lunedì 6 dicembre 2010

Nel volume "Teologia della liturgia" di Joseph Ratzinger


Nel volume "Teologia della liturgia" di Joseph Ratzinger

L'arte cristiana e la nuova esperienza del tempo

Nel pomeriggio di martedì 7 dicembre, al Palazzo Ducale di Genova, verrà presentato l'undicesimo volume dell'Opera omnia di Joseph Ratzinger Teologia della liturgia. La fondazione sacramentale dell'esistenza cristiana (Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2010, pagine 849, euro 55). All'incontro, introdotto e moderato dal nostro direttore, interverranno il cardinale Angelo Bagnasco, arcivescovo di Genova, Sandra Isetta - della sua relazione anticipiamo alcuni stralci - e Lucetta Scaraffia.

di Sandra Isetta

Il Papa analizza in questo volume uno dei temi più spinosi: l'autodeterminazione del culto, l'uomo che non può "fare" da sé il culto. La liturgia è "fatta" per Dio e non per noi stessi. Quanto più però noi la facciamo per noi stessi, tanto meno essa è attraente. "Umiltà e obbedienza non sono virtù servili, che rendono gli uomini repressi, ma contrastano superbia e presunzione che disgregano ogni comunità e portano alla violenza", come il conformismo dell'oggi confina l'uomo nella superficialità. Il giovenco d'oro testimonia questa arbitrarietà del culto: con l'idolo si vuole non allontanarsi da Dio, ma glorificare quel Dio che ha portato Israele fuori dall'Egitto. Eppure c'è defezione da Dio: non si crede nella sua immagine invisibile, il culto non è un salire verso di Lui, ma un tirarlo giù, nella dimensione umana. Questo è il gioco vuoto della liturgia, un tradimento di Dio, camuffato sotto un manto di sacralità. Grazie alla linearità di ragionamento e linguaggio, divengono accessibili complicati concetti teologici. Ad esempio, l'opposizione tra culto orientato cosmicamente, tipico delle religioni naturali, che porta a una sorta di religione "di scambio" tra la divinità e gli uomini, e culto rivelato nella storia, nel giudaismo, nel cristianesimo e nell'Islam.

Ratzinger sfuma questa netta contrapposizione tra orientamento cosmico e storico del culto, tramite l'interpretazione del racconto della creazione, che va verso il sabato. Il sabato è il giorno in cui l'uomo e l'intera creazione partecipano del riposo di Dio, della sua libertà, dove schiavo e padrone sono uguali, quando tutti i rapporti di subordinazione sono sospesi e la fatica del lavoro si interrompe.

Il sabato è il segno dell'Alleanza che Dio vuole stringere con l'uomo e il creato è il luogo dell'incontro, dell'adorazione.

Questi fondamenti veterotestamentari sono ripresi nella terza parte del volume, "La celebrazione dell'Eucaristia", ben 300 pagine in 11 sezioni. Essa inizia con il significato della domenica cristiana, che subentra al sabato giudaico. Esegesi e teologia si compenetrano nella spiegazione del terzo giorno, il giorno della teofania. Nell'Antico Testamento nel terzo giorno si stipula l'Alleanza sul Sinai, nel Nuovo Testamento il terzo giorno dopo la morte Gesù risorge. Per i primi cristiani, la domenica è il "giorno del Signore", o il "primo" dei sette della creazione, il giorno della creazione della luce, o l'"ottavo giorno", che spalanca la finestra dell'eternità dopo il sabato.

Il culto cristiano, per le sue radici bibliche, non è dunque imitazione del cosmo ma di Dio stesso che si rivela.

