giovedì 25 novembre 2010

Religiosi anticonformisti al passo con i tempi di Nicola Gori


Religiosi anticonformisti al passo con i tempi

di Nicola Gori

Con il loro stile di vita e la varietà delle loro comunità i religiosi e le religiose sono una risposta concreta a certi pseudovalori imperanti nella società. A cominciare dall'individualismo e dal consumismo, per finire a quel malinteso bisogno di sicurezza che genera paura e sfiducia verso gli altri. Ma per realizzare una risposta all'altezza occorrono consacrati che vivano la sfida della testimonianza evangelica e non persone che cerchino soltanto di mantenere in vita strutture arcaiche. È quanto afferma in questa intervista al nostro giornale l'arcivescovo redentorista statunitense Joseph William Tobin, dallo scorso 2 agosto segretario della Congregazione per gli Istituti di vita consacrata e le Società di vita apostolica.

Il suo incarico le apre nuove possibilità per promuovere la vita consacrata nel mondo. Quali sono le sue priorità?

Sono consapevole che il lavoro del dicastero non è cominciato con il mio arrivo. Ci sono già delle priorità. D'altra parte, dopo diciotto anni di servizio a livello internazionale nella congregazione dei redentoristi, ho qualche idea sulla situazione e sulle aspettative della vita consacrata nel mondo. Certamente, ogni continente ha realtà e problemi specifici.

Ce ne indica i più importanti?

In Africa c'è una popolazione molto giovane, ma spesso priva delle strutture formative o economiche per sostenere una congregazione; da qui il bisogno di maggiore attenzione e accompagnamento alla vita consacrata. In Asia, invece, c'è la grande sfida del dialogo. A questo proposito, i vescovi hanno indicato tre grandi priorità: dialogare con le culture, con le religioni e con i poveri del continente. Mi sembra, invece, che in America Latina ci sia un grande vantaggio grazie agli orientamenti suggeriti dall'episcopato continentale, soprattutto durante la conferenza del 2007 ad Aparecida. In America del nord occorre riscoprire il ruolo della vita consacrata all'interno di una Chiesa in crescita - penso agli Stati Uniti - ma con un numero sempre minore di religiosi. Per l'Europa, infine, credo che l'attenzione riservatale costantemente dal Papa vada letta in questo senso: un buon maestro ha nel mirino sempre gli studenti più difficili. Le visite compiute in Francia, in Germania e, più di recente, nel Regno Unito e in Spagna, mi sembra mostrino la sua considerazione verso un continente che ha un patrimonio cristiano, ma registra al tempo stesso una disaffezione di molti fedeli nei confronti della Chiesa.


Come procede la riflessione sulla pastorale vocazionale all'interno degli istituti religiosi, in particolare in quelli femminili?

Credo che noi consacrati dobbiamo riconoscere alcune cose, a cominciare dal fatto che la cultura giovanile non proviene da un altro pianeta. Se riusciamo a entrare nel mondo dei giovani con una proposta di vita piena e di gioia, credo che il Signore farà fruttificare i nostri sforzi. Non altrettanto, invece, avverrà se andiamo solo alla ricerca di impiegati per sostenere le nostre istituzioni. Durante un incontro con i ragazzi di una delle nostre comunità in Europa, mi ha colpito profondamente quello che ha detto uno di loro: "Io sono pronto a offrirmi come missionario, non come badante dei palazzi". Evidentemente l'immagine che noi redentoristi offrivamo in quel Paese era quella di una comunità alla ricerca di personale per custodire le istituzioni piuttosto che di persone in grado di offrire una testimonianza missionaria.

In Occidente diminuiscono le vocazioni alla vita consacrata. Si tratta di una tendenza temporanea o irreversibile?

