Il cardinale presidente della Cei sull’impegno dei laici nella vita pubblica
Non su tutto
si può mediare
«La categoria della mediazione è uno strumento indispensabile dentro la pluralità delle opinioni, non a caso la politica è stata definita l’arte della mediazione. Ma non su tutto ci può essere mediazione, ci sono delle frontiere oltre le quali questa categoria non può essere utilizzata. In particolare sui valori. Quando questi valori sono costituitivi mediare significa andare contro l’umanità dell’uomo». È quanto ha detto, nella mattina di sabato 12, il cardinale presidente della Conferenza episcopale italiana (Cei) in un passaggio a braccio della prolusione su «Magistero ecclesiastico e ordine politico: libertà e responsabilità dei fedeli laici nella vita pubblica» svolta a Roma, in occasione dell’atto accademico presso l’Istituto superiore di scienze religiose all’Apollinare. Pubblichiamo ampi stralci dell’intervento.
La società complessa che viviamo e l’incrocio di culture, visioni etiche e antropologiche differenti e a volte opposte, sfida l’impegno dei cristiani nella presenza nel mondo; impegno che, nei secoli, si è concretizzato in modo significativo anche nella partecipazione leale e attiva alla politica ricordando da una parte che essi «partecipano alla vita pubblica come cittadini» (Lettera a Diogneto, 5, 5) e dall’altra che è loro preciso dovere animare cristianamente l’ordine temporale, rispettandone la natura e la legittima autonomia che è sempre in relazione a Dio creatore (cfr. concilio Vaticano II, Gaudium et spes, 36).
Ora, perché quanto affermato circa il dovere di ogni cristiano di partecipare attivamente alla vita pubblica considerando le forme possibili e idonee per ciascuno, non suoni come assertivo e non argomentato, dobbiamo ricordare come l’uomo è. Diciamo subito che l’uomo è «unitotalità », vale a dire che è una pluralità unitaria: in lui vi è una molteplicità di dimensioni — dall’intelligenza alla volontà, dai sentimenti alle sensazioni, dal corpo all’anima — che sono la sua ricchezza costitutiva. Ma questi elementi non sono sparsi, fanno unità ontologica, cioè sono indivisibili. È dunque una ricchezza unitaria, cioè una unità plurima non parcellizzabile. Tentare di separare i «piani» condurrebbe a una sorta di schizofrenia nell’autopercezione che ucciderebbe l’individuo. Se questa è la condizione umana, allora si comprende che il credente non può mettere mai tra parentesi la sua fede, perché sarebbe mettere tra parentesi se stesso, vivere separato da sé. Chiedere o pretendere che i cristiani, che hanno responsabilità pubbliche, sospendano la loro coscienza cristiana quando esercitano i loro doveri, è non solo impossibile ma anche ingiusto.
Ma è necessario completare questo discorso perché non si concluda erroneamente che il cristiano impegnato in politica fa del confessionalismo e non rispetta il pluralismo culturale e la giusta laicità dello Stato e delle istituzioni. Quando diciamo che non il credente non può mettersi tra parentesi in nessun ambito di vita, neppure quello pubblico e politico, significa che nessun fedele può compromettere o attenuare la salvaguardia delle esigenze etiche fondamentali (Congregazione per la Dottrina della Fede, Nota dottrinale circa alcune questioni riguardanti l’impegno e il comportamento dei cattolici in politica, n. 5). Si parla di «esigenze etiche fondamentali», cioè di quei valori che non sono di per sé confessionali, poiché «tali esigenze etiche sono radicate nell’essere umano e appartengono alla legge morale naturale. Esse non esigono in chi le difende la professione di fede cristiana, anche se la dottrina della Chiesa le conferma e le tutela sempre e dovunque» (Ibidem). Si comprende che siamo giunti al fondamento della politica, fondamento che, appunto perché tale, è la norma dell’azione politica stessa: si tratta della persona che, secondo l’affermazione di Antonio Rosmini, è «diritto sussistente» perché l’uomo è trascendenza, cioè ha in sé, scritto nel suo essere, un «dover-essere» che precede ogni legislazione e ogni potere umano; è un «doveressere » che, procedendo da ciò che è, è sigillato da Dio Creatore. Ecco perché nessun diritto fondamentale deriva dallo Stato o dall’attività politica — come «pazzamente fu asserito» (Antonio Rosmini) — ma appartiene all’uomo in quanto tale e non è una concessione di nessuna autorità umana.
La rivendicazione della legge naturale costituisce lo strumento primario per la difesa della libertà e per la difesa della dignità dell’uomo. Il tentativo insistente di negare l’esistenza della natura umana nella sua oggettività e universalità, è mirato a distruggere il fondamento della legge naturale e quindi del diritto naturale che è norma del diritto positivo. Il relativismo, il quale afferma che non esiste una norma morale radicata nella natura stessa dell’essere umano, è smentito dall’esperienza universale secondo cui, a tutte le latitudini e epoche, gli uomini — all’interno delle rispettive culture — si percepiscono uguali nei dati di fondo. D’altronde, le Carte internazionali come potrebbero dichiarare i diritti universali senza il riferimento universale della natura umana? Tutti affermano di rifiutare uno Stato etico che pretende di produrre i valori anziché riconoscerli, ma negare l’esistenza della natura umana dove può portare se non là dove, a parole, non si vorrebbe andare? Affidare tutto alle procedure delle maggioranze assicura veramente il bene oppure garantisce solo la dialettica democratica? E negare la sorgente oggettiva di valori fondamentali e universali non porta inevitabilmente a una politica che si sostituisce sul piano etico?
Il magistero della Chiesa afferma che «ai laici spettano propriamente, anche se non esclusivamente, gli impegni e le attività temporali» (Gaudium et spes, 43) e riconosce la «libertà dei cittadini cattolici di scegliere, tra le opinioni politiche compatibili con la fede e la legge morale naturale, quella che, secondo il proprio criterio meglio si adegua alle esigenze del bene comune» (Nota dottrinale circa alcune questioni riguardanti l’impegno e il comportamento dei cattolici in politica, n. 3). Questa giusta e necessaria libertà non ha niente a che vedere con il relativismo nella scelta dei principi morali e dei valori sostanziali a cui si fa riferimento nelle diverse opzioni politiche e sociali. La coscienza del cattolico, infatti, deve essere sempre una coscienza formata sulla base della dottrina cattolica, facendo attenzione rispettosa al magistero autentico, nutrita di una solida vita spirituale nella comunità cristiana (cfr. Gaudium et spes, n. 43).
© L'Osservatore Romano 13 novembre 2011
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