MATER MEA FIDUCIA MEA
LA MADONNA DELLA FIDUCIA
O Maria, Madre di Dio e Madre della Chiesa,
O Maria, Madre di Dio e Madre della Chiesa,
a te affidiamo la nostra vita,
noi siamo tuoi figli
e nelle tue mani poniamo la nostra vocazione.
Ave Maria...
A te, Vergine di Nazareth,
offriamo umilmente il nostro desiderio
offriamo umilmente il nostro desiderio
di seguire Gesù nella via dell'amore
con fedeltà e perseveranza,
affinché possiamo servirlo
con cuore indiviso e generoso.
Ave Maria...
Guidaci sempre con
il tuo amore di Madre,
sostienici nella debolezza,
confermaci nella speranza,
accresci in noi la fiducia in Dio,
l'amore a Cristo e la fedeltà alla Chiesa.
O Maria, Madre e fiducia nostra!
Salve Regina...
Mater mea, Fiducia mea.
SANTO PADRE BENEDETTO XVI
VISITA AL PONTIFICIO SEMINARIO ROMANO MAGGIORE
PER LA FESTA DELLA MADONNA DELLA FIDUCIA
LECTIO DIVINA
DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI
Cappella del Seminario
DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI
Cappella del Seminario
Venerdì, 4 marzo 2011
Cari fratelli e sorelle,
sono molto felice di essere, almeno una volta all’anno, qui, con i miei seminaristi, con i giovani che sono in cammino verso il sacerdozio e saranno il futuro presbiterio di Roma. Sono felice che questo succeda ogni anno nel giorno della Madonna della Fiducia, della Madre che ci accompagna con il suo amore giorno per giorno e ci dà la fiducia di andare avanti verso Cristo.
"Nell’unità dello Spirito" è il tema che guida le vostre riflessioni durante questo anno formativo. È un’espressione che si trova proprio nel passo della Lettera agli Efesini che ci è stato proposto, là dove san Paolo esorta i membri di quella comunità a "conservare l’unità dello spirito" (4,3). Questo testo apre la seconda parte della Lettera agli Efesini, la cosiddetta parte parenetica, esortativa e comincia con la parola "parakalo", "vi esorto". Ma è la stessa parola che sta anche nel termine "Paraklitos", quindi è un’esortazione nella luce, nella forza dello Spirito Santo. L’esortazione dell’Apostolo si basa sul mistero di salvezza, che aveva presentato nei primi tre capitoli. Infatti, il nostro brano inizia con la parola "dunque": "Io dunque…vi esorto…" (v. 1). Il comportamento dei cristiani è la conseguenza del dono, la realizzazione di quanto ci è donato ogni giorno. E, tuttavia, se è semplicemente realizzazione del dono datoci, non si tratta di un effetto automatico, perché con Dio siamo sempre nella realtà della libertà e perciò - poiché la risposta, anche la realizzazione del dono è libertà - l’Apostolo deve richiamarlo, non può darlo per scontato. Il Battesimo, lo sappiamo, non produce automaticamente una vita coerente: questa è frutto della volontà e dell’impegno perseverante di collaborare con il dono, con la Grazia ricevuta. E questo impegno costa, c’è un prezzo da pagare di persona. Forse per questo san Paolo fa riferimento proprio qui alla sua attuale condizione: "Io dunque, prigioniero a motivo del Signore, vi esorto…" (ibid.). Seguire Cristo significa condividere la sua Passione, la sua Croce, seguirlo fino in fondo, e questa partecipazione alla sorte del Maestro unisce profondamente a Lui e rafforza l’autorevolezza dell’esortazione dell’Apostolo.
