venerdì 14 ottobre 2011

Alle radici del Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione "Un frutto del Vaticano II" (Rino Fisichella)


Un frutto del Vaticano II


Anticipiamo stralci dal primo capitolo del libro La nuova evangelizzazione. Una sfida per uscire dall’indifferenza (Milano, Mondadori 2011, pagine 146, euro 18) che si apre con il ricordo dell’udienza privata concessa il 29 marzo 2010 da Benedetto XVI all’autore.


di Rino Fisichella

Mai avrei pensato, sedendomi davanti a un Benedetto XVI sorridente e quasi compiaciuto, che egli mi dicesse testualmente: «Ho pensato molto in questi mesi. Desidero istituire un dicastero per la nuova evangelizzazione e le chiedo di esserne il presidente. Le farò avere dei miei appunti. Cosa ne pensa?». Ero molto sorpreso, riuscii solo a dire: «Santo Padre, è una grande sfida».

L’istituzione del Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione ha radici in un retroterra importante da cui esso è sostenuto e che gli consente di trovare un solido fondamento e orientamento per il suo impegno futuro. Sono convinto che questo dicastero rappresenti uno dei frutti più maturi del Vaticano II. A cinquant’anni ormai dall’apertura di quel concilio è necessario ritornare alle parole di Giovanni XXIII per verificare le finalità del Vaticano II. Nel suo discorso programmatico, Gaudet Mater Ecclesia, più volte compare il riferimento alla capacità di guardare al contemporaneo nel suo mutato rapporto con Dio, per ritrovare le forme adeguate in grado di fargli intendere il Vangelo.

L’espressione teologicamente più forte, probabilmente, è anche quella più conosciuta: «Occorre che la stessa dottrina sia esaminata più largamente e più a fondo e gli animi ne siano più pienamente imbevuti e informati, come auspicano ardentemente tutti i sinceri fautori della verità cristiana, cattolica, apostolica; occorre che questa dottrina certa ed immutabile, alla quale si deve prestare un assenso fedele, sia approfondita ed esposta secondo quanto è richiesto dai nostri tempi. Altro è infatti il deposito della Fede, cioè le verità che sono contenute nella nostra veneranda dottrina, altro è il modo con il quale esse sono annunziate, sempre però nello stesso senso e nella stessa accezione». Diverse volte, nello stesso discorso, il Papa fece riferimento a concetti che sono rapportabili al tema della nuova evangelizzazione. Egli parlò di «vigore di nuove energie», «un nuovo ordine di cose», «guardare al presente, che ha comportato nuove situazioni e nuovi modi di vivere, ed ha aperto nuove vie all’apostolato cattolico», «noi non dobbiamo soltanto custodire questo prezioso tesoro, come se ci preoccupassimo della sola antichità, ma alacri, senza timore, dobbiamo continuare nell’opera che la nostra epoca esige, proseguendo il cammino che la Chiesa ha percorso per quasi venti secoli». Tutte queste espressioni sono indice di una lungimiranza che vedeva un nuovo modo di annunciare il Vangelo di sempre.

Si potrà discutere molto su cosa il Vaticano II abbia rappresentato nella storia della Chiesa recente; da qualsiasi parte lo si osservi, comunque, esso continua a perseguire lo scopo di voler rimettere la Chiesa sulla carreggiata principale dell’evangelizzazione del mondo contemporaneo. Sia la Lumen gentium, sia la Gaudium et spes, per far riferimento alle due costituzioni più ecclesiologiche, ma anche la Sacrosanctum concilium e la Dei Verbum, non fanno altro che esprimere la stessa idea di fondo con la problematica sottesa, vale a dire come esercitare la missione principale e prioritaria dell’annuncio del Vangelo in modo rinnovato ed efficace.

