giovedì 31 marzo 2011

Ti adoriamo, o Cristo, e ti benediciamo, perchè con la tua Santa Croce hai redento il mondo


Ti adoriamo, o Cristo,
e ti benediciamo,
perchè con la tua Santa Croce
hai redento il mondo.

mercoledì 30 marzo 2011

CATECHESI DEL SANTO PADRE ALL'UDIENZA GENERALE - 30 marzo 2011


BENEDETTO XVI

UDIENZA GENERALE

Piazza San Pietro
Mercoledì, 30 marzo 2011



Sant'Alfonso Maria de' Liguori


Cari fratelli e sorelle,

oggi vorrei presentarvi la figura di un santo Dottore della Chiesa a cui siamo molto debitori, perché è stato un insigne teologo moralista e un maestro di vita spirituale per tutti, soprattutto per la gente semplice. E’ l’autore delle parole e della musica di uno dei canti natalizi più popolari in Italia e non solo: Tu scendi dalle stelle.

Appartenente a una nobile e ricca famiglia napoletana, Alfonso Maria de’ Liguori nacque nel 1696. Dotato di spiccate qualità intellettuali, a soli 16 anni conseguì la laurea in diritto civile e canonico. Era l’avvocato più brillante del foro di Napoli: per otto anni vinse tutte le cause che difese. Tuttavia, nella sua anima assetata di Dio e desiderosa di perfezione, il Signore lo conduceva a comprendere che un’altra era la vocazione a cui lo chiamava. Infatti, nel 1723, indignato per la corruzione e l’ingiustizia che viziavano l’ambiente forense, abbandonò la sua professione - e con essa la ricchezza e il successo - e decise di diventare sacerdote, nonostante l’opposizione del padre. Ebbe degli ottimi maestri, che lo introdussero allo studio della Sacra Scrittura, della Storia della Chiesa e della mistica. Acquisì una vasta cultura teologica, che mise a frutto quando, dopo qualche anno, intraprese la sua opera di scrittore. Fu ordinato sacerdote nel 1726 e si legò, per l’esercizio del ministero, alla Congregazione diocesana delle Missioni Apostoliche. Alfonso iniziò un’azione di evangelizzazione e di catechesi tra gli strati più umili della società napoletana, a cui amava predicare, e che istruiva sulle verità basilari della fede. Non poche di queste persone, povere e modeste, a cui egli si rivolgeva, molto spesso erano dedite ai vizi e compivano azioni criminali. Con pazienza insegnava loro a pregare, incoraggiandole a migliorare il loro modo di vivere. Alfonso ottenne ottimi risultati: nei quartieri più miseri della città si moltiplicavano gruppi di persone che, alla sera, si riunivano nelle case private e nelle botteghe, per pregare e per meditare la Parola di Dio, sotto la guida di alcuni catechisti formati da Alfonso e da altri sacerdoti, che visitavano regolarmente questi gruppi di fedeli. Quando, per desiderio dell’arcivescovo di Napoli, queste riunioni vennero tenute nelle cappelle della città, presero il nome di “cappelle serotine”. Esse furono una vera e propria fonte di educazione morale, di risanamento sociale, di aiuto reciproco tra i poveri: furti, duelli, prostituzione finirono quasi per scomparire.

Anche se il contesto sociale e religioso dell’epoca di sant’Alfonso era ben diverso dal nostro, le “cappelle serotine” appaiono un modello di azione missionaria a cui possiamo ispirarci anche oggi per una “nuova evangelizzazione”, particolarmente dei più poveri, e per costruire una convivenza umana più giusta, fraterna e solidale. Ai sacerdoti è affidato un compito di ministero spirituale, mentre laici ben formati possono essere efficaci animatori cristiani, autentico lievito evangelico in seno alla società.

Dopo aver pensato di partire per evangelizzare i popoli pagani, Alfonso, all’età di 35 anni, entrò in contatto con i contadini e i pastori delle regioni interne del Regno di Napoli e, colpito dalla loro ignoranza religiosa e dallo stato di abbandono in cui versavano, decise di lasciare la capitale e di dedicarsi a queste persone, che erano povere spiritualmente e materialmente. Nel 1732 fondò la Congregazione religiosa del Santissimo Redentore, che pose sotto la tutela del vescovo Tommaso Falcoia, e di cui successivamente egli stesso divenne il superiore. Questi religiosi, guidati da Alfonso, furono degli autentici missionari itineranti, che raggiungevano anche i villaggi più remoti esortando alla conversione e alla perseveranza nella vita cristiana soprattutto per mezzo della preghiera. Ancor oggi i Redentoristi, sparsi in tanti Paesi del mondo, con nuove forme di apostolato, continuano questa missione di evangelizzazione. A loro penso con riconoscenza, esortandoli ad essere sempre fedeli all’esempio del loro santo Fondatore.

Stimato per la sua bontà e per il suo zelo pastorale, nel 1762 Alfonso fu nominato Vescovo di Sant’Agata dei Goti, ministero che, in seguito alle malattie da cui era afflitto, lasciò nel 1775, per concessione del Papa Pio VI. Lo stesso Pontefice, nel 1787, apprendendo la notizia della sua morte, avvenuta dopo molte sofferenze, esclamò: “Era un santo!”. E non si sbagliava: Alfonso fu canonizzato nel 1839, e nel 1871 venne dichiarato Dottore della Chiesa. Questo titolo gli si addice per molteplici ragioni. Anzitutto, perché ha proposto un ricco insegnamento di teologia morale, che esprime adeguatamente la dottrina cattolica, al punto che fu proclamato dal Papa Pio XII “Patrono di tutti i confessori e i moralisti”. Ai suoi tempi, si era diffusa un’interpretazione molto rigorista della vita morale anche a motivo della mentalità giansenista che, anziché alimentare la fiducia e la speranza nella misericordia di Dio, fomentava la paura e presentava un volto di Dio arcigno e severo, ben lontano da quello rivelatoci da Gesù. Sant’Alfonso, soprattutto nella sua opera principale intitolata Teologia Morale, propone una sintesi equilibrata e convincente tra le esigenze della legge di Dio, scolpita nei nostri cuori, rivelata pienamente da Cristo e interpretata autorevolmente dalla Chiesa, e i dinamismi della coscienza e della libertà dell’uomo, che proprio nell’adesione alla verità e al bene permettono la maturazione e la realizzazione della persona. Ai pastori d’anime e ai confessori Alfonso raccomandava di essere fedeli alla dottrina morale cattolica, assumendo, nel contempo, un atteggiamento caritatevole, comprensivo, dolce perché i penitenti potessero sentirsi accompagnati, sostenuti, incoraggiati nel loro cammino di fede e di vita cristiana. Sant’Alfonso non si stancava mai di ripetere che i sacerdoti sono un segno visibile dell’infinita misericordia di Dio, che perdona e illumina la mente e il cuore del peccatore affinché si converta e cambi vita. Nella nostra epoca, in cui vi sono chiari segni di smarrimento della coscienza morale e – occorre riconoscerlo – di una certa mancanza di stima verso il Sacramento della Confessione, l’insegnamento di sant’Alfonso è ancora di grande attualità.

Insieme alle opere di teologia, sant’Alfonso compose moltissimi altri scritti, destinati alla formazione religiosa del popolo. Lo stile è semplice e piacevole. Lette e tradotte in numerose lingue, le opere di sant’Alfonso hanno contribuito a plasmare la spiritualità popolare degli ultimi due secoli. Alcune di esse sono testi da leggere con grande profitto ancor oggi, come Le Massime eterne, Le glorie di Maria, La pratica d’amare Gesù Cristo, opera – quest’ultima – che rappresenta la sintesi del suo pensiero e il suo capolavoro. Egli insiste molto sulla necessità della preghiera, che consente di aprirsi alla Grazia divina per compiere quotidianamente la volontà di Dio e conseguire la propria santificazione. Riguardo alla preghiera egli scrive: “Dio non nega ad alcuno la grazia della preghiera, con la quale si ottiene l’aiuto a vincere ogni concupiscenza e ogni tentazione. E dico, e replico e replicherò sempre, sino a che avrò vita, che tutta la nostra salvezza sta nel pregare”. Di qui il suo famoso assioma: “Chi prega si salva” (Del gran mezzo della preghiera e opuscoli affini. Opere ascetiche II, Roma 1962, p. 171). Mi torna in mente, a questo proposito, l’esortazione del mio predecessore, il Venerabile Servo di Dio Giovanni Paolo II: “Le nostre comunità cristiane devono diventare «scuole di preghiera»... Occorre allora che l’educazione alla preghiera diventi un punto qualificante di ogni programmazione pastorale” (Lett. ap. Novo Millennio ineunte, 33,34).

Tra le forme di preghiera consigliate fervidamente da sant’Alfonso spicca la visita al Santissimo Sacramento o, come diremmo oggi, l’adorazione, breve o prolungata, personale o comunitaria, dinanzi all’Eucaristia. “Certamente – scrive Alfonso – fra tutte le devozioni questa di adorare Gesù sacramentato è la prima dopo i sacramenti, la più cara a Dio e la più utile a noi... Oh, che bella delizia starsene avanti ad un altare con fede... e presentargli i propri bisogni, come fa un amico a un altro amico con cui si abbia tutta la confidenza!” (Visite al SS. Sacramento ed a Maria SS. per ciascun giorno del mese. Introduzione). La spiritualità alfonsiana è infatti eminentemente cristologica, centrata su Cristo e il Suo Vangelo. La meditazione del mistero dell’Incarnazione e della Passione del Signore sono frequentemente oggetto della sua predicazione. In questi eventi, infatti, la Redenzione viene offerta a tutti gli uomini “copiosamente”. E proprio perché cristologica, la pietà alfonsiana è anche squisitamente mariana. Devotissimo di Maria, egli ne illustra il ruolo nella storia della salvezza: socia della Redenzione e Mediatrice di grazia, Madre, Avvocata e Regina. Inoltre, sant’Alfonso afferma che la devozione a Maria ci sarà di grande conforto nel momento della nostra morte. Egli era convinto che la meditazione sul nostro destino eterno, sulla nostra chiamata a partecipare per sempre alla beatitudine di Dio, come pure sulla tragica possibilità della dannazione, contribuisce a vivere con serenità ed impegno, e ad affrontare la realtà della morte conservando sempre piena fiducia nella bontà di Dio.

