mercoledì 11 maggio 2011

Le prime chiese nell’hinterland romano. "Santi di città martiri di campagna"


Le prime chiese nell’hinterland romano

Santi di città martiri di campagna

Vincenzo Fiocchi Nicolai

La conversione al cristianesimo delle campagne, nell’antichità fu più lenta rispetto a quella delle città. Anche nel caso dell’hinterland di Roma, dove l’attività missionaria svolta dai membri della precocissima comunità urbana dovette verosimilmente essere particolarmente incisiva e capillare, la presenza di comunità cristiane negli ambienti rurali non può essere documentata prima degli inizi del IV secolo. La resistenza alla conversione da parte dei rustici e del resto fatto ben noto: nell’Italia settentrionale i vescovi Zenone di Verona, Gaudenzio di Brescia e soprattutto Massimo di Torino, tra la seconda meta del IV secolo e gli inizi del V lamentavano la diffusa presenza di contadini ancora dediti ai culti pagani. Nell’anno 397 l’uccisione di alcuni missionari in una località della Val di Non (Cles?) da parte dei rustici intenti a celebrare la festa degli Ambarvalia, propiziatoria della fertilità dei campi, suscito grande impressione nei contemporanei, come documentano soprattutto le parole del vescovo nel cui territorio diocesano era avvenuto l’episodio, Virgilio di Trento (Epistulae, I-II). Proprio questo fatto ci rivela uno degli ostacoli che si frappose alla conversione: il radicamento nelle popolazioni rurali di pratiche religiose che si legavano alle attività quotidiane del lavoro nei campi.

D’altra parte, non tutti i territori potevano essere raggiunti facilmente dalla predicazione missionaria. Ancora nell’età di Gregorio Magno (590-604), come documenta una lettera di quel Pontefice, esistevano adoratori di alberi (cultores arborum) nelle campagne di Terracina (Epistulae, VIII, 19). Sempre Gregorio Magno ci fa sapere che san Benedetto, intorno al 529, aveva trovato sulla sommità di Monte Cassino un tempio pagano antichissimo, «dove la massa ignorante dei contadini» rendeva culto regolarmente ad Apollo (Dialogi, II, 8).

Nel IV secolo la documentazione più consistente sulla presenza di comunità rurali intorno a Roma ci viene dall’archeologia funeraria. Piccoli gruppi di tombe, sepolcri isolati, caratterizzati da iscrizioni o rilievi di carattere cristiano, cimiteri comunitari piu estesi, piccole catacombe o aree funerarie all’aperto attestano la presenza di gruppi di cristiani in diverse località.

Talvolta le epigrafi funerarie restituite da questi cimiteri menzionano presbiteri, diaconi, suddiaconi, e altri membri di un clero locale cui era affidata la cura animarum degli abitanti del luogo. Non sono note chiese correlate: e probabile pertanto che in quell’epoca per le messe e i battesimi ci si recasse ancora nel piu vicino centro vescovile urbano, ovvero si utilizzassero per le riunioni liturgiche strutture non connotate (domus ecclesiae): al clero locale doveva in ogni caso essere affidata soprattutto la catechesi e l’attività missionaria.


Le aree funerarie rurali in alcuni casi ospitarono tombe di martiri, come attestano le fonti e talvolta anche la documentazione archeologica; il che consente di far risalire l’origine delle locali comunità a età anteriore alla pace religiosa. D’altra parte già nel 313 alcuni piccoli borghi rurali, come quelli sorti presso le stationes viarie di Tres Tabernae al XXXIII miglio della via Appia, di Ad Quintanas al XV della via Labicana, nonché l’agglomerato di Albanum sull’Appia, l’attuale Albano Laziale, erano governate da un vescovo. Si pensa che l’istituzione così precoce di sedi vescovili in località molto modeste fosse funzionale proprio alla conversione di zone ancora poco toccate dalla attività di evangelizzazione. La presenza di vescovi in questi luoghi potrebbe anche essere collegata all’esistenza nelle aree circostanti di santuari martiriali importanti, che i presuli erano chiamati a controllare e custodire.

In effetti un ruolo rilevante nella cristianizzazione delle campagne dovette svolgere la promozione del culto rivolto ai primi testimoni della fede. Tra il 386 e il 398, il grande oratore Giovanni Crisostomo illustrava bene questa funzione dei santuari martiriali rurali, sebbene in un territorio molto lontano da Roma, la campagna di Antiochia: «Il Signore ha accordato alle campagne più martiri che alle città. Gli abitanti delle città godono infatti di un insegnamento cristiano incessante, mentre quelli della campagna non sono trattati con la stessa generosità. Il Signore, per mitigare questa penuria di maestri, ha disposto che presso i rustici fosse sepolta la maggior parte dei testimoni della fede. Gli abitanti delle campagne non ascoltano incessantemente, come i fedeli della città, la parola dei maestri, ma odono la voce ben più potente dei martiri che parla loro dalla profondità dei sepolcri» (Homilia de sanctis martyribus, 1).