Circa dieci anni più tardi, Paolo VI convocava il sinodo dei vescovi sul tema dell’evangelizzazione e la sua Esortazione apostolica Evangelii nuntiandi (1975) conserva intatta la propria attualità. Il Papa faceva eco alle parole di Giovanni XXIII e le confermava: «In questo decimo anniversario della chiusura del concilio Vaticano II, i cui obiettivi si riassumono, in definitiva, in uno solo: rendere la Chiesa del XX secolo sempre più idonea ad annunziare il Vangelo all’umanità del XX secolo... è assolutamente necessario metterci di fronte ad un patrimonio di fede che la Chiesa ha il dovere di preservare nella sua purezza intangibile, ma anche di presentare agli uomini del nostro tempo, per quanto possibile, in modo comprensibile e persuasivo» (2-3). Non troviamo in questa Esortazione l’espressione «nuova evangelizzazione»; eppure, si parla concretamente di un nuovo modo di annunciare il Vangelo. Quelle pagine, tra l’altro, sono un’impressionante analisi dei cambiamenti avvenuti nel mondo toccato dal fenomeno della contestazione generalizzata.

Il concilio, per motivi cronologici, non aveva avuto neppure il tempo di accorgersene, ma nel sinodo quelle problematiche erano ben presenti, così come con evidenza emergeva il desiderio della Chiesa di ritrovare la via maestra della missione, anche se i vescovi non trovarono piena sintonia circa le modalità di realizzazione.

L’espressione di Paolo VI: «La rottura tra Vangelo e cultura è senza dubbio il dramma della nostra epoca, come lo fu anche di altre» (20), se da una parte manifesta il nocciolo della questione, dall’altra provoca ancora una volta, dopo decenni passati a riflettere seriamente sul fatto, soprattutto alla luce di un’altra espressione sintomatica di Papa Montini ripresa nella Caritas in veritate da Benedetto XVI, secondo cui «Il mondo soffre per la mancanza di pensiero» (53). Certo, ricordava con vigore Paolo VI: «Il Vangelo, e quindi l’evangelizzazione, non si identificano con la cultura e sono indipendenti rispetto a tutte le culture. Tuttavia il Regno che il Vangelo annunzia è vissuto da uomini profondamente legati a una cultura, e la costruzione del Regno non può non avvalersi degli elementi della cultura e delle culture umane. Indipendenti di fronte alle culture, il Vangelo e l’evangelizzazione non sono necessariamente incompatibili con esse, ma capaci di impregnarle tutte, senza asservirsi ad alcuna» (20). Per questo motivo sosteneva senza retorica che «Occorre evangelizzare — non in maniera decorativa, a somiglianza di vernice superficiale, ma in modo vitale, in profondità e fino alle radici — la cultura e le culture dell’uomo, nel senso ricco ed esteso che questi termini hanno nella Costituzione Gaudium et spes, partendo sempre dalla persona e tornando sempre ai rapporti delle persone tra loro e con Dio» (20).

Giovanni Paolo II, con tutta la forza del suo magistero, introduceva la formula «nuova evangelizzazione». Difficile poter stabilire se il Papa con quell’espressione riuscisse a prefigurarsi pienamente il reale movimento che si sarebbe creato in seguito; pur nella sua ambiguità, comunque, essa indicava plasticamente il cammino da percorrere e trovava nelle diverse forme della pastorale un riscontro fortunato. A partire da qui, infatti, tante realtà ecclesiali compresero che la loro azione doveva essere indirizzata verso questo orizzonte. Molti compresero l’urgenza e applicarono a sé le parole di Paolo: «È un dovere per me predicare il Vangelo: guai a me se non predicassi il Vangelo» (1 Corinzi 9, 16), e riportarono entusiasmo e forza dove si erano infiltrate stanchezza e confusione.

Insomma, la questione dell’evangelizzazione, da una parte, mostra il nucleo fondamentale con il quale la Chiesa si deve confrontare nel corso dei secoli, perché appartiene alla sua stessa natura; dall’altra, evidenzia che le ripetute soluzioni avanzate negli ultimi decenni pur nella bontà e qualità delle proposte appaiono, comunque, insufficienti e richiedono un rinnovato impegno che coinvolga la Chiesa in prima persona.

© L'Osservatore Romano 15 ottobre 2011