Basta leggere la lezione della storia. Nella Francia del periodo post rivoluzionario quasi tutte le congregazioni religiose erano state soppresse e disperse; passata la tempesta, però, grazie a un nuovo impulso dello Spirito Santo, i consacrati hanno trovato modo di rinascere. Parlando sempre della Francia, ricordo che una volta padre Timothy Radcliffe, allora maestro generale dei domenicani, mi confidò che i frati predicatori avevano un numero sorprendente di giovani. Di fronte alla mia incredulità, mi disse: "La vocazione è un mistero, la chiamata di Dio è sempre un mistero, ma noi domenicani abbiamo fatto delle scelte per dare più chiarezza alla nostra identità. E quindi l'invito dei domenicani si è reso più comprensibile presso i giovani". Ecco il punto centrale: far comprendere qual è il nostro carisma. Purtroppo, mi sembra che spesso cadiamo nel conformismo e non ci occupiamo più del nucleo della nostra identità da presentare ai giovani. Tuttavia, non credo che questa tendenza sia irreversibile.

Qual è il modo per far capire ai giovani l'aspetto specifico di un carisma?

La prima cosa da spiegare è che la missione di una congregazione resta sempre e comunque una "missione", sia essa contemplativa o attiva. Siamo prima dei chiamati e poi degli inviati. Questo implica che non possiamo ridurre la missione a una forma di apostolato: occorre mettere in rilievo tutta la nostra vita come una missione continua, sia quando siamo in comunità, sia nella preghiera, sia nel servizio pastorale e apostolico. Non dobbiamo fare a pezzi la nostra identità, ma riconoscere che il carisma è un dono di Dio e a noi tocca fare del nostro meglio.


L'attuale formazione dei novizi e degli aspiranti al sacerdozio risponde alle attese della società contemporanea?

Mi sembra che queste attese facciano già parte della formazione. Quando parliamo della formazione integrale, bisogna considerarla inserita nel contesto in cui si vive, perché la vita consacrata non è un'esistenza su un altro pianeta, ma è essenzialmente una vita. Quando la gente mi chiede cosa sia la consacrazione, dico sempre che è vita nel vero senso della parola. Noi religiosi abbiamo una serie di valori nei quali crediamo. Questo ci spinge a dare testimonianza e a mettere in discussione quelli che sono gli pseudovalori di una società in un particolare momento storico. Penso per esempio al consumismo e all'individualismo, oggi dominanti. Penso alle divisioni in classi, in razze o in gruppi etnici. Credo che le nostre comunità, spesso composte da persone di varie nazioni e culture, siano una testimonianza concreta che mette in discussione la xenofobia, la paura, la sfiducia degli altri e, più in generale, le sicurezze di certe società.

Il problema della formazione viene affrontato solo quando ci sono problemi che coinvolgono i consacrati?

Se si tiene conto della piccola percentuale di consacrati implicati negli scandali, almeno per quanto riguarda gli abusi sessuali, si può concludere che la formazione riesce veramente a plasmare donne e uomini dotati di una sessualità matura e non patologica.

I vescovi segnalano una certa autonomia del clero regolare nella partecipazione alla vita delle diocesi. È un fenomeno diffuso o ci sono progressi rispetto al passato?

Credo che il problema sia reale. Non parliamo di colpe specifiche, piuttosto di una mancanza di conoscenza reciproca. Spesso i religiosi non conoscono gli obiettivi del piano pastorale di una diocesi o di una conferenza episcopale, e neppure se ne interessano. D'altra parte, ci sono pastori che ignorano le esigenze della vita consacrata. Dei religiosi si preoccupano solamente allorché sfuggono al loro controllo. Non è certo un'ottica utile per promuovere la comunione. Orazio diceva che io non posso amare ciò che non conosco. Sia da parte dei religiosi, sia da parte dei vescovi, c'è sempre la sfida di una conoscenza vicendevole. Nel 1978 il nostro dicastero, insieme con la Congregazione per i Vescovi, ha pubblicato il decreto Mutuae relationes per favorire una migliore conoscenza tra clero diocesano e religiosi. Purtroppo, molte delle norme e delle pratiche suggerite da quel documento non sono mai state messe in pratica. C'è da pensare che forse è venuto il momento di rivedere questa mutua relazione.

Gli istituti religiosi, specialmente quelli femminili, operano una sorta di reclutamento di giovani nei Paesi del terzo mondo per supplire alla scarsità di vocazioni. È una questione ancora attuale?

