sabato 26 febbraio 2011

Nella Cappella Paolina l'ultima fatica di Michelangelo pittore "Il sacrificio di Pietro a imitazione del Maestro" (Antonio Paolucci)


Nella Cappella Paolina l'ultima fatica di Michelangelo pittore

Il sacrificio di Pietro
a imitazione del Maestro

Domenica 27 febbraio all'Auditorium Parco della Musica di Roma, per il ciclo "Lezioni d'arte sul museo a cielo aperto di Roma", il direttore dei Musei Vaticani tiene la conferenza "La Cappella Paolina dei Palazzi Apostolici". Dello stesso relatore pubblichiamo sull'argomento alcuni stralci dal volume Roma, Musei Vaticani (Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 2010, pp. 1114-1117).


di Antonio Paolucci

Tutti conoscono la Cappella Sistina visitata ogni anno da più di quattro milioni di persone. Pochi, al contrario, possono dire di aver sostato all'interno della Paolina, l'altra cappella papale all'interno dei Palazzi Apostolici. È esclusa dai percorsi museali, ci si può entrare solo per autorizzazione della Prefettura della Casa Pontificia, è il luogo di culto riservato al Papa, ai suoi ospiti, alla sua corte. Recentemente la Cappella Paolina è stata oggetto di un lungo e delicato restauro durato sette anni (2002-2009), curato dai tecnici dei Musei Vaticani sotto la guida di Maurizio De Luca e di Maria Pustka, inaugurata da Papa Benedetto XVI il 4 luglio 2009.

Non è facile (non però impossibile) visitare questo luogo eminente della storia dell'arte universale. Tuttavia il restauro recente è stato rivelatore di tali e tante novità e la pittura dell'ultimo Michelangelo è a tal punto decisiva per intendere il percorso artistico spirituale e umano di quel Grande, che accennare alla "nuova" Paolina è necessario.

La cappella è conosciuta nei documenti come parva perché le sue dimensioni sono relativamente piccole. È affrescata con gli episodi salienti della vita dei protoapostoli Pietro e Paolo. Quando sull'altare viene esposto il Santissimo Sacramento, il ruolo del Papa di Roma, custode del Corpus Christi nella legittimità della successione apostolica e nella fedeltà all'ortodossia vi è perfettamente significato. Questo spiega perché i romani pontefici hanno sempre custodito la cappella parva con ogni cura, modificandola e arricchendola nei secoli. Il fuoco dell'attenzione critica va da sempre ai due murali raffiguranti la Conversione di san Paolo e la Crocifissione di san Pietro, capolavori ultimi di Michelangelo pittore, e va al loro committente, Paolo III Farnese, il grande Papa che inaugurò il Giudizio in Sistina (1541) e aprì il concilio di Trento (1545). Ma molti sono i pontefici che si sono occupati della Paolina negli ultimi cinque secoli, molti gli artefici - pittori, decoratori, plasticatori, doratori - che si sono succeduti al suo interno. La Cappella Paolina è dunque una realtà plurima, stratificata e tuttavia omogenea e coerente. Alla base della filosofia che ha ispirato l'ultimo restauro, c'è stata la consapevolezza di questi fondamentali caratteri distintivi: la delicata e complessa orditura simbolica e iconografica che governa lo spazio sacro e gli dà significato, la coerente unità di tono, di colore, di stile, di omogeneo invecchiamento che i secoli ci hanno consegnato.

Ed ora alcune notizie essenziali sulla storia della Cappella Paolina. All'inizio c'è Paolo III Farnese. Fu lui a commissionarne la edificazione all'architetto Antonio da Sangallo (1537-1539) mentre affidava a Michelangelo l'esecuzione dei due celebri murali contrapposti.

Il Buonarroti che negli anni Quaranta del XVI secolo lavora in Paolina, è un uomo ormai avanzato negli anni, in cattiva salute, amareggiato e scontento. Era uscito spossato dalla immane fatica del Giudizio inaugurato alla vigilia di Ognissanti del 1541. A partire dal 1547, quando il Papa gli affida la responsabilità del nuovo San Pietro, la progettazione della Cupola assorbe tutte le sue energie, mentre lo angustiano le invidie, le gelosie, i continui contrasti con i Soprastanti alla Fabbrica.

Il cantiere della Paolina impegnò Michelangelo, con lunghe interruzioni fino al 1550. Prima dipinse il riquadro con la Conversione di Saulo, poi la Crocifissione di san Pietro. Quest'ultimo eseguito negli anni che videro dissolversi il suo universo intellettuale ed affettivo perché nel 1547 moriva Vittoria Colonna, l'amica e la confidente degli anni tardi, e nel 1549 lasciava questo mondo il "suo" Papa, Paolo III Farnese. Ora, dopo la rimozione della scura camicia di sporco e di ritocchi alternati e incongrui che li opprimeva, i murali del Buonarroti sono stati restituiti al meglio delle loro condizioni conservative e quindi al meglio della leggibilità e del godimento possibili. Gli affreschi di Michelangelo ci appaiono ora segnati dal tempo, logorati e consumati in più parti e tuttavia ancora terribilmente vivi ed eloquenti. Non li abbiamo riportati al "primitivo splendore" come scrivono i cattivi giornalisti, ma semplicemente consegnati a una possibilità di lettura finalmente oggettiva e allo stesso tempo gradevole. È tutto quello che si può e si deve chiedere a un buon restauro. Niente di più e niente di meno.