Ora entriamo nel vivo della nostra meditazione, incontrando una parola che ci colpisce in modo particolare: la parola "chiamata", "vocazione". San Paolo scrive: "comportatevi in maniera degna della chiamata, della klesis che avete ricevuto" (ibid.). E la ripeterà poco dopo, affermando che "…una sola è la speranza alla quale siete stati chiamati, quella della vostra vocazione" (v. 4). Qui, in questo caso, si tratta della vocazione comune a tutti i cristiani, cioè della vocazione battesimale: la chiamata ad essere di Cristo e a vivere in Lui, nel suo corpo. Dentro questa parola è inscritta un’esperienza, risuona l’eco dell’esperienza dei primi discepoli, quella che conosciamo dai Vangeli: quando Gesù passò sulla riva del lago di Galilea, e chiamò Simone e Andrea, poi Giacomo e Giovanni (cfr Mc 1,16-20). E prima ancora, presso il fiume Giordano, dopo il battesimo, quando, accorgendosi che Andrea e l’altro discepolo lo seguivano, disse loro: "Venite e vedrete" (Gv 1,39). La vita cristiana comincia con una chiamata e rimane sempre una risposta, fino alla fine. E ciò sia nella dimensione del credere, sia in quella dell’agire: tanto la fede quanto il comportamento del cristiano sono corrispondenza alla grazia della vocazione.
Ho parlato della chiamata dei primi apostoli, ma pensiamo con la parola "chiamata" soprattutto alla Madre di ogni chiamata, a Maria Santissima, l’eletta, la Chiamata per eccellenza. L’icona dell’Annunciazione a Maria rappresenta ben di più di quel particolare episodio evangelico, per quanto fondamentale: contiene tutto il mistero di Maria, tutta la sua storia, il suo essere; e al tempo stesso parla della Chiesa, della sua essenza di sempre; come pure di ogni singolo credente in Cristo, di ogni anima cristiana chiamata.
A questo punto dobbiamo tenere presente che non parliamo di persone del passato. Dio, il Signore, ha chiamato ognuno di noi, ognuno è chiamato con il nome suo. Dio è così grande che ha tempo per ciascuno di noi, conosce me, conosce ognuno di noi per nome, personalmente. È una chiamata personale per ognuno di noi. Penso che dobbiamo meditare diverse volte questo mistero: Dio, il Signore, ha chiamato me, chiama me, mi conosce, aspetta la mia risposta come aspettava la risposta di Maria, aspettava la risposta degli Apostoli. Dio mi chiama: questo fatto dovrebbe farci attenti alla voce di Dio, attenti alla sua Parola, alla sua chiamata per me, per rispondere, per realizzare questa parte della storia della salvezza per la quale ha chiamato me. In questo testo, poi, San Paolo ci indica qualche elemento concreto di questa risposta con quattro parole: "umiltà", "dolcezza", "magnanimità", "sopportandovi a vicenda nell’amore". Forse possiamo meditare brevemente queste parole nelle quali si esprime il cammino cristiano. Ritorneremo poi alla fine, ancora una volta, su questo.
"Umiltà": la parola greca è "tapeinophrosyne", la stessa parola che san Paolo usa nella Lettera ai Filippesi quando parla del Signore, che era Dio e si è umiliato, si è fatto "tapeinos", è sceso fino al farsi creatura, fino al farsi uomo, fino all’obbedienza della Croce (cfr Fil 2,7-8). Umiltà, quindi, non è una parola qualunque, una qualche modestia, qualcosa… ma è una parola cristologica. Imitare il Dio che scende fino a me, che è così grande che si fa mio amico, soffre per me, è morto per me. Questa è l’umiltà da imparare, l’umiltà di Dio. Vuol dire che dobbiamo vederci sempre nella luce di Dio; così, nello stesso tempo, possiamo conoscere la grandezza di essere una persona amata da Dio, ma anche la nostra piccolezza, la nostra povertà, e così comportarci giustamente, non come padroni, ma come servi. Come dice san Paolo: "Noi non intendiamo fare da padroni sulla vostra fede; siamo invece i collaboratori della vostra gioia" (2Cor 1,24). Essere sacerdote, ancora più che l’essere cristiano, implica questa umiltà.