Sant’Alfonso Maria de’ Liguori è un esempio di pastore zelante, che ha conquistato le anime predicando il Vangelo e amministrando i Sacramenti, unito ad un modo di agire improntato a una soave e mite bontà, che nasceva dall’intenso rapporto con Dio, che è la Bontà infinita. Ha avuto una visione realisticamente ottimista delle risorse di bene che il Signore dona ad ogni uomo e ha dato importanza agli affetti e ai sentimenti del cuore, oltre che alla mente, per poter amare Dio e il prossimo.

In conclusione, vorrei ricordare che il nostro Santo, analogamente a san Francesco di Sales – di cui ho parlato qualche settimana fa – insiste nel dire che la santità è accessibile ad ogni cristiano: “Il religioso da religioso, il secolare da secolare, il sacerdote da sacerdote, il maritato da maritato, il mercante da mercante, il soldato da soldato, e così parlando d’ogni altro stato” (Pratica di amare Gesù Cristo. Opere ascetiche I, Roma 1933, p. 79). Ringraziamo il Signore che, con la sua Provvidenza, suscita santi e dottori in luoghi e tempi diversi, che parlano lo stesso linguaggio per invitarci a crescere nella fede e a vivere con amore e con gioia il nostro essere cristiani nelle semplici azioni di ogni giorno, per camminare sulla strada della santità, sulla strada strada verso Dio e verso la vera gioia. Grazie.

APPELLO

Depuis longtemps, ma pensée va souvent aux populations de la Côte d’Ivoire, traumatisées par de douloureuses luttes internes et de graves tensions sociales et politiques.

Alors que j’exprime ma proximité à tous ceux qui ont perdu un être cher et souffrent de la violence, je lance un appel pressant afin que soit engagé le plus vite possible un processus de dialogue constructif pour le bien commun. L’opposition dramatique rend plus urgent le rétablissement du respect et de la cohabitation pacifique. Aucun effort ne doit être épargné dans ce sens.

Avec ces sentiments, j’ai décidé d’envoyer dans ce noble Pays, le Cardinal Peter Kodwo Turkson, Président du Conseil pontifical “Justice et Paix”, afin qu’il manifeste ma solidarité et celle de l’Église universelle aux victimes du conflit, et encourage à la réconciliation et à la paix.



Saluti:

Je salue avec joie les pèlerins francophones venus de Grèce, France et Suisse! Durant ce temps de carême, tout chrétien est appelé à la sainteté. Par la prière, par l’amour pour Jésus présent dans l’Eucharistie et par la pratique du sacrement de la réconciliation, vous vous sanctifierez et vous changerez le visage de l’humanité! Avec ma bénédiction!

I greet all the English-speaking pilgrims present at today’s Audience, especially those from England, Norway, Japan, the Philippines and the United States. To the choirs I express my gratitude for their praise of God in song. Upon all of you I cordially invoke the Lord’s blessings of joy and peace.

Von Herzen grüße ich alle deutschsprachigen Pilger, heute besonders das Präsidium des Österreichischen Gemeindebundes. Danken wir dem Herrn, der in seiner Vorsehung zu allen Zeiten Heilige wie Alfons Maria von Liguori erweckt, die uns einladen, im Glauben zu wachsen und mit Liebe und Freude unsere christliche Berufung zu leben. Sie zeigen uns durch ihr Leben, daß die Bindung an die Wahrheit und an das Gute zur Reife und zur wahren Selbstverwirklichung führt. Der Herr schenke uns allen dazu seine Gnade.

Saludo cordialmente a los peregrinos de lengua española, en particular a los alumnos del Seminario menor de Getafe, así como a los grupos provenientes de España, Chile, México y otros países latinoamericanos. Que a ejemplo de san Alfonso María de Ligorio recorramos con alegría nuestro camino de conversión y santidad, y pidamos al Señor que suscite en nuestro tiempo santos y doctores que sepan proponer a todos de una manera sencilla e incisiva el mensaje de Cristo y la belleza de su vida. Muchas gracias.

Amados peregrinos de língua portuguesa, queridos fiéis da paróquia de Santa Maria do Barreiro, na diocese de Setúbal: a minha saudação amiga para todos vós, com votos de um frutuoso empenho na caminhada quaresmal que estais fazendo. Que nada vos impeça de viver e crescer na amizade de Deus, e testemunhar a todos a sua bondade e misericórdia! Sobre vós e vossas famílias, desça a minha Bênção Apostólica.

Saluto in lingua polacca:

Serdecznie pozdrawiam polskich pielgrzymów, a szczególnie członków Polskiego Związku Niewidomych, który obchodzi sześćdziesięciolecie swego powstania, jak również dziennikarzy, którzy przygotowują się do relacjonowania wydarzeń związanych z beatyfikacją Jana Pawła II. Wszystkim tu obecnym życzę owocnego przeżywania Wielkiego Postu. Niech Bóg wam błogosławi.

Traduzione italiana:

Saluto cordialmente i pellegrini polacchi, in particolare i membri dell’Associazione Polacca dei Ciechi, che festeggia il 60° anniversario di fondazione, nonché i giornalisti che si preparano a divulgare gli eventi legati alla beatificazione di Giovanni Paolo II. A tutti auguro di vivere la Quaresima fruttuosamente. Dio vi benedica!

Saluto in lingua slovacca:

Srdečne pozdravujem pútnikov zo Slovenska, osobitne z Kňažej ako aj študentov a pedagógov Právnickej fakulty Univerzity Mateja Bela z Banskej Bystrice.
Bratia a sestry, v tejto pôstnej dobe je každý z nás pozvaný k vnútornej obnove, k zmiereniu s Bohom i s ľuďmi.
Prajem vám, aby aj táto púť do Ríma vám pomohla k nastúpeniu tejto cesty obnovy.
Ochotne žehnám vás i vaše rodiny vo vlasti.
Pochválený buď Ježiš Kristus!

Traduzione italiana:

Saluto cordialmente i pellegrini provenienti dalla Slovacchia, particolarmente quelli da Kňažia come pure gli studenti e i docenti della Facoltà di Diritto dell’Università Matej Bel di Banská Bystrica.
Fratelli e sorelle, in questo tempo di Quaresima ognuno di noi è chiamato al rinnovamento interiore, alla riconciliazione con Dio e con gli uomini. Vi auguro che il pellegrinaggio a Roma vi aiuti a percorrere questo cammino di rinnovamento.
Volentieri benedico voi e le vostre famiglie in Patria.
Sia lodato Gesù Cristo!

Saluto in lingua ucraina:

З великою радістю вітаю сьогодні Блаженнішого Святослава Шевчука, нового Верховного Архиєпископа Києво-Галицького, разом з єпископами та вірними, які його супроводжують. Запевняю мою постійну молитву, щоб Пресвята Тройця уділяла повноту дарів, зберігаючи в мирі та злагоді любий український народ.

Traduzione italiana:

[Ho la gioia di salutare oggi Sua Beatitudine Sviatoslav Shevchuk, nuovo Arcivescovo Maggiore di Kyiv-Halych, i Vescovi e i fedeli della Chiesa Greco-Cattolica Ucraina, che l’accompagnano. Assicuro la mia costante preghiera, perché la Santissima Trinità conceda abbondanza di beni, confermando nella pace e nella concordia l’amata nazione ucraina.]

Beatitudine, il Signore L’ha chiamata al servizio e alla guida di questa nobile Chiesa, parte di quel popolo che oltre mille anni fa ha ricevuto il Battesimo a Kyiv. Sono certo che, illuminato dall’azione dello Spirito Santo, presiederà la sua Chiesa, guidandola nella fede in Cristo Gesù secondo la propria tradizione e spiritualità, in comunione con la Sede di Pietro, che è vincolo visibile di quella unità per la quale tanti figli non hanno esitato ad offrire persino la propria vita.

In questo momento il mio grato ricordo va anche al Venerato fratello Sua Beatitudine il Card. Lubomyr Husar, Arcivescovo Maggiore emerito.

Per intercessione della Vergine Maria, Madre di Dio, invoco la benedizione del Signore su di Lei, sui Vescovi, i sacerdoti, i religiosi e le religiose e su tutti i fedeli.

Слава Ісусу Христу!

[Sia lodato Gesù Cristo!]

* * *

Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. In particolare saluto i fedeli di Acqui, accompagnati dal loro Pastore Mons. Giorgio Micchiardi e dal Vescovo emerito Mons. Livio Maritano, e qui convenuti nel ricordo della loro conterranea, la beata Chiara Badano. Cari amici, vi invito, sull'esempio della vostra Beata, a proseguire nell'impegno di adesione a Cristo e al Vangelo. Saluto i diaconi dell’Arcidiocesi di Milano, che saranno ordinati sacerdoti nel prossimo mese di giugno, ed auguro loro di essere pienamente conformati a Cristo Buon Pastore. Saluto i fedeli della parrocchia Santissimo Nome di Maria in Caserta, nel 25° anniversario di fondazione della loro comunità, incoraggiandoli a proseguire con gioia nell’impegno di evangelizzazione. Saluto i rappresentanti della Lega Italiana Calcio Professionistico e auspico che l’attività sportiva favorisca sempre i valori dell’amicizia, del rispetto e della solidarietà.

