in ginocchio davanti a lui, che restava seduto perché l’aereo era in fase di avvicinamento alla pista. Negli occhi aveva sempre quell’espressione di padre affettuoso con tutti. Quel lungo baciamano nei cieli non è mai stato un semplice atto formale. Ognuno gli chiedeva qualcosa o gli rappresentava i suoi problemi: una benedizione per la mamma, per i figli, il conforto per sopportare una malattia da esporre. C’era chi gli offriva un dono, chi gli mostrava un rosario da benedire, un libro da firmare, un Vangelo da siglare. Soprattutto durante gli ultimi viaggi, nel vedere il suo volto affaticato, segnato dalla malattia eppure così aperto al sorriso per tutti, mi veniva spontaneo di pensare alla più bella preghiera insegnataci da Gesù, il Padre Nostro. Pensavo: «Padre Santo, che sei nei cieli». Eravamo abituati a chiamarlo «Padre Santo» in modo affettuoso ma anche rispettoso. E se oggi, alla vigilia della beatificazione, ripenso a quella fila interminabile di persone che lo ha incontrato mentre eravamo in volo, sento riaffiorare sulle labbra quella invocazione: «Padre Santo, che sei nei cieli». E così amo ricordarlo.

(©L'Osservatore Romano 30 aprile 2011)

giovedì 28 aprile 2011

"Il Linguaggio della Celebrazione Liturgica" di Mons. Guido Marini


IL LINGUAGGIO DELLA
CELEBRAZIONE LITURGICA

di Mons. Guido Marini
MAESTRO DELLE CELEBRAZIONI LITURGICHE PONTIFICIE

Conferenza tenuta il 24 febbraio 2011,
nell'Università Pontificia della Santa Croce - Roma, durante il corso:

"Ars celebrandi. Premessa per una fruttuosa partecipazione alla celebrazione eucaristica".

mercoledì 27 aprile 2011

A colloquio con il rabbino Jack Bemporad. Gli ebrei e il Papa fragile (Marco Bellizi)


A colloquio con il rabbino Jack Bemporad

Gli ebrei
e il Papa fragile

di Marco Bellizi

Ogni volta che si incontrava Giovanni Paolo II si aveva la sensazione che stesse accadendo qualcosa di importante; aveva una solennità immediatamente percepibile. Ma del Papa polacco non si è ancora riconosciuto tutto il valore: in particolare come filosofo della morale; un aspetto che dovrà essere studiato più in profondità. A esprimere queste opinioni è il rabbino Jack Bemporad, 78 anni, una vita spesa a promuovere la mutua comprensione fra le religioni. Nato in Italia ma trasferitosi negli Stati Uniti a sei anni, dopo l’approvazione delle leggi razziali, il rabbino ha guidato comunità ebraiche in Texas, California e New Jersey. Dal 1992 presiede il Center for Inter-Religious Understanding ed è docente presso la Pontificia università San Tommaso d’Aquino. Bemporad è ed è stato un importante interlocutore per i rapporti con la Chiesa: ha lavorato con i cardinali Willebrands e Cassidy per giungere a piene relazioni diplomatiche fra Israele e Santa Sede, aveva incontrato Giovanni XXIII — il concilio Vaticano II «è stata una delle esperienze decisive della mia vita», racconta — e Benedetto XVI. E, naturalmente ha avuto ripetuti incontri con Karol Wojtyła, di cui, alla vigilia della beatificazione, parla in questo colloquio con «L’Osservatore Romano».

Lei ha incontrato Giovanni Paolo II numerose volte, fra le quali a Denver, nel 1993, e in Vaticano, nel 1994, quando i vostri colloqui ebbero come tema la visione degli ebrei nel catechismo cattolico. Inoltre ha guidato una nutrita delegazione di rabbini e leader religiosi che si sono recati a far visita al Papa poco tempo prima della sua morte. Che ricordi conserva di quegli incontri?