"Dolcezza": nel testo greco qui sta la parola "praütes", la stessa parola che appare nelle Beatitudini: "Beati i miti perché avranno in eredità la terra" (Mt 5,5,). E nel Libro dei Numeri, il quarto libro di Mosé, troviamo l’affermazione che Mosé era l’uomo più mite del mondo (cfr 12,3) e, in questo senso, era una prefigurazione di Cristo, di Gesù, che dice di sé: "Io sono mite e umile di cuore" (Mt 11,29). Anche questa parola, quindi, "mite", "dolcezza", è una parola cristologica e implica di nuovo questo imitare Cristo. Perché nel Battesimo siamo conformati a Cristo, quindi dobbiamo conformarci a Cristo, trovare questo spirito dell’essere miti, senza violenza, di convincere con l’amore e con la bontà.
"Magnanimità", "makrothymia" vuol dire la generosità del cuore, non essere minimalisti che danno solo ciò che è strettamente necessario: diamo noi stessi con tutto quello che possiamo, e cresciamo anche noi nella magnanimità.
"Sopportandovi nell’amore": è un compito di ogni giorno sopportarsi l’un l’altro nella propria alterità, e proprio sopportandoci con umiltà, imparare il vero amore.
E adesso facciamo un passo avanti. Dopo questa parola della chiamata, segue la dimensione ecclesiale. Abbiamo parlato adesso della vocazione come di una chiamata molto personale: Dio chiama me, conosce me, aspetta la mia risposta personale. Ma, nello stesso tempo, la chiamata di Dio è una chiamata in comunità, è una chiamata ecclesiale, Dio ci chiama in una comunità. E’ vero che in questo brano che stiamo meditando non c’è la parola "ekklesia", la parola "Chiesa", ma appare tanto più la realtà. San Paolo parla di uno Spirito e un corpo. Lo Spirito si crea il corpo e ci unisce come un unico corpo. E poi parla dell’unità, parla della catena dell’essere, del vincolo della pace. E con questa parola accenna alla parola "prigioniero" dell’inizio: è sempre la stessa parola, "io sono in catene", "catene ti terranno", ma dietro sta la grande catena invisibile, liberante dell’amore. Noi siamo in questo vincolo della pace che è la Chiesa, è il grande vincolo che ci unisce con Cristo. Forse dobbiamo anche meditare personalmente su questo punto: siamo chiamati personalmente, ma siamo chiamati in un corpo. E questo non è una cosa astratta, ma molto reale.
In questo momento, il Seminario è il corpo nel quale si realizza concretamente l’essere in un cammino comune. Poi sarà la parrocchia: accettare, sopportare, animare tutta la parrocchia, le persone, quelle simpatiche e quelle non simpatiche, inserirsi in questo corpo. Corpo: la Chiesa è corpo, quindi ha strutture, ha anche realmente un diritto e qualche volta non è così semplice inserirsi. Certo, vogliamo la relazione personale con Dio, però il corpo spesso non ci piace. Ma proprio così siamo in comunione con Cristo: accettando questa corporeità della sua Chiesa, dello Spirito, che si incarna nel corpo.
E dall’altra parte, spesso forse sentiamo il problema, la difficoltà di questa comunità, cominciando dalla comunità concreta del Seminario fino alla grande comunità della Chiesa, con le sue istituzioni. Dobbiamo anche tenere presente che è molto bello essere in una compagnia, camminare in una grande compagnia di tutti i secoli, avere amici in Cielo e in terra, e sentire la bellezza di questo corpo, essere felici che il Signore ci ha chiamati in un corpo e ci ha dato amici in tutte le parti del mondo.
Ho detto che la parola "ekklesia" non c’è qui, ma c’è la parola "corpo", la parola "spirito", la parola "vincolo" e sette volte, in questo piccolo brano, ritorna la parola "uno". Così sentiamo come sta a cuore all’Apostolo l’unità della Chiesa. E finisce con una "scala di unità", fino all’Unità: Uno è Dio, il Dio di tutti. Dio è Uno e l’unicità di Dio si esprime nella nostra comunione, perché Dio è il Padre, il Creatore di tutti noi e perciò tutti siamo fratelli, tutti siamo un corpo e l’unità di Dio è la condizione, è la creazione anche della fraternità umana, della pace. Quindi, meditiamo anche questo mistero dell’unità e l’importanza di cercare sempre l’unità nella comunione dell’unico Cristo, dell’unico Dio.