Finalità del culto e finalità del creato sono identiche, perché nella stessa dimensione cosmica appare anche quella storica. La creazione stabilisce un dialogo d'amore, per giungere al ritorno a casa, l'idea cristiana del "Dio tutto in tutti". È impossibile un'ascesa, un ritorno, contando solo sulle proprie forze, occorre il sacrificio, l'essenza del culto, che è altro rispetto all'autonomia totale, al non aver bisogno dell'altro.
Ratzinger apre un'ampia parentesi sul significato dell'arte, che inizia con rimandi storico-archeologici. Il giudaismo contemporaneo a Gesù rappresentava immagini del mistero della salvezza, tratte da episodi messianici dell'Antico Testamento. In seguito, mentre giudaismo e islam hanno risposto con rigore alla lotta iconoclasta, consentendo raffigurazioni solamente astratte e geometriche, il cristianesimo ha perseverato nei racconti (haggadà) figurativi delle gesta compiute da Dio. Ed è vero, come afferma Ratzinger, che nell'arte cristiana delle catacombe è preservata la continuità tra Sinagoga e Chiesa, nel rendere presenti, e quindi celebrare, eventi passati, attraverso la memoria che diventa figura.

Eventi dell'Antico Testamento sono accostati e quindi spiegati alla luce di episodi del Nuovo: l'arca di Noè e il passaggio del Mar Rosso sono figure del battesimo, come il sacrificio di Isacco e il convito di Abramo con i tre angeli raccontano il sacrificio di Cristo e l'Eucaristia. L'arte cristiana raffigura una "nuova esperienza del tempo", in cui "passato, presente e futuro si toccano", nella "concentrazione cristologica della storia": è il medesimo concetto del "presente liturgico" che porta sempre in sé la "speranza escatologica".

Le prime immagini sono dunque "allegoriche", come il Buon Pastore che riassume l'intera storia della salvezza: portare a casa anche l'ultima pecorella smarrita. Più avanti, ne spiega la ricaduta liturgica nell'Agnus Dei, il Pastore fatto Agnello che porta le nostre colpe sulle spalle, come ricorda il battersi il petto.

A partire dal VI secolo, quando apparvero le misteriose immagini acherótipe, cioè non dipinte da alcuna mano - ricordiamo il mandylion - l'Oriente cristiano elabora una vera e propria teologia dell'icona. L'icona di Cristo è sempre icona del Risorto, in cui i tratti del volto non contano, ma veicolano lo sguardo al di là del sensibile, come accadde ai discepoli di Emmaus che dovettero vedere con altri occhi per riconoscere il Maestro, nella stessa luce della trasfigurazione del monte Tabor. La vastità trinitaria e ontologica dell'icona del Figlio consente di vedere l'immagine del Padre.

Matthias Grünewald - Crocifissione 1523-24

Ratzinger percorre le tappe più significative dell'arte figurativa cristiana, a partire dallo scopo funzionale pedagogico di quella occidentale rispetto a all'orientale, da Agostino e Gregorio Magno e fino al romanico. Con il gotico l'occidente sostituisce il Pantokràtor, il Signore dell'universo nella pienezza dell'ottavo giorno, con il crocifisso nella sua passione e morte. Ne indica le motivazioni filosofiche nella svolta dal platonismo all'aristotelismo, con conseguenze sull'arte e la liturgia che prepongono la storicità alla bellezza dell'invisibile. Cita Matthias Grünewald e il realismo della sofferenza, ne spiega la funzione consolatoria per i malati di peste, per la pietà popolare. Del Rinascimento sottolinea l'estetica, perché "emancipa" l'uomo, la sua autonomia e bellezza, quasi in "una nostalgia degli dèi, del mito" che cancella il peccato e la sofferenza della croce e può anche spiegare la reazione della Riforma cattolica. Definisce il barocco "un inno fortissimo di gioia, un alleluia divenuto immagine".

Giunge al positivismo, formulato in nome della serietà scientifica che però "ha ristretto l'orizzonte al dimostrabile, togliendo al mondo la sua trasparenza e all'uomo la visione dell'invisibile". Si interroga infine sul "nostro mondo delle immagini" che segna forse "la fine dell'immagine". Sempre dalle prime raffigurazioni delle catacombe trae spunto per spiegare le posizioni della liturgia: stare insieme e stare seduti. L'orante è sempre una figura femminile "perché lo specifico umano davanti a Dio trova espressione nella figura della donna" che rappresenta non la Chiesa ma "l'anima-sposa che sta in adorazione davanti al volto di Dio".