Forse la prima sensazione che si aveva quando si incontrava personalmente Giovanni Paolo II era la percezione della sua solennità. Un elemento che si rendeva immediatamente manifesto e che ti faceva sentire che stava accadendo qualcosa di importante. Allo stesso tempo, trasparivano la sua profonda umanità e il suo amore; sentivi che lui era interessato a te e a cosa stavi facendo, alla questione che ti stava a cuore in quel momento. A Denver, il mio incontro con lui poté aver luogo solo tardi nella giornata, dal momento che era stato programmato dopo i molti colloqui e conferenze nei quali fu impegnato: la sua preoccupazione però era che le religioni potessero lavorare insieme per offrire un'etica oggettiva e universale capace di aiutare ad affrontare i problemi urgenti che ci troviamo di fronte: la guerra, la povertà, l'ineguaglianza e la mancanza di educazione in così tante parti del mondo. L'incontro in Vaticano fu invece molto più teoretico e teologico. Era collegato al lavoro che il nostro centro aveva fatto riguardo all'educazione della comunità interreligiosa sul nuovo catechismo e si parlò di come si poteva condurre al meglio il dialogo teologico fra cristiani ed ebrei. Quello che rimaneva impresso dopo questi e altri colloqui era la completa dedizione del Papa a costruire un mondo migliore per tutti gli esseri umani, il suo impegno per un dialogo nel quale si potesse essere conformi alla propria fede senza offendere la fede degli altri, e anche la consapevolezza di come fosse difficile e serio questo lavoro.

Quando Giovanni Paolo II si recò a Gerusalemme lei fu chiamato a commentare l’evento per diversi media. A distanza di tempo, secondo lei, cosa veramente rese quel viaggio così memorabile?

Penso che l'immagine di un Papa fragile, che senza aiuto camminava lentamente verso il Muro per inserirvi la bellissima preghiera di perdono e riconciliazione, abbia colpito indelebilmente i cuori degli ebrei, non solo di quelli di Israele ma degli ebrei di tutto il mondo. Inoltre, credo che il suo incontro con i sopravvissuti polacchi della Shoah, i quali riconobbero come questo Papa da giovane fosse stato testimone di quell'orrore, abbia dimostrato la sua solidarietà con la sofferenza del popolo ebraico.

Secondo lei, quale atto di Giovanni Paolo II è stato determinante nei rapporti con la comunità ebraica?

Credo che l'atto più importante sia stato la visita alla Sinagoga di Roma, nell'ambito della quale si ebbe la conferma di quella che è stata la più importante innovazione della dichiarazione Nostra aetate e dei documenti successivi. Giovanni Paolo II credeva che i cambiamenti sopravvenuti fra cristiani ed ebrei dovessero avere un’esplicita espressione. Quale modo migliore poteva esserci se non entrare nella Sinagoga di Roma e abbracciare il rabbino Toaff davanti al mondo intero?

Che importanza hanno avuto, nel giudizio degli ebrei sul Papa, gli atteggiamenti personali di Giovanni Paolo II ?

In effetti il popolo ebraico aveva la più alta opinione e il più alto rispetto per Giovanni Paolo II. È stato il primo Papa a entrare in Sinagoga e a chiedere perdono per i passati atti di antigiudaismo, usando la parola ebraica teshuvah, che significa non solo richiesta di perdono ma determinazione a prendere una nuova direzione. Oltre a questo, ha avviato e portato a termine la costruzione di piene relazioni diplomatiche fra Israele e la Santa Sede e ovunque lui andasse nel mondo, ha sempre incontrato la locale comunità ebraica per stabilire legami di amicizia e mutua comprensione. Nessun Papa prima di lui aveva fatto così tanto.

Di Karol Wojtyła si racconta come da giovane prete abbia ritenuto non opportuno educare al cattolicesimo un orfano ebreo, rispettando cos ì la volontà dei genitori del bambino, morti in un campo di concentramento. Se lei si fosse trovato nelle stesse circostanze, avrebbe agito allo stesso modo?

Sì, anche se devo dire che la religione ebraica non prevede che si faccia proselitismo attivo. Questo atto testimonia la sensibilità e la comprensione del Papa.

Giovanni Paolo II ha detto che la Shoah e l’antisemitismo hanno un intrinseco sentimento anticristiano. È d’accordo con questa affermazione?

Certo! L'idolatria del culto del Führer e il suo simbolismo pagano sono antitetici agli insegnamenti tanto del giudaismo quanto del cristianesimo. E potrei aggiungere anche dell'islam.