Ora possiamo fare un ulteriore passo avanti. Se ci domandiamo qual è il senso profondo di questo uso della parola "chiamata", vediamo che essa è una delle porte che si aprono sul mistero trinitario. Finora abbiamo parlato del mistero della Chiesa, dell’unico Dio, ma appare anche il mistero trinitario. Gesù è il mediatore della chiamata del Padre che avviene nello Spirito Santo. La vocazione cristiana non può che avere una forma trinitaria, sia a livello di singola persona, sia a livello di comunità ecclesiale. Il mistero della Chiesa è tutto animato dal dinamismo dello Spirito Santo, che è un dinamismo vocazionale in senso ampio e perenne, a partire da Abramo, che per primo ascoltò la chiamata di Dio e rispose con la fede e con l’azione (cfr Gen 12,1-3); fino all’"eccomi" di Maria, riflesso perfetto di quello del Figlio di Dio, nel momento in cui accoglie dal Padre la chiamata a venire nel mondo (cfr Eb 10,5-7). Così, nel "cuore" della Chiesa – come direbbe santa Teresa di Gesù Bambino – la chiamata di ogni singolo cristiano è un mistero trinitario: il mistero dell’incontro con Gesù, con la Parola fatta carne, mediante la quale Dio Padre ci chiama alla comunione con Sé e per questo ci vuole donare il suo Santo Spirito, ed è proprio grazie allo Spirito che noi possiamo rispondere a Gesù e al Padre in modo autentico, all’interno di una relazione reale, filiale. Senza il soffio dello Spirito Santo la vocazione cristiana semplicemente non si spiega, perde la sua linfa vitale.
E finalmente l’ultimo passaggio. La forma dell’unità secondo lo Spirito richiede, come avevo detto, l’imitazione di Gesù, la conformazione a Lui nella concretezza dei suoi comportamenti. Scrive l’Apostolo, come abbiamo meditato: "Con ogni umiltà, dolcezza e magnanimità, sopportandovi a vicenda nell’amore", e poi aggiunge che l’unità dello spirito va conservata "per mezzo del vincolo della pace" (Ef 4,2-3).
L’unità della Chiesa non è data da uno "stampo" imposto dall’esterno, ma è il frutto di una concordia, di un comune impegno di comportarsi come Gesù, in forza del suo Spirito. C’è un commento di san Giovanni Crisostomo a questo passo che è molto bello. Crisostomo commenta l’immagine del "vincolo", il "vincolo della pace", e dice: "E’ bello questo vincolo, con cui ci leghiamo insieme sia gli uni con gli altri sia con Dio. Non è una catena che ferisce. Non dà crampi alle mani, le lascia libere, dà loro ampio spazio e un coraggio più grande" (Omelie sull’Epistola agli Efesini 9, 4, 1-3). Troviamo qui il paradosso evangelico: l’amore cristiano è un vincolo, come abbiamo detto, ma un vincolo che libera! L’immagine del vincolo, come vi ho detto, ci riporta alla situazione di san Paolo, che è "prigioniero", è "in vincolo". L’Apostolo è in catene a motivo del Signore, come Gesù stesso, si è fatto schiavo per liberarci. Per conservare l’unità dello spirito occorre improntare il proprio comportamento a quella umiltà, dolcezza e magnanimità che Gesù ha testimoniato nella sua passione; bisogna avere le mani e il cuore legati da quel vincolo d’amore che Lui stesso ha accettato per noi, facendosi nostro servo. Questo è il "vincolo della pace". E dice ancora san Giovanni Crisostomo, nello stesso commento: "Legatevi ai vostri fratelli, quelli così legati insieme nell’amore sopportano tutto con facilità… Così egli vuole che siamo legati gli uni agli altri, non solo per essere in pace, non solo per essere amici, ma per essere tutti uno, un’anima sola" (ibid.).