Il mio pensiero va infine ai giovani, ai malati e agli sposi novelli. Il tempo quaresimale, con i suoi ripetuti inviti alla conversione, vi conduca, cari giovani, a un amore sempre più consapevole verso Cristo e la sua Chiesa; aumenti in voi, cari malati, la certezza che il Signore crocifisso ci sostiene nella prova; aiuti voi, cari sposi novelli, a fare della vostra vita coniugale un cammino di costante crescita nell’amore fedele e generoso.

© Copyright 2011 - Libreria Editrice Vaticana


martedì 29 marzo 2011

Il patriarca di Cipro rilancia Ratisbona: “Se B-XVI potesse alzerebbe la voce” (Paolo Rodari)


Il patriarca di Cipro rilancia Ratisbona:
“Se B-XVI potesse alzerebbe la voce”


Sua beatitudine Chrysostomos II, primate della chiesa ortodossa di Cipro (fondata dall’apostolo Barnaba, è la più antica comunità cristiana dopo Gerusalemme) è appena uscito col suo lungo abito nero quaresimale dall’appartamento del Papa. Dice: “Il motivo della visita è soltanto uno, chiedere ancora una volta aiuto. Al Papa e tramite il Papa alla comunità europea affinché faccia qualcosa per i cristiani costretti come noi, e come tutti in medio oriente, a vivere sotto lo scacco di regimi militari che dietro una parvenza di democrazia intendono esclusivamente islamizzare ogni cosa”.


Cipro nel 1974 ha subìto l’invasione turca. Metà isola andò in mano ad Ankara che attraverso coloni illegali ha ripopolato un territorio un tempo in mano ai ciprioti. Dice Chrysostomos: “In Europa c’è chi crede che la Turchia sia un paese democratico e pronto all’entrata nella comunità. Io dico a questa gente: aprite gli occhi. Venite a Cipro a vedere le nostre chiese distrutte e ridotte a porcili. Nessuno può dire messa. Nessuno è libero di tornare nelle proprie case. E’ questa democrazia?”.

Spiega Chrysostomos che Benedetto XVI è informatissimo delle difficoltà che i cristiani vivono a Cipro e che “se potesse alzerebbe la voce”. Cioè? “Ha capito che le dichiarazioni di fuoco purtroppo non servono a nulla. Ha capito che non sempre si può dire fino in fondo ciò che si pensa. E così ci aiuta per come può. A Ratisbona nel 2006 fu molto chiaro: l’islam deve rinunciare alla violenza, deve rinunciare a usare il nome di Dio per giustificare il proprio odio religioso. Beninteso, conosco tutti i leader mediorientali delle diverse comunità islamiche e la maggior parte è gente di buon senso. Ma, mi domando: sono capaci di emarginare i violenti? Sono capaci di calmierare i predicatori dell’odio che, piaccia o no, fanno parte delle loro stesse comunità?”.


Probabilmente non è un caso che Chrysostomos sia arrivato a Roma mentre, sotto l’egida dell’Onu e con il coinvolgimento della Nato, diversi paesi intervengono militarmente in Libia. Dice: “Spesso i paesi occidentali svolgono azioni militari in nome della difesa dei diritti umani. E’ avvenuto in Iraq, in Afghanistan. Ora, senza arrivare alla guerra, perché questi stessi paesi così solerti nell’esportazione della democrazia non provano a spingere la Turchia a cambiare? Perché non la costringono ad adeguarsi a uno stile di vita veramente moderno ed europeo? In Italia giustamente siete preoccupati per l’arrivo di migliaia di profughi dalla Libia. Ma voi potete decidere quale strategia adottare. Potete accogliere i profughi oppure rimandarli indietro se la situazione divenisse insostenibile. Noi no. Noi non possiamo fare nulla. Hanno occupato le nostre case, sventrato i nostri orti, la terra dove i nostri nonni sono cresciuti. I coloni occupano tutto, anche le case dei turco ciprioti ai quali venne concesso nel 1974 di restare nelle proprie abitazioni. Anche loro sono vittime del regime islamico turco. E’ una grave ingiustizia sulla quale la religione islamica dovrebbe fare un grosso esame di coscienza. L’islam avanza e prende sempre più terreno. A Cipro siamo più esposti di voi ma è un problema che riguarda tutta l’Europa”.

Palazzo Apostolico di Paolo Rodari 29 marzo 2011


lunedì 28 marzo 2011

Una comunità solidale che riparte dalla vita e dalla famiglia (Angelo Bagnasco)


La prolusione al Consiglio permanente del cardinale presidente
della Conferenza episcopale italiana

Una comunità solidale
che riparte dalla vita e dalla famiglia


Pubblichiamo la prolusione tenuta dal cardinale presidente della Conferenza episcopale italiana per l'apertura, a Roma, del Consiglio permanente, che terminerà il 31 marzo.

di Angelo Bagnasco

Venerati e Cari Confratelli,

in nomine Domini: abbiamo invocato il nome del Signore per identificare la giusta prospettiva dei lavori di questa sessione primaverile del Consiglio Permanente, avendo sullo sfondo eventi cari al nostro popolo, o che interessano popoli fratelli. La riflessione che qui avviamo vorrebbe attivare pensieri e accendere speranze più forti delle preoccupazioni che pure li attraversano. È tutta la comunità cristiana ad essere in qualche modo chiamata a ponderare le situazioni nelle quali si incarna l’annuncio del Vangelo e che ad un tempo interpellano la coscienza di noi Pastori.

Il nostro pensiero, e soprattutto la nostra preghiera, in queste settimane si sono insistentemente rivolti a Dio, in particolare per il popolo giapponese duramente colpito da un violento sisma e ancor più devastante tsunami. Nell’ora più grave, i giapponesi hanno dato al mondo una lezione formidabile di compostezza, determinazione e solidità. È quella che, con espressione efficace, è stata definita «la disciplina del dolore». Dolore che comunque siamo chiamati ad alleviare con i mezzi in nostro possesso. Quanto ancora ci è possibile fare, tramite la Caritas e in collegamento con la Conferenza episcopale locale, lo faremo; sicuri come siamo che ogni italiano avverte il Giappone vicinissimo oggi al proprio cuore. A fronte di un simile cataclisma, dovremmo riscoprire tutti il senso della nostra costitutiva finitezza, della intrinseca fragilità delle cose, e quindi sentirci più umili, più vicini, più solidali.

1. Questa convocazione è al centro del tempo quaresimale, per antonomasia tempo «forte» perché «propizio» alla conversione a cui apre (cfr Benedetto XVI, Omelia del Mercoledì delle Ceneri, 9 marzo 2011). Il Messaggio che per l’occasione il Santo Padre ha indirizzato alla comunità credente mette in evidenza «il nesso particolare» che lega il Battesimo alla Quaresima «come momento favorevole per sperimentare la Grazia che salva» (n. 1). «Il fatto che nella maggioranza dei casi – osserva il Papa – il Battesimo si riceva da bambini mette in evidenza che si tratta di un dono di Dio: nessuno merita la vita eterna con le proprie forze» (ib). Vitae spiritualis ianua - «vestibolo d’ingresso alla vita nello Spirito»-, dice del Battesimo il Catechismo della Chiesa Cattolica (1213), evento cioè in forza del quale avviene «l’incontro con Cristo che informa tutta l’esistenza del battezzato, gli dona la vita divina e lo chiama ad una conversione sincera […], che lo porti a raggiungere la statura adulta del Cristo» (Messaggio cit.). Di questo itinerario finalizzato alla Pasqua di Risurrezione, il Papa indica le tappe fondamentali, simboleggiate negli elementi battesimali intrinseci alla liturgia quaresimale e coincidenti con le narrazioni evangeliche delle singole domeniche secondo il Lezionario dell’Anno A. Tali letture riflettono al meglio il carattere originario di questo tempo, offrendo un percorso simile al catecumenato, come palestra di fede e di vita cristiana per compiere nuovi e decisivi passi nella sequela di Cristo e nel dono più pieno a Lui. Lo sbocco coincide con l’ingresso nel «mistero», cioè nella conoscenza progressiva del piano nascosto nei secoli in Dio e che Dio stesso intende svelare ai suoi amici (cfr 1Col 1, 24-26): l’uomo è creato per la risurrezione e la vita che non muore, e non lui soltanto, ma anche il creato e la storia nelle sue esplicazioni più autentiche. Non c’è spazio per rimpianti né per nostalgie. «In linea di massima si può dire – scrive un autore orientale del XIV secolo – che la grazia infonde nell’anima la percezione dei beni divini: dando a gustare grandi cose, ne fa sperare di ancora più grandi e, fondandosi sui beni già ora presenti, ispira ferma fede in quelli ancora invisibili» (Cabasilas, La vita in Cristo, 721°, Classici Utet, 1971). Le pratiche tipiche del tempo quaresimale − il digiuno, l’elemosina, la preghiera − sono prove volte alla purificazione, in vista di un oltre, il passaggio cioè del Mar Rosso verso la Terra promessa, dall’infanzia all’adultità cristiana, conquista vera e non effetto automatico di un regalo che resta esterno a noi stessi. Con Dio si gioca sempre nel campo della libertà, e nulla può essere dato per scontato. «Il Battesimo non produce automaticamente una vita coerente: questa è frutto della volontà e dell’impegno perseverante di collaborare con il dono, con la Grazia ricevuta. E questo impegno costa, c’è un prezzo da pagare di persona» (Benedetto XVI, Lectio Divina nella visita al Seminario Romano Maggiore, 4 marzo 2011). Strana dunque l’idea che la conversione sia un atteggiamento di debolezza, per psicologie tristi. In realtà è il passaggio dall’opacità, dal grigiore, dall’ombra alla luce. Il Papa non attenua lo scarto: per attuare una conversione profonda bisogna lasciar operare dentro di noi una trasformazione che in realtà solo l’azione dello Spirito può compiere per davvero, grazie alla nostra quotidiana disponibilità per giungere ad «orientare la nostra esistenza secondo la volontà di Dio, liberarci dal nostro egoismo, superando l’istinto di dominio sugli altri e aprendoci alla carità di Dio» (Messaggio cit., n. 3). Nel cammino liturgico verso la Pasqua, quest’anno Papa Benedetto XVI ha offerto alla Chiesa un altro aiuto, promesso e atteso: la seconda parte del suo libro su Gesù di Nazaret. L’itinerario del testo, che congiunge “l’esegesi della fede” e “l’esegesi storica” completandole con le grandi intuizioni dell’esegesi patristica, va dall’ingresso di Gesù in Gerusalemme fino alla risurrezione. La temperatura delle pagine è sempre alta e vibrante pur nella pacatezza sobria della parola: la lettura attenta e continua prende l’intelligenza e alimenta la meditazione dell’anima, diventa occasione dell’incontro con Gesù, nutre la fede. Non sono forse queste le premesse e le condizioni per quel cammino di conversione a cui la Quaresima chiama e sollecita? Siamo grati a Benedetto XVI per questo dono, certi che porterà, con la grazia dello Spirito, frutti di luce e di amore.