Qual è l’eredità più grande che ci ha lasciato Giovanni Paolo II?

Non abbandonare la speranza, non avere paura, il pessimismo è un grande peccato. Inoltre, e questo sfortunatamente è stato negato, egli era un grande filosofo etico e morale. I suoi scritti sulla persona e nel campo dell'etica credo che dovranno essere attentamente studiati dalle future generazioni.

Lei è un grande esperto di dialogo interreligioso, al quale ha dedicato gran parte della sua vita. Secondo lei, quale può essere la chiave per superare le difficoltà in questo campo e in questa epoca in particolare?

Dobbiamo avere molta più conoscenza gli uni degli altri e relazionarci con compassionevole comprensione, riconoscendo che solo in questo modo possiamo lavorare insieme per il bene. Attraverso questo lavoro comune non solo riusciamo a comprenderci meglio ma riusciamo a comprendere meglio noi stessi e la nostra relazione con la nostra religione.

Assistiamo, anche in questi giorni, a molte violenze anticristiane in diverse parti del mondo. Che origine ha questa «cristianofobìa»?

Viene dal fanatismo. Questo è un problema molto serio e dobbiamo lavorare insieme per unirci alle persone di tutte le fedi che amano la pace e si battono per la pace e la giustizia nel mondo.

C’è stato un momento particolare della sua vita nel quale ha capito che la mutua comprensione tra le fedi non era più procrastinabile?

Nel corso di lunghi anni ho capito che la religione ha un grande potere sul bene e sul male, e che le soluzioni politiche e secolari non potranno riuscire da sole. Questo compito spetta a tutte le religioni del mondo.

Qual è il ruolo delle questioni economiche e politiche nel confronto religioso? Possiamo parlare di pace fra le religioni senza parlare, allo stesso tempo, di giustizia fra le nazioni?

No, certamente no. Ma riconosciamo pure che è la religione ad aver dato al mondo l'ideale dell'umanità, un ideale che deve essere preservato e sviluppato. Forse il miglior esempio è l'istituto dello shabbath biblico, ovvero nessuno può essere costretto a lavorare sette giorni a settimana: ognuno deve avere il controllo del proprio tempo almeno per un giorno, così che una persona possa cominciare a percepire se stessa come soggetto e non come oggetto. Se le questioni politiche ed economiche sono trattate in termini strettamente secolari, senza la cornice dell'intrinseca dignità di tutti gli esseri umani, si va verso una china estremamente scivolosa.

(©L'Osservatore Romano 28 aprile 2011)

CATECHESI DEL SANTO PADRE ALL'UDIENZA GENERALE - 27 aprile 2011


[...] Cari amici, Sì, Cristo è veramente risorto! Non possiamo tenere solo per noi la vita e la gioia che Egli ci ha donato nella sua Pasqua, ma dobbiamo donarla a quanti avviciniamo. E’ il nostro compito e la nostra missione: far risorgere nel cuore del prossimo la speranza dove c’è disperazione, la gioia dove c’è tristezza, la vita dove c’è morte. Testimoniare ogni giorno la gioia del Signore risorto significa vivere sempre in “modo pasquale” e far risuonare il lieto annuncio che Cristo non è un’idea o un ricordo del passato, ma una Persona che vive con noi, per noi e in noi, e con Lui, per e in Lui possiamo fare nuove tutte le cose (cfr Ap 21,5) [...].

BENEDETTO XVI

UDIENZA GENERALE

Piazza San Pietro
Mercoledì, 27 aprile 2011


L'ottava di Pasqua


Cari fratelli e sorelle,

in questi primi giorni del Tempo Pasquale, che si prolunga fino a Pentecoste, siamo ancora ricolmi della freschezza e della gioia nuova che le celebrazioni liturgiche hanno portato nei nostri cuori. Pertanto, oggi vorrei riflettere con voi brevemente sulla Pasqua, cuore del mistero cristiano. Tutto, infatti, prende avvio da qui: Cristo risorto dai morti è il fondamento della nostra fede. Dalla Pasqua si irradia, come da un centro luminoso, incandescente, tutta la liturgia della Chiesa, traendo da essa contenuto e significato. La celebrazione liturgica della morte e risurrezione di Cristo non è una semplice commemorazione di questo evento, ma è la sua attualizzazione nel mistero, per la vita di ogni cristiano e di ogni comunità ecclesiale, per la nostra vita. Infatti, la fede nel Cristo risorto trasforma l’esistenza, operando in noi una continua risurrezione, come scriveva san Paolo ai primi credenti: «Un tempo infatti eravate tenebra, ora siete luce nel Signore. Comportatevi perciò come figli della luce; ora il frutto della luce consiste in ogni bontà, giustizia e verità» (Ef 5, 8-9).

