giovedì 30 giugno 2011

A colloquio con Emmanuele Morandi, presidente dell’Istituto di studi tomistici di Modena. "Il pensiero soffoca senza silenzio"



A colloquio con Emmanuele Morandi, presidente dell’Istituto di studi tomistici di Modena

Il pensiero soffoca
senza silenzio


di Silvia Guidi

Un istituto pensato per far conoscere l’opera di Tommaso d’Aquino, ma soprattutto per far dialogare professionisti del pensiero e dilettanti della filosofia (nel senso etimologico del termine: delectantes, persone che si dilettano nel praticare l’amore alla verità), professori dai lunghi curricula e giovani lavoratori, pensionati e studenti ricchi solo della loro curiosità. Un programma un po’ troppo ambizioso per essere realista, potrebbe sembrare a un primo sguardo. Ma la quadratura del cerchio esiste: si chiama Istituto filosofico di studi tomistici ed è nato a Modena nel 1988 per iniziativa di un gruppo di studiosi e ricercatori.

Il nome — ci tengono a precisare i fondatori — può far pensare a una realtà di nicchia, ma è vero il contrario: l’Istituto è prima di ogni cosa un progetto culturale. L’ispirazione della metafisica tomista è stata, ed è, il propulsore centrale delle attività svolte, ma su questo intento originario si sono via via innestate nuove discipline, tentando di aprire un sentiero di dialogo fra il pensiero metafisico e i temi più vivi del pensiero contemporaneo. «Accanto alle normali attività di ricerca — spiega a “L’Osservatore Romano” il presidente Emmanuele Morandi — l’Istituto conduce anche una Scuola di studi filosofici e, per aprire la filosofia a un pubblico più ampio, organizza ogni anno il ciclo di incontri Filosofica-mente».

Come è nato l’Istituto?

Eravamo quattro giovani studenti di filosofia dell’università di Bologna. Iniziammo a incontrarci regolarmente, ogni settimana, e ognuno di noi preparava un tema tratto dalle opere di Tommaso, spesso anche da importanti autori tomisti contemporanei (ricordo i seminari su Maritain, Gilson e molti altri). Presto però maturò la convinzione che non fosse possibile vivere questo profondo magistero in termini semplicemente personalistici. La filosofia, e in generale i saperi umanistici, hanno una vocazione pubblica e non possono crescere e vivere senza comunicarsi. Del resto la verità è sempre anche bellezza, e la bellezza accende il desiderio; insomma il bene, cioè le cose buone e desiderabili, tendono a diffondersi, a donarsi. Fu così che nacque la consapevolezza della necessità dell’impegno pubblico e si delineò la struttura organizzativa dell’Istituto. Da una parte la ricerca che ruota intorno alle attività seminariali ed editoriali, e dall’altra l’attività pubblica, che ruota intorno a convegni, conferenze e corsi di formazione. La ricerca, nel corso degli anni, si è fortemente strutturata nelle attività editoriali. L’Istituto infatti dirige tre collane per l’Editore Marietti; i «Kaladri», i «piccoli Kaladri» e «Tolkien e dintorni». Vi è poi la rivista. Oltre dieci anni fa promuovemmo la rivista «Contratto: rivista di filosofia tomista e di filosofia contemporanea», poi, dopo un lungo periodo di silenzio, siamo ripartiti con la nuova serie, che riprenderà tra pochi mesi, dal nome «Realitas: rivista internazionale di filosofia, teoria sociale e scienze umane».

Come ha scoperto l’amore per la filosofia e per Tommaso in particolare?

La filosofia è stata una scoperta che mi ha coinvolto fin da subito, dalle prime volte che ne ho sentito parlare. Frequentavo addirittura le medie inferiori. Una sorta di infatuazione che ti colpisce profondamente e che, in qualche modo, senti che sarà una delle tue dimensioni fondamentali. Poiché l’incontro con la filosofia avviene normalmente attraverso insegnanti, docenti, subito impari a definirla come una materia, una disciplina. Ma se vuoi che questa passione, questo amore, cresca e diventi sempre più consapevole è necessario superare questo geometrico «incasellamento». Diventa fondamentale scoprire l’esperienza che istituisce questo «amore del sapere» e l’esperienza che istituisce la ricerca filosofica non è la professionalità attraverso la quale la insegni, ma è riportare ogni cosa, dalle più semplici alle più complesse, alle radici ultime, ai significati fondamentali della vita dell’uomo. Devi sperimentare che le «cose ultime», cioè quelle che contengono le domande fondamentali sulla nostra esistenza e su quella del mondo, sul Divino e sulla vita sociale, sono il tessuto del nostro essere uomini, sono più importanti del pane quotidiano, sono la nostra essenza, la nostra storia e il suo futuro. Tommaso, nonostante i secoli che ci separano dal suo linguaggio, dalla sua cultura e dal suo orizzonte di pensiero, è uno straordinario maestro, proprio perché sa coniugare la profondità con la superficie, la mitezza con la passione e il pensiero con la concretezza della realtà.