Ci piace – particolarmente in questo tempo – pensare alle nostre parrocchie come a palestre dello Spirito, dove non si gestiscono burocraticamente incontri ed impegni, ma avvengono miracoli perché si cerca il Signore, ci si imbatte con il suo sguardo, ci si sente raccolti nella sua mano, e se ne ricava la vita trasformata, non più sottomessa al conformismo o sofferente per il giudizio altrui. Ai nostri amati Sacerdoti – che, in questo tempo e in varie parti, sappiamo essere impegnati nella benedizione delle famiglie − diciamo grazie per ciò che sono e per quel che sempre di più, nonostante l’età e il numero più contratto, assicurano alle loro comunità. Il mistero di Dio che in ogni comunità si celebra, i beni spirituali che si «amministrano», a cominciare dal perdono cercato anche nel sacramento della Penitenza, la preghiera cui si partecipa, l’accoglienza e le altre virtù che si coltivano, ci consentono di scorgere nell’ordinarietà della vita pastorale non una distesa polverosa di gesti ripetitivi, ma un campo seminato a Grazia, dunque quanto mai vitale e dinamico, perché aperto sul futuro, al Signore che sempre viene. Convertirsi, cambiare vita è verbo tra i più nobili, impegno tra i più alti, premessa la più affidabile. Vorremmo dire ai nostri connazionali che qui, a questo livello, sta anzitutto il contributo alla vita sociale a cui i credenti tengono di più, che sentono più intensamente e che meglio esprime il senso e il fervore delle loro intenzioni.

2. È noto come la nostra Conferenza abbia voluto per tempo esprimere la convinta e responsabile partecipazione della comunità ecclesiale all’evento del 150° anniversario dell’Unità d’Italia, e ciò in spirito di leale collaborazione per la promozione dell’uomo e il bene del Paese tutto. Sentivamo il dovere, come Vescovi, di dare pubblica attestazione del sentimento genuino e forte che lega la Chiesa, da duemila anni pellegrina su questo territorio, alla collettività italiana e alla forma statuale e nazionale che essa ha voluto darsi ad un certo punto della sua storia. E la solenne Eucaristia, vissuta il 17 marzo nella basilica romana di Santa Maria degli Angeli, concelebrata insieme ai Presidenti delle Conferenze episcopali regionali e da vari Confratelli, questo ha inteso affermare alla presenza del Capo dello Stato e delle massime Autorità della Repubblica. Non dunque un gesto di concordismo vago e sfuocato, ma l’atto che «racchiude tutto il bene spirituale della Chiesa, cioè lo stesso Cristo» (Presbyterorum Ordinis, n. 5) che, offrendosi al Padre quale vittima di espiazione ed intercessione, diventa pane vivo spezzato per gli uomini, in tal modo invitati a offrire – assieme a Lui – anche se stessi a bene dell’intera comunità umana. In quella Eucaristia, infatti, abbiamo inteso raccogliere le intenzioni dei credenti e, in un certo senso, dell’intero Paese, portando all’Altare il pentimento per i nostri peccati, i nostri ritardi, le nostre omissioni; e insieme la nostra offerta di grazie per la vocazione singolare che il Signore Iddio, nella sua provvidenza, ha inteso assegnare a questa terra benedetta e per i talenti elargiti alla Nazione nell’intero arco della storia. In particolare per l’unità raggiunta 150 anni or sono e da allora perseguita, tra alterne vicende eppure con partecipato impegno, fino ad oggi. Ringraziarlo altresì per il comune sentire cristiano, come per i molteplici scambi e le concrete esperienze di fraternità che assai prima del 1861 hanno tenuto insieme l’Italia quale realtà unica, e non solo per la sua configurazione geografica; e per le innumerevoli storie di dedizione laicale e sacerdotale, per le decine e decine di istituti religiosi, per le associazioni e i movimenti che, sorti dal popolo, hanno dal basso ordito il tessuto che ci mantiene uniti. E ancora lo si è ringraziato per quanti – civili e militari – hanno lungo i secoli dato la propria vita per la libertà e il riscatto del popolo italiano: per la loro eterna beatitudine supplichiamo il Signore. Abbiamo infine rinnovato l’impegno a servire l’Italia, e ad amarla nel disinteresse di parte e secondo l’esclusiva ottica del vero bene comune. Amarla ridestando l’attenzione verso i capisaldi della sua cultura, chinandoci specialmente sugli abitanti più deboli e sulle fasce di popolazione più bisognosa, e dedicando ancora le energie migliori a quel compito dell’educare che è trasmissione di vita e di visione. Il Messaggio che il Santo Padre ha, per l’occasione, indirizzato al Presidente della Repubblica, onorevole Giorgio Napolitano, è un dono per tutti e rappresenta un contributo significativo alla rilettura del processo unitario, inteso «non come artificiosa costruzione politica di identità diverse, ma come naturale sbocco politico di una identità nazionale forte e radicata, sussistente da tempo» e alla quale il cristianesimo «ha contribuito in maniera fondamentale».

Un auspicio vorremmo esprimere per il tempo che ora si apre. E riguarda quel sentimento di consapevole solidarietà che non può non legare tra loro anzitutto i cittadini della stessa nazione. Pare a noi infatti – e lo esprimiamo quasi sottovoce − che negli ultimi decenni questo sentimento sia andato affievolendosi, diventando vieppiù esile e a momenti quasi impalpabile. Come se dovesse essere fatale, ad un certo punto, lasciarsi anche noi prendere da quella sindrome degli “arrivati”, secondo cui una volta che è stata raggiunta una certa soglia di benessere e sicurezza, debba venir meno la buona tensione che ci fa essere vigili per non perdere proprio i valori che concorrono oggi a darci un volto, e in passato hanno fatto la nostra storia. E per non allentare quella capacità di sacrificio al fine – quei valori – di custodirli e alimentarli. Siamo preoccupati per ciò che sta producendo quell’idea di individualismo secondo cui il singolo si sente come chi non deve nulla ad alcuno e non ha relazioni impegnative verso gli altri, quasi fosse senza genealogia e non sentisse alcuna responsabilità generativa verso il domani. Per quanto si tenti anche con sforzo culturale onesto di riscattarlo, l’individualismo odierno − una volta entrato in commistione con la spinta narcisistica − non può non contorcersi in una versione anti-sociale. Così temiamo abbia ragione chi osserva che è oggi in gioco «un intero paradigma antropologico», quello costruito su «una relazione feconda di umanità», feconda anche di figli e di opere, «che ha il senso della provenienza e guarda avanti, perché sa che la vita si conserva solo trasmettendosi, generando e rigenerando l’umano in tutte le sue dimensioni» (Francesco Botturi, Avvenire, 20 gennaio 2011). Si comprende, tra l’altro, il motivo per cui il nostro Comitato per il Progetto culturale abbia, insieme a noi, identificato nella rarefazione demografica il tema che merita di essere considerato nell’occasione del suo prossimo Rapporto. Se vuole un suo domani, l’Italia non può non battersi per fronteggiare le derive dell’individualismo più esasperato e radicale, come non può affidarsi solamente alle relazioni di solidarietà e fecondità riscontrabili, per fortuna, tra gli immigrati.