Come possiamo allora far diventare “vita” la Pasqua? Come può assumere una “forma” pasquale tutta la nostra esistenza interiore ed esteriore? Dobbiamo partire dalla comprensione autentica della risurrezione di Gesù: tale evento non è un semplice ritorno alla vita precedente, come lo fu per Lazzaro, per la figlia di Giairo o per il giovane di Nain, ma è qualcosa di completamente nuovo e diverso. La risurrezione di Cristo è l’approdo verso una vita non più sottomessa alla caducità del tempo, una vita immersa nell’eternità di Dio. Nella risurrezione di Gesù inizia una nuova condizione dell’essere uomini, che illumina e trasforma il nostro cammino di ogni giorno e apre un futuro qualitativamente diverso e nuovo per l’intera umanità. Per questo, san Paolo non solo lega in maniera inscindibile la risurrezione dei cristiani a quella di Gesù (cfr 1Cor 15,16.20), ma indica anche come si deve vivere il mistero pasquale nella quotidianità della nostra vita.

Nella Lettera ai Colossesi, egli dice: «Se siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù, dove è Cristo seduto alla destra di Dio, rivolgete il pensiero alle cose di lassù, non a quelle della terra» (3,1-2). A prima vista, leggendo questo testo, potrebbe sembrare che l'Apostolo intenda favorire il disprezzo delle realtà terrene, invitando cioè a dimenticarsi di questo mondo di sofferenze, di ingiustizie, di peccati, per vivere in anticipo in un paradiso celeste. Il pensiero del “cielo” sarebbe in tale caso una specie di alienazione. Ma, per cogliere il senso vero di queste affermazioni paoline, basta non separarle dal contesto. L'Apostolo precisa molto bene ciò che intende per «le cose di lassù», che il cristiano deve ricercare, e «le cose della terra», dalle quali deve guardarsi. Ecco anzitutto quali sono «le cose della terra» che bisogna evitare: «Fate morire – scrive san Paolo – ciò che appartiene alla terra: impurità, immoralità, passioni, desideri cattivi e quella cupidigia che è idolatria» (3,5-6). Far morire in noi il desiderio insaziabile di beni materiali, l’egoismo, radice di ogni peccato. Dunque, quando l'Apostolo invita i cristiani a distaccarsi con decisione dalle «cose della terra», vuole chiaramente far capire ciò che appartiene all’«uomo vecchio» di cui il cristiano deve spogliarsi, per rivestirsi di Cristo.

Come è stato chiaro nel dire quali sono le cose verso le quali non bisogna fissare il proprio cuore, con altrettanta chiarezza san Paolo ci indica quali sono le «cose di lassù», che il cristiano deve invece cercare e gustare. Esse riguardano ciò che appartiene all’«uomo nuovo», che si è rivestito di Cristo una volta per tutte nel Battesimo, ma che ha sempre bisogno di rinnovarsi «ad immagine di Colui che lo ha creato» (Col 3,10). Ecco come l’Apostolo delle Genti descrive queste «cose di lassù»: «Scelti da Dio, santi e amati, rivestitevi dunque di sentimenti di tenerezza, di bontà, di umiltà, di mansuetudine, di magnanimità, sopportandovi a vicenda e perdonandovi gli uni gli altri (...). Ma sopra tutte queste cose rivestitevi della carità, che le unisce in modo perfetto» (Col 3,12-14). San Paolo è dunque ben lontano dall'invitare i cristiani, ciascuno di noi, ad evadere dal mondo nel quale Dio ci ha posti. E’ vero che noi siamo cittadini di un'altra «città», dove si trova la nostra vera patria, ma il cammino verso questa meta dobbiamo percorrerlo quotidianamente su questa terra. Partecipando fin d'ora alla vita del Cristo risorto dobbiamo vivere da uomini nuovi in questo mondo, nel cuore della città terrena.