A quali maestri è più grato, e di quali si sente più debitore?

Sono tanti, tantissimi. Quello però a cui devo una riconoscenza particolare è Cornelio Fabro. Attraverso Tommaso e Kierkegaard Fabro ha riproposto una metafisica che, anziché arenarsi nel razionalismo metafisico, si nutre alle sorgenti delle più vitali scoperte dell’esistenzialismo.

Quali sono secondo lei le attività che rispondono meglio al profondo bisogno di cultura della nostra epoca?

Il bisogno di cultura esiste, ma ha due terribili nemici da affondare per essere veramente interiorizzato e appagato. Bisogna come prima cosa prendere atto che il proprio rapporto con la cultura, piccolo o grande che sia, non può essere coltivato all’interno di stili di vita frenetici, dove lavoro e consumo erodono le nostre vite giorno dopo giorno. Bisogna fermarsi, bisogna recuperare la «necessità» dell’otium per difendere e portare avanti una civiltà. C’è bisogno, allo stesso tempo, di silenzio e di comunità per innalzare la cosiddetta qualità della vita. L’accelerazione del tempo è una delle più terribili minacce; essa impedisce ai saperi di diventare beni comuni. L’altro grande nemico è la spettacolarizzazione della cultura. Non sono tanto importanti gli eventi culturali, quelli che spesso richiamano l’attenzione di molti, se non viene costruito un percorso che trasforma un semplice spettacolo in un ambiente in cui i significati forti diventano beni vissuti e amati.

«Sono una zotica tomista», era solita dire Flannery O’Connor; in quali altri artisti vede l’impronta creativa del pensiero dell’Aquinate?

Nelle prossime settimane uscirà nella collana Marietti che dirigiamo un libro di Gilson, mai tradotto in italiano, Pittura e Realtà. È un’acuta riflessione del grande tomista sulla pittura e sull’arte alla luce delle scoperte di Tommaso. La Bellezza è una delle più straordinarie rivelazioni della Trascendenza e l’uomo partecipa a questa rivelazione non solo intellettualmente ma proprio attraverso l’agire artistico. La Bellezza non è una «prodotto» dell’uomo, ma l’uomo vi partecipa attraverso quella peculiare forma d’azione che è l’arte. Se ci avviciniamo al mondo dell’arte nelle sue grandi espressioni, oggi come ieri, troveremmo la riflessione di Tommaso incarnata nella coscienza di tanti artisti, anche se non conoscono la riflessione dell’Aquinate. Nella tradizione di studi tomistici vi è stato, intorno alla metà degli anni Sessanta, un vivace dibattito sulla bellezza, o meglio, sul “bello”. Tale dibattito ha cercato di capire se il pulchrum fosse un trascendentale (in senso tomistico). Detto in termini più semplici: la bellezza è una proprietà che hanno solo alcuni «manufatti», o è una proprietà di tutto ciò che è ed esiste? La questione è molto interessante perché indica l’esistenza di un misterioso legame tra l’essere e la bellezza. In questo senso, oserei dire che tutta l’arte quando non si perde dietro a se stessa — a volte vanitosamente, altre volte stupidamente — ma cresce nella consapevolezza che il suo oggetto è la bellezza, è improntata al pensiero dell’Aquinate; o se si vuole, l’Aquinate coglie l’anima profonda dell’arte e dell’artista proprio riconoscendo la sua naturale e indefessa inclinazione (pratica) alla con-creazione della bellezza.

Quale aspetto della filosofia di Tommaso, secondo lei, un europeo contemporaneo dovrebbe assolutamente conoscere?

Sarei tentato di risponderle: tutto Tommaso. Ma mi rendo conto della stupidità di questa risposta. L’opera di Tommaso non esprime semplicemente se stessa, ma un’intera civiltà. Penso che l’uomo europeo abbia la necessità di recuperare con grande passione le proprie radici culturali, perché chi non ha un rapporto alle radici non può avere futuro. È attraverso le radici che ci si nutre. Si parla molto di futuro, ma l’ignoto futuro non è costruibile senza la forza e l’eredità di ciò che ci ha preceduto. La capacità di dialogare che Tommaso e la sua opera hanno incessantemente promosso nei confronti della cultura greca, islamica e di quella ebraica ci dice che l’uomo europeo medievale aveva in sé il grande respiro della libertà. Amava il confronto con la grandezza delle altre culture, senza per questo negare la propria identità. La capacità di «assumere» intellettualmente ed eticamente tutto ciò che è l’esito della ricerca della verità è la grande lezione che l’europeo contemporaneo dovrebbe recuperare alla scuola di Tommaso; non a caso non c’è mai stata una sola attività promossa dal nostro Istituto che non si preoccupasse di avere un contraddittorio.

(©L'Osservatore Romano 22 giugno 2011)