Il testo paolino del quale abbiamo meditato alcuni elementi, è molto ricco. Ho potuto portare a voi solo alcuni spunti, che affido alla vostra meditazione. E preghiamo la Vergine Maria, la Madonna della Fiducia, perché ci aiuti a camminare con gioia nell’unità dello Spirito. Grazie!
"Nell’unità dello Spirito" è il tema che guida le vostre riflessioni durante questo anno formativo. È un’espressione che si trova proprio nel passo della Lettera agli Efesini che ci è stato proposto, là dove san Paolo esorta i membri di quella comunità a "conservare l’unità dello spirito" (4,3). Questo testo apre la seconda parte della Lettera agli Efesini, la cosiddetta parte parenetica, esortativa e comincia con la parola "parakalo", "vi esorto". Ma è la stessa parola che sta anche nel termine "Paraklitos", quindi è un’esortazione nella luce, nella forza dello Spirito Santo. L’esortazione dell’Apostolo si basa sul mistero di salvezza, che aveva presentato nei primi tre capitoli. Infatti, il nostro brano inizia con la parola "dunque": "Io dunque…vi esorto…" (v. 1). Il comportamento dei cristiani è la conseguenza del dono, la realizzazione di quanto ci è donato ogni giorno. E, tuttavia, se è semplicemente realizzazione del dono datoci, non si tratta di un effetto automatico, perché con Dio siamo sempre nella realtà della libertà e perciò - poiché la risposta, anche la realizzazione del dono è libertà - l’Apostolo deve richiamarlo, non può darlo per scontato. Il Battesimo, lo sappiamo, non produce automaticamente una vita coerente: questa è frutto della volontà e dell’impegno perseverante di collaborare con il dono, con la Grazia ricevuta. E questo impegno costa, c’è un prezzo da pagare di persona. Forse per questo san Paolo fa riferimento proprio qui alla sua attuale condizione: "Io dunque, prigioniero a motivo del Signore, vi esorto…" (ibid.). Seguire Cristo significa condividere la sua Passione, la sua Croce, seguirlo fino in fondo, e questa partecipazione alla sorte del Maestro unisce profondamente a Lui e rafforza l’autorevolezza dell’esortazione dell’Apostolo.
Ora entriamo nel vivo della nostra meditazione, incontrando una parola che ci colpisce in modo particolare: la parola "chiamata", "vocazione". San Paolo scrive: "comportatevi in maniera degna della chiamata, della klesis che avete ricevuto" (ibid.). E la ripeterà poco dopo, affermando che "…una sola è la speranza alla quale siete stati chiamati, quella della vostra vocazione" (v. 4). Qui, in questo caso, si tratta della vocazione comune a tutti i cristiani, cioè della vocazione battesimale: la chiamata ad essere di Cristo e a vivere in Lui, nel suo corpo. Dentro questa parola è inscritta un’esperienza, risuona l’eco dell’esperienza dei primi discepoli, quella che conosciamo dai Vangeli: quando Gesù passò sulla riva del lago di Galilea, e chiamò Simone e Andrea, poi Giacomo e Giovanni (cfr Mc 1,16-20). E prima ancora, presso il fiume Giordano, dopo il battesimo, quando, accorgendosi che Andrea e l’altro discepolo lo seguivano, disse loro: "Venite e vedrete" (Gv 1,39). La vita cristiana comincia con una chiamata e rimane sempre una risposta, fino alla fine. E ciò sia nella dimensione del credere, sia in quella dell’agire: tanto la fede quanto il comportamento del cristiano sono corrispondenza alla grazia della vocazione.