E questa è la via non solo per trasformare noi stessi, ma per trasformare il mondo, per dare alla città terrena un volto nuovo che favorisca lo sviluppo dell'uomo e della società secondo la logica della solidarietà, della bontà, nel profondo rispetto della dignità propria di ciascuno. L’Apostolo ci ricorda quali sono le virtù che devono accompagnare la vita cristiana; al vertice c'è la carità, alla quale tutte le altre sono correlate come alla fonte e alla matrice. Essa riassume e compendia «le cose del cielo»: la carità che, con la fede e la speranza, rappresenta la grande regola di vita del cristiano e ne definisce la natura profonda.

La Pasqua, quindi, porta la novità di un passaggio profondo e totale da una vita soggetta alla schiavitù del peccato ad una vita di libertà, animata dall’amore, forza che abbatte ogni barriera e costruisce una nuova armonia nel proprio cuore e nel rapporto con gli altri e con le cose. Ogni cristiano, così come ogni comunità, se vive l’esperienza di questo passaggio di risurrezione, non può non essere fermento nuovo nel mondo, donandosi senza riserve per le cause più urgenti e più giuste, come dimostrano le testimonianze dei Santi in ogni epoca e in ogni luogo. Sono tante anche le attese del nostro tempo: noi cristiani, credendo fermamente che la risurrezione di Cristo ha rinnovato l’uomo senza toglierlo dal mondo in cui costruisce la sua storia, dobbiamo essere i testimoni luminosi di questa vita nuova che la Pasqua ha portato. La Pasqua è dunque dono da accogliere sempre più profondamente nella fede, per poter operare in ogni situazione, con la grazia di Cristo, secondo la logica di Dio, la logica dell’amore. La luce della risurrezione di Cristo deve penetrare questo nostro mondo, deve giungere come messaggio di verità e di vita a tutti gli uomini attraverso la nostra testimonianza quotidiana.

Cari amici, Sì, Cristo è veramente risorto! Non possiamo tenere solo per noi la vita e la gioia che Egli ci ha donato nella sua Pasqua, ma dobbiamo donarla a quanti avviciniamo. E’ il nostro compito e la nostra missione: far risorgere nel cuore del prossimo la speranza dove c’è disperazione, la gioia dove c’è tristezza, la vita dove c’è morte. Testimoniare ogni giorno la gioia del Signore risorto significa vivere sempre in “modo pasquale” e far risuonare il lieto annuncio che Cristo non è un’idea o un ricordo del passato, ma una Persona che vive con noi, per noi e in noi, e con Lui, per e in Lui possiamo fare nuove tutte le cose (cfr Ap 21,5).


Saluti:

Je salue avec joie les pèlerins francophones, particulièrement les séminaristes de Saint-Étienne, accompagnés de Mgr Dominique Lebrun ! Puissiez-vous être le ferment nouveau de notre monde, en apportant à tous les hommes la lumière de la Résurrection du Christ, qui est un message de vérité et de vie ! Bonne fête de Pâques à tous!


I welcome the newly-ordained deacons of the Pontifical Irish College, together with their families and friends. Dear young deacons: in fulfilling the ministry you have received, may you proclaim the Gospel above all by the holiness of your lives and your joyful service to God’s People in your native land. Upon all the English-speaking pilgrims present at today’s Audience, especially those from Sweden, Australia, the Philippines, Thailand and the United States, I invoke an abundance of joy and peace in the Risen Lord. Happy Easter!

Von Herzen heiße ich alle deutschsprachigen Pilger und Besucher willkommen, heute besonders die Mitglieder und Gäste der Studentenverbindung Capitolina, die heuer ihr 25. Stiftungsfest feiert. Die beglückende Erfahrung, die uns der auferstandene Herr an Ostern geschenkt hat, können wir nicht für uns selbst behalten. Wir müssen sie als Hoffnung weitergeben, wo Hoffnungslosigkeit ist, als Freude, wo Traurigkeit herrscht, als Leben, wo Tod ist. Dazu schenke uns der Herr seine Gnade. – Euch allen wünsche ich eine gesegnete und frohe Osterzeit.