3. Molte delle comuni preoccupazioni, in questi ultimi mesi, sono state assorbite dai fatti che stanno interessando i Paesi del Nordafrica. Eventi che neppure gli analisti più avveduti avevano previsto, si sono succeduti in quella regione, rivelandosi uno come miccia dell’altro. Dapprima la Tunisia, poi l’Algeria, quindi l’Egitto e infine, ma non ultima, la Libia. In sostanza, tutti i Paesi situati sulla costa africana del Mediterraneo, non escluso il Marocco, sono stati in un modo o nell’altro toccati quando non sconvolti da moti insurrezionali popolari, che hanno prodotto esiti per ogni situazione diversi, e comunque tuttora provvisori, perché suscettibili di evoluzioni imprevedibili come il caso libico drammaticamente dimostra. Oltre che nelle Nazioni citate, si sono registrate turbolenze in almeno un’altra decina di Paesi, coincidenti perlopiù nella penisola arabica a cominciare dallo Yemen, ma anche in Giordania e specialmente in Siria. Al Vescovo di Tripoli, S.E. Mons. Giovanni Innocenzo Martinelli, ho avuto l’opportunità di esprimere personalmente – via telefono – la vicinanza dell’Episcopato italiano e delle nostre comunità: la preghiera fervente e operosa accompagna non solo i cattolici e i cristiani di quel Paese, ma tutto il popolo della Libia e oltre. Ci si è molto interrogati sull’incubazione − occulta o meno − di queste vicende, nello sforzo di individuare l’evento-detonatore in una o l’altra delle turbolenze precedenti, ma certo dovendo ammettere, da parte delle opinioni pubbliche dell’Occidente, un evidente deficit di conoscenza circa la situazione interna ai vari Paesi. In realtà, per registrare esiti tanto vasti e partecipati, deve aver a lungo covato qualche febbre non irrilevante, senza che sollevasse tuttavia particolari allarmi. Eppure, viene detto oggi, qualche crepitio si sarebbe potuto cogliere se si fosse tenuto lo sguardo rivolto sulla vitalità dei popoli più che sull’immobilità dei regimi; se si fosse stati disposti a considerare gli indici antropologici più decisivi di quelli politici. I tempi di emersione possono risultare più o meno lunghi, incerti e travagliati, ma l’aspirazione umana alle libertà fondamentali, al riconoscimento della dignità personale, prima o poi emerge nella coscienza dei singoli e dei popoli, sospingendo su percorsi non sempre univoci e ad esiti non ovunque corrispondenti a quelli auspicati. L’andamento tendenzialmente pacifico che, per impronta dei cittadini, le manifestazioni avevano all’inizio assunto, ha indotto a sperare che il mutamento potesse compiersi al riparo dalla violenza. Oggi questa illusione sembra venuta meno. In ogni caso, l’intreccio tra emergenze concretissime, obiettivi politico-ideologici ed interessi economici, rende il quadro generale non solo complesso e complicato, ma anche confuso. Nel frattempo, di evidente ed indubitabile c’è a tutt’oggi il patire di tanta povera gente! E non ci si può non rammaricare per il ricorso alla forza che, contrapponendo tra loro i figli poveri di uno stesso popolo e di uno stesso continente, provoca dolore più grande e lutti – se possibile – ancora più drammatici. L’invocato e improvviso intervento internazionale − ideato sotto l’egida dell’Onu e condotto con il coinvolgimento della Nato − ha fatto sorgere interrogativi e tensioni. Ci uniamo alle accorate parole che il Santo Padre in più occasioni ha espresso di solidarietà a quelle popolazioni e di auspicio per un immediato superamento della fase cruenta: ad intervento ampiamente avviato, auspichiamo che si fermino le armi, e che venga preservata soprattutto l’incolumità e la sicurezza dei cittadini garantendo l’accesso agli indispensabili soccorsi umanitari, in un quadro di giustizia. Noi crediamo che la strada della diplomazia sia la via giusta e possibile, forse tuttora desiderata dalle parti in causa, premessa e condizione per individuare una “via africana” verso il futuro invocato soprattutto dai giovani. Ma anche per evitare possibili spinte estremiste che avrebbero esiti imprevedibili e gravi.

4. Cosa fare, dinanzi a simili rivolgimenti? Se l’interrogativo trascende per buona parte le nostre competenze, siamo però, oltre che Pastori, anche cittadini di questa Italia che si distende come una propaggine singolare al centro del Mediterraneo, tornato ad essere nevralgico per equilibri pacifici nel mondo. Tempo addietro ci trovammo ad osservare come la lingua di terra chiamata Italia sia naturalmente disposta a ponte verso altri continenti e altri popoli. Quasi che neppure i particolari in essa siano a caso e tutto concorra a determinare una vocazione specifica di questa terra e della nazione che in essa risiede. Ed è ciò che oggi torniamo a dire ai nostri concittadini: non ci è consentito di disinteressarci di quel che avviene fuori di noi, nelle coste non lontane dalle nostre. È un’illusione pensare di vivere in pace, tenendo a distanza popoli giovani, stremati dalle privazioni, e in cerca di un soddisfacimento legittimo per la propria fame. Coinvolgerci, e sentirci in qualche modo parte, rientra nell’unica strategia plausibile dal punto di vista morale ma − riteniamo − anche sotto il profilo economico-politico. L’interdipendenza è condizione ormai fuori discussione ed essa si fa ancora più cruciale e ineluttabile in forza delle vicinanze geografiche. Che però, nel nostro caso, riguardano l’Italia alla stessa stregua con cui riguardano l’Europa, di cui siamo parte: i confini costieri della prima infatti coincidono con i confini meridionali della seconda. L’emergenza dunque è comunitaria, e va affrontata nell’ottica di destinare risorse per uno sforzo di sviluppo straordinario, che non potrà non raccogliere poi benefici in termini di sicurezza complessiva. Continuare a ritenere interi popoli poveri come fastidiosi importuni non porterà lontano. Essi domandano, a loro modo, di partecipare alla fruizione dei beni materiali, mettendo a frutto la loro capacità di lavoro, e intanto chiedono ciò che finora non hanno potuto produrre. Nei nuovi scenari, è un’illusione riuscire a piantonare le coste di un continente intero. È l’ora dunque di attuare quelle politiche di vera cooperazione che sole possono convincere i nostri fratelli a restare nella loro terra, rendendola produttiva. Non si diceva forse, nel momento in cui ci si preparava a far fronte alla crisi economica internazionale, che sarebbe stata l’occasione per ridefinire le priorità e le scale di valore, in ordine alle scelte strategiche?

L’Italia ha esigenze di sicurezza e di stato sociale che non può disattendere e vincoli di compatibilità economica che pure vanno rispettati. Dinanzi alla nuova emergenza, ci si sta muovendo tra comprensibili difficoltà e qualche resistenza, al fine di offrire una prima accoglienza a quanti arrivano dall’Africa. Ma per predisporre soluzioni minimamente adeguate per gli sfollati, i profughi o i richiedenti asilo c’è bisogno, oltre che dell’apporto generoso delle singole Regioni d’Italia, anche della convergenza dell’Europa comunitaria, chiamata a passare – come giustamente si è detto – da una «partnership della convenienza» a quella della «convivenza». Tutta l’Europa è − non da oggi − in debito verso l’Africa, e deve ora operare per non rendere fallimentari gli sforzi di questi popoli in cammino verso approdi più democratici e rispettosi dei diritti dell’uomo. Bisogna avere l'intelligenza della storia, e un senso del dovere commisurato alla svolta in atto al fine di corrispondere immediatamente alle sfide in maniera concreta e attraverso misure confacenti. Quale sarà il traguardo di tanti fratelli e sorelle in umanità, esso beneficerà o danneggerà tutti. Come Chiesa, con l’umiltà dei nostri mezzi, siamo già in campo, e in particolare attraverso la Caritas Italiana si stanno rinforzando gli aiuti alle Caritas del Nordafrica, si sostiene una presenza fissa nei principali campi di raccolta, e si dà appoggio alle strutture delle Diocesi più esposte. Una particolare, fraterna vicinanza la vogliamo esprimere all’arcivescovo di Agrigento, S.E. Mons. Francesco Montenegro, che ha la cura pastorale dell’isola di Lampedusa, avamposto sospirato di tanti profughi. È noto che gli immigrati colà superano ormai la popolazione locale determinando − involontariamente − una condizione di generalizzato, profondo disagio. L’attività lavorativa della piccola comunità rischia di finire seriamente compromessa, tra le crescenti preoccupazioni delle famiglie. Nell’esprimere cordiale ammirazione per la generosità e il senso dell’accoglienza che da sempre contraddistingue la popolazione lampedusana, chiediamo ai Responsabili un ulteriore sforzo perché, avvalendosi di tutti gli strumenti anche comunitari, si dia sollievo all’isola e ai suoi abitanti. Non devono infatti sentirsi soli.

Si ha conferma che la stragrande maggioranza di coloro che arrivano sono giovani, al pari di quanti, attraverso le immagini della televisione, si sono visti e si vedono manifestare nelle piazze. In tal modo si profila un sottile problema di interfaccia tra coloro che, vogliosi di vita, spingono per entrare e la vecchia Europa che tenta di difendere i propri bastioni. Ma proprio qui si annida anche, sotto il profilo culturale, la carica più dirompente di questa emergenza.