Anche in un territorio precocemente cristianizzato come quello circostante Roma dobbiamo attendere gli inizi del V secolo per registrare le prime testimonianze certe dell’esistenza di chiese nelle campagne e di una organizzazione strutturata del culto. Una lettera di Papa Innocenzo I dell’anno 416 ci assicura che il territorio rurale della diocesi di Nomentum, città situata all’altezza del XIV miglio della via Nomentana, era suddiviso in quell’epoca in circoscrizioni parrocchiali (paroeciae) dotate di edifici di culto (Epistulae, 40).

Dal V secolo le fonti letterarie ci informano di chiese fatte costruire nelle campagne soprattutto dai ricchi proprietari terrieri. Questi, spesso su sollecitazione delle gerarchie ecclesiastiche, dotavano la propria villa rurale di una chiesa, ove gli abitanti del luogo — ma anche i rustici del circondario — potevano trovare strutture idonee per lo svolgimento del culto. Questi edifici di culto erano retti da un presbitero, aperti alla pubblica frequentazione e talvolta anche dotati di un battistero. Alle porte di Roma, tra il III e il IV miglio della via Latina, l’archeologia ha restituito una di tali chiese. Si tratta della basilica di Santo Stefano (visibile nel Parco delle Tombe Latine), fondata dalla nobile cristiana Amnias Demetrias della famiglia degli Anicii. La pia donna, in punto di morte, aveva dato mandato al vescovo di Roma, Leone Magno (440-461), di costruire a sue spese, nella propria villa, una chiesa per la comunità, dedicata al protomartire di Gerusalemme. Il che avvenne puntualmente mediante l’edificazione di una basilica a tre navate piuttosto grande, dotata di cripta destinata ad accogliere evidentemente le reliquie di Santo Stefano, e di un annesso battistero; l’esecuzione dei lavori, come ci informa l’iscrizione dedicatoria, ritrovata nell’Ottocento negli scavi dell’edificio, era stata affidata dal Papa al diacono Tigrino.

Meccanismi fondativi di questo tipo sono noti in altri casi in Italia e nel territorio circostante l’Urbe. Anche nelle campagne la realizzazione delle strutture cultuali funzionali all’organizzazione del culto si avvalse del contributo dei più generosi (e facoltosi) membri della comunità.

Talvolta fu invece la diretta iniziativa dei Papi a promuovere la costruzione di chiese rurali, laddove le necessità pastorali lo richiedevano. Sappiamo che Papa Simmaco (498- 514) fece edificare nelle campagne a nord di Roma una chiesa dedicata alla martire Agata di Catania, dotata di battistero; prima di lui, Papa Gelasio (492-496) aveva curato la realizzazione di due edifici di culto al V miglio della via Labicana e al XX della via Laurentina, rispettivamente dedicati ai Santi Andrea, Nicandro ed Eleuterio e alla Vergine.

A circa ventisette miglia a nord di Roma, su un diverticolo della antica via Amerina, in località Mola di Monte Gelato, una chiesetta di campagna sorse agli inizi del V secolo ai bordi di una villa rustica; la sua facciata si apriva su una strada pubblica, cosi da poter essere raggiunta facilmente da tutti i fedeli che risiedevano nei dintorni. Una collocazione topografica molto significativa, che ricorre anche in altri casi e che rivela, appunto, come un edificio di culto fondato da un privato dovesse restare a disposizione di tutta la comunità. Questa piccola chiesa di campagna, come altre di cui abbiamo conoscenza in epoca più tarda, era dedicata a san Giovanni Battista, una dedica che tradisce probabilmente la funzione battesimale di questi edifici. Altre intitolazioni ricorrenti sono quelle alla Vergine e a san Pietro, indicativa quest’ultima del legame che le Chiese periferiche intrattenevano con quella di Roma.

La dimensione delle chiese rurali e di norma modesta; la loro articolazione architettonica molto semplice, funzionale alla frequentazione di comunità non molto consistenti numericamente.

Nel periodo di passaggio dall’antichità al medioevo, le sopraggiunte difficoltà di approvvigionamento della città di Roma, connesse con l’interruzione delle abituali vie commerciali, richiesero la fondazione, nell’VIII secolo, di aziende agricole papali, le domuscultae; queste erano sistematicamente dotate di chiese per la cura animarum dei contadini e degli amministratori residenti. Lo stesso avvenne per le aziende agricole dei territori a nord di Roma conquistati dai Longobardi, le curtes.

Un’importante iscrizione della meta del VIII secolo, scoperta agli inizi dell’Ottocento presso la chiesa di Santa Maria in Vico Novo presso Scandriglia (Rieti), il cui testo e stato di recente recuperato nei manoscritti dell’antiquario Girolamo Amati alla Biblioteca Apostolica Vaticana, attesta che l’edificio, di cui si conservano ampi tratti dell’elevato risalenti al VI secolo, fungeva da centro religioso della locale azienda agricola, la curtis Sanctae Mariae in Vico Novo; questa era posta sotto il controllo del duca di Spoleto e del gastaldo di Rieti, menzionati nell’epigrafe insieme al prete responsabile della piccola chiesa rurale e all’amministratore del fondo, l’actionarius Baruncio. Era stato quest’ultimo a far dono all’edificio, pro redemptione animae suae, di un ricco arredo liturgico in marmo.

(©L'Osservatore Romano 11 maggio 2011)