Saludo cordialmente a los peregrinos de lengua española, en particular a los sacerdotes y alumnos del Seminario Conciliar de Barcelona, así como a los grupos provenientes de España, Guinea Ecuatorial, Perú, México, Argentina y otros países Latinoamericanos. Les animo a que con el testimonio cotidiano de vida irradien la luz de la resurrección de Cristo, que penetra el mundo, y se hace mensaje de verdad y amor para todos los hombres. Muchas gracias.

Queridos peregrinos de língua portuguesa, particularmente os portugueses vindos de Lisboa e da Sertã e os brasileiros de Poços de Caldas, a minha saudação, com votos duma boa continuação de santa Páscoa! Não podemos guardar só para nós a vida e a alegria que Cristo nos deu com a sua Ressurreição, mas devemos transmiti-la a quantos se aproximam de nós. Assim, fareis surgir no coração dos outros a esperança, a felicidade e a vida! Sobre vós e vossas famílias, desça a minha Bênção Apostólica.

Saluto in lingua polacca:

Słowa serdecznego pozdrowienia kieruję do Polaków. Moi drodzy, bardzo dziękuję Wam za wszelkie wyrazy życzliwości, za nadsyłane życzenia na święta Wielkiej Nocy i z innych moich osobistych okazji, a szczególnie za dar modlitwy w mojej intencji. Z swej strony nieustannie zawierzam każdą i każdego z Was Bożej dobroci, wypraszam obfitość łask, i z serca wam błogosławię. Niech będzie pochwalony Jezus Chrystus.

Traduzione italiana:

Rivolgo un cordiale saluto ai polacchi. Miei cari, Vi ringrazio tanto per tutti i segni di benevolenza, per gli auguri inviati in occasione della Pasqua e per le altre mie ricorrenze personali, e soprattutto per il dono della preghiera secondo le mie intenzioni. Da parte mia ininterrottamente affido ognuna e ognuno di Voi alla bontà di Dio, chiedendo un’abbondanza di grazie e vi benedico di cuore. Sia lodato Gesù Cristo!

Saluto in lingua croata:

S uskrsnom radošću od srca pozdravljam i blagoslivljam sve hrvatske hodočasnike.
Na uskrsno jutro učenici su, potaknuti viješću o Gospodinovom uskrsnuću, potrčali na grob i uvjerili se da je prazan. Dragi prijatelji, i vi koračajte ovim svijetom i svjedočite: Krist je živ, aleluja! Hvaljen Isus i Marija!

Traduzione italiana:

Nel clima della gioia pasquale di cuore saluto e benedico tutti i pellegrini Croati. Nella mattina di Pasqua i discepoli, spinti dalla notizia della Risurrezione del Signore, sono corsi alla tomba e si sono resi conto che era vuota. Cari amici, anche voi camminate in questo mondo e testimoniate che Cristo è vivo, alleluia! Siano lodati Gesù e Maria!

Saluto in lingua lituana:

Su meile kreipiuosi į maldininkus iš Lietuvos. Brangūs bičiuliai, Prisikėlęs Kristus tepripildo jūsų širdis savo meilės ir džiaugsmo. Jums, čia esantiems, ir visai lietuvių tautai suteikiu Apaštališkąjį Palaiminimą. Garbė Jėzui Kristui!

Traduzione italiana:

Con affetto mi rivolgo ai pellegrini giunti dalla Lituania. Cari amici, Cristo Risorto riempia i vostri cuori del suo amore e della sua gioia! A voi qui presenti e all’intero popolo lituano imparto la Benedizione Apostolica. Sia lodato Gesù Cristo!

Saluto in lingua slovena:

Lepo pozdravljam romarje iz Slovenije, še posebej iz Trzina in iz Dola pri Ljubljani!
Veselje ob Jezusovi zmagi nad peklom je naša moč! Veselite se v Gospodu, da boste z Njim zmagovali nad grehom in tako postajali vedno bolj deležni Njegovega življenja. Naj bo z vami moj blagoslov!