5. Non possiamo tacere il nostro dolore per le vittime che si sono registrate, tra la popolazione copta dell’Egitto, in scontri successivi alla caduta del regime. In ciò, il dopo Mubarak non si è presentato per ora troppo diverso dalla precedente situazione, nonostante gli incoraggianti segnali di condivisione raccolti durante le manifestazioni di piazza. L’esito peraltro del referendum che lì già si è svolto induce a molta prudenza. A ciò vanno aggiunte le condizioni di abbandono in cui restano i cristiani dell’Iraq, ai quali vengono talora fatte promesse, senza che si esplichi poi alcuna concreta tutela. Lo stesso dicasi per il Pakistan, dove grande impressione ha suscitato l’attentato nel quale è rimasto ucciso il ministro per le minoranze religiose Bhatti, un cristiano ora martire che si era a lungo impegnato per abrogare le leggi discriminatorie, di cui la più drammaticamente nota è quella sulla blasfemia, a causa della quale è a rischio anche la vita di Asia Bibi. Realmente non si riesce a comprendere come un Paese grande e importante come il Pakistan possa tollerare una situazione di illegalità tanto clamorosa e pesante. L’episcopato pakistano ha pronunciato parole ferme e inequivocabili, e solidarietà forte ed esplicita è stata assicurata dal Papa, che ha parlato dell’atto proditorio come di «commovente sacrificio» (cfr Saluto all’Angelus, 6 marzo 2011). Ci uniamo anche noi a quella Chiesa che soffre e con lei intendiamo batterci perché nel mondo non si debba più piangere e morire a motivo della propria fede religiosa. Resta questo l’indicatore più credibile per lo sviluppo civile e sociale di una nazione. Non ci stancheremo di lavorare per un’educazione al dialogo e al rispetto, mentre continuiamo a condividere l’apprensione di Benedetto XVI per le tensioni interreligiose palesatesi in diversi Paesi dell’Asia e dell’Africa (cfr ib), implorando – come si è fatto comunitariamente domenica 13 marzo – misericordia per le vittime e per tutti riconciliazione, giustizia e pace. Dopo una titubanza incomprensibile quanto amara, e grazie al marcato impegno del nostro governo, l’Unione Europea ha finalmente condannato le discriminazioni religiose e gli attacchi condotti anche contro i cristiani. Bisogna ora che ci si batta in ogni sede internazionale per rendere, di conseguenza, inaccettabili le politiche che umiliano i cittadini, schiacciando ciò che nell’uomo è più sacro. È questo il crinale che, con più precisione, segna avanzamento o regressione sulla frontiera fondamentale dei diritti dell’uomo. Sullo scenario europeo un rilievo marcatissimo viene ad assumere la sentenza emessa dalla Grande Camera della Corte dei diritti dell’uomo che si è pronunciata sul ricorso presentato dall’Italia per la condanna − subita nel 2009 − a proposito dell’esposizione del crocifisso nelle scuole statali. E ciò pur riconoscendo che la scuola pubblica è, nel nostro Paese, aperta a tutti, senza discriminazioni di sorta. Un pronunciamento che da una parte riconosce come ogni Paese abbia il diritto di assegnare il giusto rilievo alla propria tradizione religiosa che è un fattore vivo, con un ruolo pubblico da svolgere. Dall’altra lascia intendere che il simbolo religioso non comporta in sé una lesione dei diritti. Ed è, anzi, elemento integrante l’identità italiana e dunque, a questo punto, anche europea.

Alla scuola dei Papi, la Chiesa non cessa di gettare ponti rispetto al baratro delle ingiustizie e delle mortificazioni che ancora affliggono fin troppi popoli. La sua è una preoccupazione che non alza bandiere, e non conosce secondi fini: unicamente sollecita la società ad aprirsi alla tolleranza e alla convivenza. Ognuno di noi, insieme ai nostri fedeli, è chiamato a vivere all’altezza della testimonianza di sangue di tanti nostri fratelli sparsi nel mondo.

Nel corso dell’inverno, e in ragione delle rigide temperature stagionali, ci sono stati alcuni episodi luttuosi che hanno visto amaramente soccombere persone disagiate che avevano cercato rifugio in siti di fortuna. Si sa che non è sempre facile intervenire nelle situazioni di disagio in modo efficace e risolutivo, e tuttavia questo non basta per arrendersi, per non tentare di farsi carico fino allo spasimo di ogni singola vita, mai tanto emarginata da essere compatibile con l’abbandono inesorabile. Analogamente occorre dire per i quattro bambini che, alla periferia di Roma, hanno trovato la morte nel rogo della loro baracca, in un campo Rom. L’episodio – ha osservato il Papa – «impone di domandarci se una società più solidale e fraterna, più coerente nell’amore, cioè più cristiana, non avrebbe potuto evitare tale tragico fatto» (Saluto all’Angelus, 13 febbraio 2011). È un interrogativo che nessuno potrà permettersi di scrollarsi facilmente di dosso. Così, la circostanza non poteva non riproporre l’annoso tema dell’accoglienza, nella nostra società e nelle nostre città, delle popolazioni Rom, che non possono essere percepite come uno sorta di scarto razziale dell’evoluta Europa. Esperienze illuminanti – in cui lo Stato e gli Enti locali convergono con l’associazionismo privato-sociale – ci avvertono che un inserimento, attraverso piani graduali di accompagnamento, con tappe successive e successivi controlli sul versante della legalità, è possibile. Occorre che nei diversi territori si sappia prendere l’iniziativa, e si tratti per definire i termini di uno scambio in cui si equilibrano diritti e doveri reciproci.

6. Quanto finora richiamato, ci suggerisce di mettere a fuoco quel senso del disagio che qua e là dà prova di nascondersi nelle pieghe profonde del Paese. Nessuno può negare che delle ragioni ci siano e vadano affrontate con l’apporto intelligente, propositivo e onesto di tutti. Avere in mente solo se stessi e la propria parte, anziché il Paese, significa tradire il Paese. Ma vorremmo, altresì, scongiurare tutti affinché il senso diffuso di malessere non intacchi la fiducia della nostra gente verso le proprie capacità, la propria cultura, verso l’Italia stessa e i suoi destini. Qualcuno parla addirittura di un possibile cedimento strutturale della “casa comune”. Un contributo non irrilevante a tale lettura, a tratti depressiva, pensiamo provenga da certa rappresentazione mediatica che tende a esasperare episodi marginali, mentre tace di altri ben più importanti o rende invisibili le realtà positive di cui l’Italia è ricca. A volte il sensazionalismo o la spettacolarizzazione creano una specie di “inquinamento ambientale”.

Si tratta naturalmente di meccanismi complessi, che si influenzano a catena, ma ciò non può costituire una scusante al fine di trascurare l’impatto dei fenomeni mediatici sulle persone, sui giovani in particolare, e però non solo loro. Ci deve essere la percezione delle soglie da non superare, pena ottenere guasti superiori all’immediato guadagno. È troppo importante e vitale che il Paese accetti di riconoscersi – non come un fatto solo stagionale − in un quadro di valori sostanziali, che sarebbe poi autolesionismo accantonare per esigenze opportunistiche. Il concetto di etica pubblica, per potersi strutturare e poter reggere all’urto degli eventi, ha bisogno di radicarsi in una consapevolezza: il bene non coincide con i desideri personali, ma possiede una propria, austera oggettività. L’etica senza un proprio contenuto, autonomo dai gusti soggettivi, infiacchisce e certo non consolida le coscienze. Il bene esiste, e a partire da questa fondante esperienza trovano spiegazione l’ethos di riferimento, ma anche il criterio obbligante e la cura sapiente di sé, cioè la formazione del proprio essere.

La scuola – tutta la scuola – ha nell’ambito formativo un ruolo non surrogabile. Essa infatti non può limitarsi a riprodurre al proprio interno i tratti del clima culturale più diffuso, acconsentendo magari alle derive del tecnicismo didattico o alle lusinghe del potente mercato di verità solo relative. Gli Orientamenti Pastorali del nuovo decennio, che la Chiesa italiana si è data, ricordano che il carattere pubblico − che connota tutta la scuola − «non ne pregiudica l’apertura alla trascendenza e non impone una neutralità rispetto a quei valori morali che sono alla base di ogni autentica formazione delle persone» (Educare alla vita buona del Vangelo, n. 46). E dunque, nel contesto pluralista odierno la comunità cristiana, fermando il proprio sguardo grato sui «costruttori di vita buona» all’opera nei plessi e nelle aule scolastiche, auspica un’«alleanza educativa» tra quanti, affiancando i genitori, si spendono per la crescita intellettuale, morale e umana delle nuove generazioni.

7. L’Italia ha un estremo bisogno di ricomporsi, quasi raccogliendosi in se stessa e radunando le proprie energie migliori, per metterle tutte in circolo e produrre un passo in avanti, fuori dagli immobilismi come dai proclami apodittici. Non tocca a noi Vescovi suggerire spinte di tipo politico, e dunque neppure di misurare i tempi o cadenzare i passi della comunità civile. Possiamo invece ricordare a tutti le conclusioni tratte da quanto ogni giorno osserviamo: il Paese ha un insopprimibile bisogno che si parta dai dati della realtà. Non i dati incartati nell’enfasi propagandistica o, al contrario, nel catastrofismo più nero, ma i dati per quanto possibile semplici e netti. Anche da soli, sono eloquenti: sulla disoccupazione specialmente giovanile e femminile, sul differenziale tra Nord e Sud d’Italia, sulla produttività, sull’imposizione e sull’evasione fiscale, sulla corruzione e sull’amministrazione della giustizia, sull’insicurezza del territorio e sul fabbisogno energetico… Si potrebbe anche aggiungere che c’è, ad un tempo, urgenza di umiltà per potersi effettivamente piegare quanto serve sui dati della realtà stessa, che è l’unico modo per prenderli sul serio, saperli interrogare, applicarsi per istruire processi decisionali. C’è bisogno di una riflessione partecipata, al fine di scegliere e rispondere. C’è bisogno che tutti agiamo senza troppo reclamizzare e senza continuamente recriminare, avendo il gusto di stupire la comunità nazionale per il fervore dell’impegno, per la capacità di dialogo, per l’efficacia delle azioni, utilizzando al meglio tempi, spazi, occasioni. Più che di scomuniche reciproche, la collettività ha bisogno di una seria dialettica, che esalti i ruoli a ciascuno affidati dal cittadino-elettore. È a partire dall’applicazione alle urgenze congiunturali, che è preferibile recuperare – tessera dopo tessera – il mosaico di una visione, di cui pure si sente la necessità: la visione cioè di dove stiamo andando, e perché dobbiamo affrontare determinati sacrifici. In questa stagione, tuttavia, conviene farsi guidare anzitutto dal criterio della concretezza: essa dà credibilità. Capiremo allora probabilmente che una visione forte non può non includere la sola medicina capace di guarire alle radici: la vita, la sua cura, e la sua promozione. La vita cioè elevata a creazione sociale, dunque a orizzonte di cultura, di bellezza, di arte.