Le mani sono allargate, gesto di non violenza, come ali con cui si vuole salire o simili alle braccia di Cristo sulla croce, che è anche forma della pianta delle chiese. Lo stare in piedi dell'orante è la "posizione del vincitore, della disponibilità a scattare, a camminare verso il futuro". L'inginocchiarsi esprime il nostro "adesso", il "frattempo", mentre lo stare seduti, introdotto in tempi più recenti, serve al raccoglimento, per facilitare l'ascolto e la comprensione con il corpo rilassato.

Il gesto delle mani giunte è espressione di fiducia e fedeltà. Anche nell'inchinarsi si mescolano gesto del corpo e gesto spirituale, espressione corporea dell'umiltà, "gesto servile per i Greci" e atteggiamento fondamentale cristiano, su cui Agostino costruisce la sua teologia cristologica: l'hybris, la superbia, contrapposta all'humilitas, poiché Dio stesso si è inchinato nella lavanda dei piedi, "in ginocchio davanti ai nostri piedi, è lì che lo troviamo".

Ratzinger fa seguire una splendida definizione di "corpo" nel linguaggio biblico, che indica l'intera persona in cui corpo e spirito sono inscindibilmente una cosa sola. "Questo è il mio corpo" significa dunque: questa è l'intera mia persona che vive nel corpo; è insieme confine e comunione. Cita le parole di Albert Camus sulla "situazione tragica degli uomini nei loro rapporti reciproci: è come quando due persone sono separate l'una dall'altra dalla parete di vetro di una cabina telefonica: Si vedono, sono molto vicine, ma c'è lì quella parete che le rende irraggiungibili l'una all'altra".


Diverse pagine dedica al Corpus Domini, dense di concetti teologici ma anche del ricordo personale dello splendore della processione nella sua terra natale, la Baviera. Portare il Signore stesso, il Creatore, attraverso città e villaggi, su prati e su laghi, spiega che con la liturgia "si tratta di ciò che il cielo e la terra racchiudono, dell'umanità e di tutta la creazione", nel comune ricordo. "Una sorta di reazione alla smemoratezza nel "nostro rapporto col tempo" nell'epoca del computer, delle riunioni e delle agende, usate ormai perfino da scolaretti, divenuti spaventosamente spensierati e smemorati. Il nostro rapporto col tempo è dimenticare. Noi viviamo nell'istante. Vogliamo addirittura dimenticare, perché rinneghiamo la vecchiaia e la morte.

L'unico modo di far veramente fronte al tempo è il perdono e la gratitudine, un atteggiamento che riceve il tempo come dono e, nella gratitudine, lo lascia trasformare".

Discute sulla "nobile semplicità" dei riti, quella "semplicità estrema" che corrisponde alla "semplicità del Dio infinito e rinvia ad essa". Essa va però "percepita con occhio e cuore", nella grande semplicità di una piccola chiesa di paese o con grande solennità nella bellezza di una cattedrale. Condizione è che "grandiosità e fastosità non siano autonome, ma servano umilmente a sottolineare la vera festa", il compleanno della vita nel suo assenso a Dio.

Conclude con una riflessione di Friedrich Nietzsche: "La festa comporta orgoglio, spavalderia, sfrenatezza (...) un divino dire di sì a se stessi sulla spinta di un'animalesca pienezza ed integralità" tutti stati ai quali un cristiano non può onestamente assentire; la festa sarebbe paganesimo per eccellenza. È vero il contrario: soltanto quando c'è una legittimazione divina a rallegrarsi - solo quando Dio stesso garantisce che la mia vita e il mondo sono motivo di gioia - può esserci una vera festa.

(©L'Osservatore Romano - 6-7 dicembre 2010)