Ci sono state delle accuse in passato ma sinceramente non sono in grado di giudicarle. Negli istituti che conosco personalmente, mi sembra che esista una sensibilità diffusa nel rifiutare l'idea di un reclutamento volto a sostenere le istituzioni. Anche perché significherebbe, di fatto, approfittare di certe situazioni sociali ed economiche solo per mantenere in piedi le nostre strutture. Difficilmente si può vedere in questo un valore evangelico.

In alcuni casi le comunità contemplative sono composte da pochi membri anziani. La soppressione di qualche monastero per concentrare le forze può essere una soluzione al problema?

Si tratta di una questione attuale, perché nella vita contemplativa, soprattutto in quella femminile, l'autonomia dei monasteri rappresenta un valore e una tradizione molto forte e bella. D'altra parte, può costituire anche un ostacolo alle esigenze di riordino e, eventualmente, di ridimensionamento di una realtà religiosa. In ogni caso, è sempre un'esperienza dolorosa per una comunità scegliere di estinguersi piuttosto che unirsi a un altro monastero. Un serio dialogo tra monasteri è da incoraggiare e da sviluppare per un discernimento più profondo sul carisma della vita contemplativa. A volte siamo chiamati a un processo di kenòsis, di svolta, di rinuncia ad alcuni valori, come quello dell'autonomia, in favore della continuità del dono carismatico della vita contemplativa nella Chiesa. Come ogni professione religiosa è un atto di svuotamento personale, così il problema della mancanza di vocazioni nelle grandi strutture è forse un invito dello Spirito Santo a uno svuotamento, a un processo di kenòsis a livello istituzionale per assicurare che il dono continui.

Ritiene opportuno che la Congregazione imponga per decreto la chiusura di alcuni monasteri?

È sempre meglio che queste decisioni siano prese a livello locale e credo che il principio della sussidiarietà indichi questa preferenza. Peraltro, tale principio diventa anche una spada a doppio taglio, nel momento in cui gli interessati non riescono a prendere la decisione e la responsabilità di scegliere. Tuttavia, ogni intervento esterno non deve essere fatto per motivi di potere o di dominio dell'autorità superiore. Piuttosto va improntato alla carità, che ci spinge ad aiutare i fratelli e le sorelle che, per qualche ragione, non riescono ad arrivare a una soluzione.

Di fronte alla crisi di alcuni ordini tradizionali si riscontrano nuove forme di vita consacrata. Quale rapporto esiste tra antico e nuovo?

Non so se questa è un'immagine esatta, ma vedo la ricchezza della vita consacrata come un ecosistema. Nella nostra epoca siamo molto sensibili all'ecologia e credo che esista anche una sorta di ecologia ecclesiale. Gli scienziati confermano che la varietà delle specie di flora e di fauna garantisce il futuro di un ecosistema. Da qui la preoccupazione allorquando sparisce o viene minacciata una di esse. Allo stesso modo, la Chiesa deve preoccuparsi quando alcune forme di vita consacrata si trovano a rischio di estinzione, perché questa ecologia ecclesiale è formata da un'ampia varietà. Nella prima lettera ai Corinzi san Paolo scrive che ci sono molti doni, ma unico è lo Spirito che suscita e guida questi doni. Per questo la Chiesa deve ringraziare Dio per il dono delle nuove forme di vita consacrata e non lasciarle sparire senza preoccuparsene, perché ognuna di esse ha un contributo specifico da offrire alla comunità ecclesiale.

Qual è attualmente il rapporto tra vita consacrata e i movimenti sorti negli ultimi decenni?

Il dialogo tra i nuovi movimenti ecclesiali e gli istituti tradizionali può essere molto utile. Ricordo di aver visitato poco tempo fa un monastero contemplativo dove le monache erano tutte giovani. È bello certamente vedere una comunità del genere. Anche se non bisogna trascurare il rovescio della medaglia. Laddove non ci sono monache anziane, può mancare l'esperienza e la guida nei momenti di crisi. Allo stesso modo, credo che nella Chiesa il dialogo tra i nuovi movimenti ecclesiali e gli ordini tradizionali possa essere di aiuto reciproco: ai primi serve per superare le crisi, ai secondi per scoprire nuove energie ed essere più coerenti con l'ispirazione del fondatore.

(©L'Osservatore Romano - 26 novembre 2010)