Per questo, cioè secondo questa chiave interpretativa, vorremmo dire una parola che inducesse l’opinione pubblica a ritenere che una legge sulle dichiarazioni anticipate di fine vita è necessaria e urgente. Si tratta infatti di porre limiti e vincoli precisi a quella “giurisprudenza creativa” che sta già introducendo autorizzazioni per comportamenti e scelte che, riguardando la vita e la morte, non possono restare affidate all’arbitrarietà di alcuno. Non si tratta di mettere in campo provvedimenti intrusivi che oggi ancora non ci sono, ma di regolare piuttosto intrusioni già sperimentate, per le quali è stato possibile interrompere il sostegno vitale del cibo e dell’acqua. Chi non comprende che il rischio di avallare anche un solo caso di abuso, poiché la vita è un bene non ripristinabile, non può non indurre tutti a molta, molta cautela? Per rispettare la quale è necessario adottare regole che siano di garanzia per persone fatalmente indifese, e la cui presa in carico potrebbe un domani – nel contesto di una società materialista e individualista − risultare scomoda sotto il profilo delle risorse richieste. È noto come il dolore soggettivo, con le possibilità offerte dalla medicina palliativa, debba al presente spaventare di meno. Piuttosto, sono i criteri di una sana precauzione a dover suggerire pensieri non ideologici ma informati a premura e tutela, e ispirati a vera “compassione”. Questa, infatti, non elimina la vita fragile e indifesa, ma la “com-patisce”, induce cioè a sopportarla insieme all’ammalato, si fa condivisione, sostegno, accompagnamento fino al traguardo terreno. In determinate condizioni, la paura più impertinente scaturisce dalla solitudine e dall’abbandono, mentre l’atteggiamento d’amore trova vie misteriose per farsi percepire e saper medicare. È qui, su questo versante massimamente precario e bisognoso, che una società misura se stessa. Questa mostra la sua umanità specialmente di fronte alla vita quando è troppo debole per affermare se stessa e potersi difendere; altresì quando concepisce la vita di ciascuno non solo come un bene dell’individuo, ma anche – in misura – come un bene che concorre al tesoro comune.

Un altro pensiero vorremmo dedicarlo alla famiglia, senza lasciarci prendere dall’ansia di apparire troppo insistenti. Crediamo di conoscere il popolo italiano: tutt’altro che prevenuto o chiuso anche nei confronti dei sacerdoti. Non si faticherà a intuire perché l’insistere ci appaia qui un dovere: non c’è di mezzo alcun tornaconto, vi è piuttosto l’interesse sommo della collettività. Alla quale – immaginiamo – dovrà pur premere che le difficoltà economiche, i problemi del lavoro e della casa, formando magari un tutt’uno con l’incertezza culturale, non diventino un ostacolo sempre più grande alla realizzazione del progetto di felicità e − ancora − di benessere che potenzialmente è ogni famiglia. Davvero è auspicabile che, fatto salvo il rispetto per la libertà personale, nessuno nell’ambito pubblico provveda a decisioni che mettano in ombra l’istituto familiare, architrave portante di ogni realistico futuro.

Concludo, venerati Confratelli, la mia introduzione al lavoro del Consiglio Permanente, con la quale – come di consueto – ho cercato di dare eco a sollecitazioni raccolte in interlocuzioni varie, preziose e degnissime. Vorrebbe ad un tempo aprire un confronto tra noi come sempre esplicito e fraterno. La vita delle nostre Chiese non ci abbandona mai, ed è regola ai nostri passi. Sui quali desideriamo l’ispirazione e la vicinanza di Giovanni Paolo II, presto beato per il gaudio del mondo. Insieme invochiamo l’assistenza di Guido Maria Conforti e Luigi Guanella, fondatori e figure impareggiabili del Risorgimento italiano e cattolico, che il Papa iscriverà nel libro dei Santi il prossimo 23 ottobre. Dall’alto ci protegga sempre Maria, Madre dolcissima.

(©L'Osservatore Romano 28-29 marzo 2011)

domenica 27 marzo 2011

LE PAROLE DEL PAPA ALLA RECITA DELL'ANGELUS - 27 marzo 2011


BENEDETTO XVI

ANGELUS

Piazza San Pietro
Domenica, 27 marzo 2011

[Croato, Francese, Inglese, Italiano, Portoghese, Spagnolo, Tedesco]

Cari fratelli e sorelle!

Questa III Domenica di Quaresima è caratterizzata dal celebre dialogo di Gesù con la donna Samaritana, raccontato dall’evangelista Giovanni. La donna si recava tutti i giorni ad attingere acqua ad un antico pozzo, risalente al patriarca Giacobbe, e quel giorno vi trovò Gesù, seduto, “affaticato per il viaggio” (Gv 4,6). Sant’Agostino commenta: “Non per nulla Gesù si stanca … La forza di Cristo ti ha creato, la debolezza di Cristo ti ha ricreato … Con la sua forza ci ha creati, con la sua debolezza è venuto a cercarci” (In Ioh. Ev., 15, 2). La stanchezza di Gesù, segno della sua vera umanità, può essere vista come un preludio della passione, con la quale Egli ha portato a compimento l’opera della nostra redenzione. In particolare, nell’incontro con la Samaritana al pozzo, emerge il tema della “sete” di Cristo, che culmina nel grido sulla croce: “Ho sete” (Gv 19,28). Certamente questa sete, come la stanchezza, ha una base fisica. Ma Gesù, come dice ancora Agostino, “aveva sete della fede di quella donna” (In Ioh. Ev. 15, 11), come della fede di tutti noi. Dio Padre lo ha mandato a saziare la nostra sete di vita eterna, donandoci il suo amore, ma per farci questo dono Gesù chiede la nostra fede. L’onnipotenza dell’Amore rispetta sempre la libertà dell’uomo; bussa al suo cuore e attende con pazienza la sua risposta.

Nell’incontro con la Samaritana risalta in primo piano il simbolo dell’acqua, che allude chiaramente al sacramento del Battesimo, sorgente di vita nuova per la fede nella Grazia di Dio. Questo Vangelo, infatti, - come ho ricordato nella Catechesi del Mercoledì delle Ceneri - fa parte dell’antico itinerario di preparazione dei catecumeni all’iniziazione cristiana, che avveniva nella grande Veglia della notte di Pasqua. “Chi berrà dell’acqua che io gli darò – dice Gesù – non avrà più sete in eterno. Anzi, l’acqua che io gli darò diventerà in lui sorgente d’acqua che zampilla per la vita eterna” (Gv 4,14). Quest’acqua rappresenta lo Spirito Santo, il “dono” per eccellenza che Gesù è venuto a portare da parte di Dio Padre. Chi rinasce dall’acqua e dallo Spirito Santo, cioè nel Battesimo, entra in una relazione reale con Dio, una relazione filiale, e può adorarLo “in spirito e verità” (Gv 4,23.24), come rivela ancora Gesù alla donna Samaritana. Grazie all’incontro con Gesù Cristo e al dono dello Spirito Santo, la fede dell’uomo giunge al suo compimento, come risposta alla pienezza della rivelazione di Dio.

Ognuno di noi può immedesimarsi con la donna Samaritana: Gesù ci aspetta, specialmente in questo tempo di Quaresima, per parlare al nostro, al mio cuore. Fermiamoci un momento in silenzio, nella nostra stanza, o in una chiesa, o in un luogo appartato. Ascoltiamo la sua voce che ci dice: “Se tu conoscessi il dono di Dio…”. Ci aiuti la Vergine Maria a non mancare a questo appuntamento, da cui dipende la nostra vera felicità.


APPELLO

Di fronte alle notizie, sempre più drammatiche, che provengono dalla Libia, cresce la mia trepidazione per l’incolumità e la sicurezza della popolazione civile e la mia apprensione per gli sviluppi della situazione, attualmente segnata dall’uso delle armi. Nei momenti di maggiore tensione si fa più urgente l’esigenza di ricorrere ad ogni mezzo di cui dispone l’azione diplomatica e di sostenere anche il più debole segnale di apertura e di volontà di riconciliazione fra tutte le Parti coinvolte, nella ricerca di soluzioni pacifiche e durature.

In questa prospettiva, mentre elevo al Signore la mia preghiera per un ritorno alla concordia in Libia e nell’intera Regione nordafricana, rivolgo un accorato appello agli organismi internazionali e a quanti hanno responsabilità politiche e militari, per l’immediato avvio di un dialogo, che sospenda l’uso delle armi.

Il mio pensiero si indirizza, infine, alle Autorità ed ai cittadini del Medio Oriente, dove nei giorni scorsi si sono verificati diversi episodi di violenza, perché anche là sia privilegiata la via del dialogo e della riconciliazione nella ricerca di una convivenza giusta e fraterna.


Dopo l'Angelus:

En ce dimanche, chers pèlerins francophones, Jésus se présente à nous comme un mendiant: «Donne-moi à boire!». Prenons le temps d’écouter son appel. Saurons-nous, comme la Samaritaine, Le reconnaître comme l’unique source de vie qui répond à la quête profonde de l’homme? Oui, seule l’eau qu’Il donne peut étancher notre soif de bien, de vérité, de beauté! Laissons de côté l’idolâtrie du bien-être matériel et de l’éphémère qui laisse le cœur inquiet et vide. Soyons attentifs et accueillants aux besoins des autres pour partager avec eux. Chers amis, en donnant plus de temps à la prière, puissions-nous être des adorateurs en esprit et en vérité et des témoins joyeux du Dieu vivant! Avec ma bénédiction pour vous et pour vos familles !