Traduzione italiana:

Rivolgo un caro saluto ai pellegrini provenienti dalla Slovenia, in particolare da Trzin e da Dol pri Ljubljani! La gioia della vittoria di Gesù sugli inferi è la nostra forza! Rallegratevi nel Signore, affinché possiate con Lui vincere il peccato e così diventare sempre più partecipi della Sua vita. Vi accompagni la mia benedizione!

Saluto in lingua ceca:

Srdečně zdravím poutníky z České republiky!
Drazí přátelé, kéž vám daruje Pán pravou radost a stále vás provází svými dary. S tímto přáním vám ze srdce žehnám.
Chvála Kristu!

Traduzione italiana:

Saluto i pellegrini della Repubblica ceca.
Cari amici, il Signore infonda in voi la vera gioia della Risurrezione e vi accompagni sempre con i suoi doni. Con questi voti vi benedico di cuore!
Sia lodato Gesù Cristo!

Saluto in lingua ungherese:

Isten hozta a magyar zarándokokat! Szeretettel köszöntelek Benneteket!
Krisztus, aki a szent asszonyoknak és az apostoloknak kinyilvánította a feltámadás örömét, tegyen benneteket is a halálon aratott győzelmének hirdetőivé! Apostoli áldásom legyen veletek mindenkor.
Dicsértessék a Jézus Krisztus!

Traduzione italiana:

Un cordiale saluto ai pellegrini di lingua ungherese. Cristo, che ha rivelato alle pie donne ed ai suoi apostoli la gioia della risurrezione, vi renda arditi annunciatori della sua vittoria sulla morte!
La benedizione apostolica vi accompagna sulle vostre vie.
Sia lodato Gesù Cristo!

Saluto in lingua slovacca:

S láskou vítam slovenských pútnikov z Farnosti Narodenia Panny Márie v Novej Bani.
Bratia a sestry, vaša návšteva Ríma počas Veľkonočnej oktávy nech je pre každého z vás príležitosťou na pravú duchovnú obnovu. Oslávený Pán nech vás sprevádza svojim pokojom. Rád vás žehnám.
Pochválený buď Ježiš Kristus!

Traduzione italiana:

Con affetto do un benvenuto ai pellegrini slovacchi provenienti dalla Parrocchia della Natività della Vergine Maria di Nová Baňa.
Fratelli e sorelle, la vostra visita a Roma nell’Ottava di Pasqua sia per ognuno di voi occasione di autentico rinnovamento spirituale. Il Signore Risorto vi accompagni con la sua pace. Volentieri vi benedico.
Sia lodato Gesù Cristo!

* * *

Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. In particolare saluto i Diaconi della Compagnia di Gesù, invocando sul loro itinerario formativo e apostolico l'abbondanza dei doni dello Spirito Santo. Saluto i fedeli di Lampedusa, accompagnati dal loro Pastore Mons. Francesco Montenegro, e li incoraggio a continuare nel loro apprezzato impegno di solidarietà verso i fratelli migranti, che trovano nella loro isola un primo asilo di accoglienza; in pari tempo auspico che gli organi competenti proseguano l’indispensabile azione di tutela dell’ordine sociale nell’interesse di ogni cittadino. Saluto i rappresentanti dell’Associazione Nazionale Vittime dell’Amianto e dell’Osservatorio Nazionale Amianto e li esorto a proseguire la loro importante attività a difesa dell’ambiente e della salute pubblica.

Il mio pensiero va infine ai malati, agli sposi novelli e ai giovani, specialmente ai numerosi adolescenti, provenienti dall'Arcidiocesi di Milano. Grazie per il vostro entusiasmo. Sento la gioia di Pasqua. Grazie. Cari giovani amici, anche a voi, come ai primi discepoli, Cristo risorto ripete: "Come il Padre ha mandato me, anch'io mando voi ... Ricevete lo Spirito Santo" (Gv 20, 21-22). Rispondetegli con gioia e con amore, grati per l'immenso dono della fede, e sarete ovunque autentici testimoni della sua gioia e della sua pace. Per voi, cari malati, la risurrezione di Cristo sia fonte inesauribile di conforto, di consolazione e di speranza. E voi, cari sposi novelli, rendete operante la presenza del Risorto nella vostra famiglia con la quotidiana preghiera, che alimenti il vostro amore coniugale.

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