Il Michelangelo che affresca in Paolina negli anni Quaranta del Cinquecento, procede per giornate piccole, con lunghe interruzioni e molti pentimenti nella stesura pittorica. Le somiglianze con il Giudizio sono strettissime: stessa gamma cromatica, stessa imperiosa saldezza plastica, spesso stesse idee e stessi disegni riutilizzati nell'occasione. C'è semmai di più e di diverso, rispetto al Giudizio, una visione se possibile ancora più tragica e pessimistica della Umanità e della Grazia.

Quel Cristo che scende in picchiata da un cielo catastrofico ad afferrare, a "tirar su" Saulo disarcionato e accecato, precipita su gente terribile, violenta, stolida, disperata. Si ha l'impressione che il mistero della Grazia offerta a una umanità immeritevole angosci l'anima dell'artista che vive e testimonia, da cristiano, la crisi religiosa della sua epoca, divisa e lacerata dalla Riforma.


Questioni dottrinali e teologiche di grande momento sfiorano il murale con la Crocifissione di san Pietro, ultima sua opera in Cappella Paolina. Penso all'idea formidabile - non a caso ripresa, mezzo secolo dopo, da un altro Michelangelo, il Merisi da Caravaggio, nella Crocifissione della Cappella Cerasi in Santa Maria del Popolo - dell'Apostolo che nel momento di stendersi sulla croce ci guarda corrucciato, quasi dubbioso della utilità del suo martirio. Perché è quello sguardo terribile? Per tutti noi, certo, indegni di portare il nome di cristiani. Ma anche per i cardinali che un tempo qui si riunivano in Conclave e soprattutto per il Papa che entrando in Paolina non poteva sfuggire allo sguardo di san Pietro. Come se l'apostolo, disteso sulla croce, intendesse dire al suo successore: Tu es Petrus (Matteo, 16, 18) e ancora: "ricordati che il tuo è il mio destino, sii degno della mia testimonianza".

E che dire dei chiodi ben visibili sulle mani e sui piedi dell'Apostolo? Il restauro ha dimostrato, senza possibilità di dubbio, che i chiodi in origine non c'erano. Michelangelo non li aveva dipinti. Sono stati aggiunti in un tempo successivo. Nell'idea di Michelangelo, san Pietro si consegna volontariamente al sacrificio. Il suo corpo non toccato ancora dai segni del supplizio, è una specie di spirituale offertorio. Un offertorio che va al di là delle contingenze della storia, che deve essere continuo e sempre presente nella vita della Chiesa. La Crocifissione di san Pietro secondo Michelangelo è il monito del Vicario ai suoi successori nella sequela apostolica.

Abbiamo detto che Michelangelo, in Cappella Paolina, è coprotagonista di un insieme iconografico e stilistico unitario. Nel 1550 la decorazione pittorica era rimasta interrotta ai due murali con la Conversione di Saulo e la Crocifissione di san Pietro. Bisognava completarla con gli altri episodi della vita dei principi degli apostoli.

Dopo una interruzione lunga più di vent'anni, i lavori in Paolina ripresero sotto il pontificato di Gregorio XIII Boncompagni, uomo di profondi studi e di grande cultura, il committente della Galleria delle Carte Geografiche e della Torre dei Venti, il riformatore del calendario civile.

Papa Boncompagni chiamò i pittori Lorenzo Sabatini e Federico Zuccari perché completassero il ciclo iconografico, mentre decine di decoratori, di doratori, di stuccatori i cui nomi affollano i registri di pagamento, lavoravano al minuzioso e sontuoso arredo interno della Cappella.

Immaginate a questo punto i due pittori - Sabatini e Zuccari - chiamati a confrontarsi con Michelangelo, a dieci anni dalla sua morte, a quaranta dalla inaugurazione del Giudizio, quando era ancora fresca di stampa l'ultima edizione delle Vite di Giorgio Vasari, l'autore che aveva consegnato il nome di Buonarroti all'aura del genio ineguagliato e ineguagliabile e, quasi, allo statuto della "divinità".

I due, lusingati certo ma anche intimoriti dal confronto, vollero tenersi saggiamente sottotono, per nulla competitivi e anzi per quanto possibile mimetici del supremo modello (Sabatini nella Caduta di Simone Mago, lo stesso Zuccari nei modi allegorici della volta), attenti a non creare disarmonie nel contesto stilistico generale. Non diversamente si comportarono i molti artisti, artigiani, decoratori, restauratori che intervennero nel tempo all'interno della Cappella. Perché non c'è stato si può dire Papa che negli ultimi quattro secoli non si sia occupato in maniera più o meno rilevante della Cappella Paolina. L'ultimo intervento significativo, nel Novecento, è stato quello di Paolo VI Montini che realizzò (1974-1975) un discusso riordino della parte presbiteriale. Con il consenso di Papa Benedetto XVI quell'assetto è stato rimosso e il presbiterio restituito alla situazione precedente.

(©L'Osservatore Romano - 27 febbraio 2011)