I offer a warm greeting to all the English-speaking visitors present for this Angelus prayer. In today’s Gospel Jesus speaks to the Samaritan women of the gift of the Holy Spirit, the water which wells up to eternal life in those who believe. Through our Lenten observance may all of us be renewed in the grace of our Baptism and prepare with hearts renewed to celebrate the gift of new life at Easter. Upon you and your families I invoke God’s blessings of joy and peace!

Mit Freude grüße ich alle Brüder und Schwestern deutscher Sprache, insbesondere die Pilger aus Mannheim und die Teilnehmer an der Sieben­kirchen­wallfahrt des Collegium Germanicum et Hungaricum. Wasser und Nahrung sind für den Menschen lebensnotwendig. Doch in unserem Inneren verspüren wir einen tieferen Hunger und Durst. Jesus will diese verschüttete Sehnsucht nach dem Wahren, Schönen und Guten, nach Gott in uns wachrufen. Wo wir durch Sünde und Gottferne auszutrocknen drohen, gibt er sich selbst als das Wasser, das in uns zur sprudelnden Quelle wird und wirkliches Leben schenkt. Lassen wir die Frische seiner Liebe in uns neu lebendig werden. Der Herr segne euch alle.

Saludo con afecto a los peregrinos de lengua española que participan en esta oración mariana, en particular al grupo del Instituto Sofía Casanova, de Ferrol. En este tercer domingo de Cuaresma, la liturgia nos presenta el diálogo de Jesús con la samaritana. El Señor ofrece agua de vida que apaga toda sed; agua que es su mismo Espíritu y se nos comunica en el Bautismo. Os animo para que en este tiempo, renovando los compromisos de fe, os encontréis con el Mesías que colma de gracia y verdad, y podáis ofrecer el culto de alabanza que brota de un discípulo fiel. Feliz domingo.

Saúdo os peregrinos de língua portuguesa, em particular a comunidade romana dos fiéis brasileiros, que está realizando a sua peregrinação quaresmal, e os alunos e professores do Colégio de São Tomás em Lisboa, que recordam a minha Visita a Portugal do ano passado. Agradecido pela vossa presença e união na oração, desejo a todos a água viva que Jesus ofereceu à Samaritana, dizendo-lhe que a mesma se torna uma fonte que jorra para a vida eterna. Que Deus vos guarde e abençoe!

Serdeczne pozdrowienie kieruję do Polaków. Dziś św. Paweł przypomina nam, że „Bóg okazuje nam swoją miłość przez to, że Chrystus umarł za nas, gdyśmy byli jeszcze grzesznikami” (Rz 5, 8). Jest to wezwanie, abyśmy pokonując w sobie grzech, coraz pełniej odpowiadali na tę uprzedzającą miłość Boga. Niech nam w tym pomaga czas Wielkiego Postu. Niech Bóg wam błogosławi!

[Un cordiale saluto rivolgo ai polacchi. Oggi san Paolo ci ricorda che “Dio dimostra il suo amore verso di noi perché, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi” (Rm 5, 8). é un invito affinché, vincendo il peccato in noi, sempre più pienamente rispondiamo al preveniente amore di Dio. Il tempo della Quaresima, favorisca questo itinerario spirituale. Dio vi benedica!]

S láskou pozdravujem slovenských pútnikov, osobitne z farnosti svätého Šimona a Júdu v Hornej Ždani. Bratia a sestry, Pôstne obdobie nás pobáda, aby sme uznali v Ježišovi Kristovi našu najväčšiu nádej. Pozývam vás, aby ste boli vo svete vernými svedkami jeho Radostnej zvesti o vykúpení. Zo srdca vás žehnám. Pochválený buď Ježiš Kristus!

[Saluto con affetto i pellegrini slovacchi, particolarmente quelli provenienti dalla Parrocchia dei Santi Simone e Giuda di Horná Ždaňa. Fratelli e sorelle, il Tempo della Quaresima ci esorta a riconoscere Gesù Cristo come nostra suprema speranza. Vi invito ad essere nel mondo testimoni fedeli della Buona Novella della redenzione. Di cuore vi benedico. Sia lodato Gesù Cristo!]

Infine, saluto cordialmente i pellegrini di lingua italiana, in particolare il Cardinale Elio Sgreccia e i partecipanti al convegno sul tema: “Bambini non nati: l’onore e la pietà”, che ha richiamato al sacro rispetto per i nascituri abortiti. Saluto le famiglie del Movimento dell’Amore Familiare e quanti questa notte, nella chiesa di San Gregorio VII, hanno vegliato pregando per la drammatica situazione in Libia. Saluto i fedeli venuti dalla diocesi di Pozzuoli, i ragazzi del Decanato di Rho e quelli di Castel Ritaldi, come pure il gruppo della Scuola Primaria di Lierna e gli ex-alunni della Scuola delle Ancelle del Sacro Cuore di Gesù in Milano. A tutti auguro una buona domenica. Buona domenica e buona settimana a voi tutti, Grazie.

© Copyright 2011 - Libreria Editrice Vaticana

Benedetto XVI nella visita al Sacrario delle Fosse Ardeatine (27 marzo 2011)


VISITA AL SACRARIO DELLE FOSSE ARDEATINE

PAROLE DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI

Fosse Ardeatine
Domenica, 27 marzo 2011

Cari fratelli e sorelle!

Molto volentieri ho accolto l’invito dell’“Associazione Nazionale tra le Famiglie Italiane dei Martiri caduti per la libertà della Patria” a compiere un pellegrinaggio a questo sacrario, caro a tutti gli italiani, particolarmente al popolo romano. Saluto il Cardinale Vicario, il Rabbino Capo, il Presidente dell’Associazione, il Commissario Generale, il Direttore del Mausoleo e, in modo speciale, i familiari delle vittime, come pure tutti i presenti.

“Credo in Dio e nell’Italia / credo nella risurrezione / dei martiri e degli eroi / credo nella rinascita / della patria e nella / libertà del popolo”. Queste parole sono state incise sulla parete di una cella di tortura, in Via Tasso, a Roma, durante l’occupazione nazista. Sono il testamento di una persona ignota, che in quella cella fu imprigionata, e dimostrano che lo spirito umano rimane libero anche nelle condizioni più dure. “Credo in Dio e nell’Italia”: questa espressione mi ha colpito anche perché quest’anno ricorre il 150° anniversario dell’unità d’Italia, ma soprattutto perché afferma il primato della fede, dalla quale attingere la fiducia e la speranza per l’Italia e per il suo futuro. Ciò che qui è avvenuto il 24 marzo 1944 è offesa gravissima a Dio, perché è la violenza deliberata dell’uomo sull’uomo. E’ l’effetto più esecrabile della guerra, di ogni guerra, mentre Dio è vita, pace, comunione.

Come i miei Predecessori, sono venuto qui a pregare e a rinnovare la memoria. Sono venuto ad invocare la divina Misericordia, che sola può colmare i vuoti, le voragini aperte dagli uomini quando, spinti dalla cieca violenza, rinnegano la propria dignità di figli di Dio e fratelli tra loro. Anch’io, come Vescovo di Roma, città consacrata dal sangue dei martiri del Vangelo dell’Amore, vengo a rendere omaggio a questi fratelli, uccisi a poca distanza dalle antiche catacombe.

“Credo in Dio e nell’Italia”. In quel testamento inciso in un luogo di violenza e di morte, il legame tra la fede e l’amore della patria appare in tutta la sua purezza, senza alcuna retorica. Chi ha scritto quelle parole l’ha fatto solo per intima convinzione, come estrema testimonianza alla verità creduta, che rende regale l’animo umano anche nell’estremo abbassamento. Ogni uomo è chiamato a realizzare in questo modo la propria dignità: testimoniando quella verità che riconosce con la propria coscienza.

Un’altra testimonianza mi ha colpito, e questa fu ritrovata proprio nelle Fosse Ardeatine. Un foglio di carta su cui un caduto aveva scritto: “Dio mio grande Padre, noi ti preghiamo affinché tu possa proteggere gli ebrei dalle barbare persecuzioni. 1 Pater noster, 10 Ave Maria, 1 Gloria Patri”. In quel momento così tragico, così disumano, nel cuore di quella persona c’era l’invocazione più alta: “Dio mio grande Padre”. Padre di tutti! Come sulle labbra di Gesù, morente sulla croce: “Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito”. In quel nome, “Padre”, c’è la garanzia sicura della speranza; la possibilità di un futuro diverso, libero dall’odio e dalla vendetta, un futuro di libertà e di fraternità, per Roma, l’Italia, l’Europa, il mondo. Sì, dovunque sia, in ogni continente, a qualunque popolo appartenga, l’uomo è figlio di quel Padre che è nei cieli, è fratello di tutti in umanità. Ma questo essere figlio e fratello non è scontato. Lo dimostrano purtroppo anche le Fosse Ardeatine. Bisogna volerlo, bisogna dire sì al bene e no al male. Bisogna credere nel Dio dell’amore e della vita, e rigettare ogni altra falsa immagine divina, che tradisce il suo santo Nome e tradisce di conseguenza l’uomo, fatto a sua immagine.

Perciò, in questo luogo, doloroso memoriale del male più orrendo, la risposta più vera è quella di prendersi per mano, come fratelli, e dire: Padre nostro, noi crediamo in Te, e con la forza del tuo amore vogliamo camminare insieme, in pace, a Roma, in Italia, in Europa, nel mondo intero. Amen.

© Copyright 2011 - Libreria Editrice Vaticana