Ho parlato della chiamata dei primi apostoli, ma pensiamo con la parola "chiamata" soprattutto alla Madre di ogni chiamata, a Maria Santissima, l’eletta, la Chiamata per eccellenza. L’icona dell’Annunciazione a Maria rappresenta ben di più di quel particolare episodio evangelico, per quanto fondamentale: contiene tutto il mistero di Maria, tutta la sua storia, il suo essere; e al tempo stesso parla della Chiesa, della sua essenza di sempre; come pure di ogni singolo credente in Cristo, di ogni anima cristiana chiamata.
A questo punto dobbiamo tenere presente che non parliamo di persone del passato. Dio, il Signore, ha chiamato ognuno di noi, ognuno è chiamato con il nome suo. Dio è così grande che ha tempo per ciascuno di noi, conosce me, conosce ognuno di noi per nome, personalmente. È una chiamata personale per ognuno di noi. Penso che dobbiamo meditare diverse volte questo mistero: Dio, il Signore, ha chiamato me, chiama me, mi conosce, aspetta la mia risposta come aspettava la risposta di Maria, aspettava la risposta degli Apostoli. Dio mi chiama: questo fatto dovrebbe farci attenti alla voce di Dio, attenti alla sua Parola, alla sua chiamata per me, per rispondere, per realizzare questa parte della storia della salvezza per la quale ha chiamato me. In questo testo, poi, San Paolo ci indica qualche elemento concreto di questa risposta con quattro parole: "umiltà", "dolcezza", "magnanimità", "sopportandovi a vicenda nell’amore". Forse possiamo meditare brevemente queste parole nelle quali si esprime il cammino cristiano. Ritorneremo poi alla fine, ancora una volta, su questo.
"Umiltà": la parola greca è "tapeinophrosyne", la stessa parola che san Paolo usa nella Lettera ai Filippesi quando parla del Signore, che era Dio e si è umiliato, si è fatto "tapeinos", è sceso fino al farsi creatura, fino al farsi uomo, fino all’obbedienza della Croce (cfr Fil 2,7-8). Umiltà, quindi, non è una parola qualunque, una qualche modestia, qualcosa… ma è una parola cristologica. Imitare il Dio che scende fino a me, che è così grande che si fa mio amico, soffre per me, è morto per me. Questa è l’umiltà da imparare, l’umiltà di Dio. Vuol dire che dobbiamo vederci sempre nella luce di Dio; così, nello stesso tempo, possiamo conoscere la grandezza di essere una persona amata da Dio, ma anche la nostra piccolezza, la nostra povertà, e così comportarci giustamente, non come padroni, ma come servi. Come dice san Paolo: "Noi non intendiamo fare da padroni sulla vostra fede; siamo invece i collaboratori della vostra gioia" (2Cor 1,24). Essere sacerdote, ancora più che l’essere cristiano, implica questa umiltà.
"Dolcezza": nel testo greco qui sta la parola "praütes", la stessa parola che appare nelle Beatitudini: "Beati i miti perché avranno in eredità la terra" (Mt 5,5,). E nel Libro dei Numeri, il quarto libro di Mosé, troviamo l’affermazione che Mosé era l’uomo più mite del mondo (cfr 12,3) e, in questo senso, era una prefigurazione di Cristo, di Gesù, che dice di sé: "Io sono mite e umile di cuore" (Mt 11,29). Anche questa parola, quindi, "mite", "dolcezza", è una parola cristologica e implica di nuovo questo imitare Cristo. Perché nel Battesimo siamo conformati a Cristo, quindi dobbiamo conformarci a Cristo, trovare questo spirito dell’essere miti, senza violenza, di convincere con l’amore e con la bontà.
"Magnanimità", "makrothymia" vuol dire la generosità del cuore, non essere minimalisti che danno solo ciò che è strettamente necessario: diamo noi stessi con tutto quello che possiamo, e cresciamo anche noi nella magnanimità.
"Sopportandovi nell’amore": è un compito di ogni giorno sopportarsi l’un l’altro nella propria alterità, e proprio sopportandoci con umiltà, imparare il vero amore.
E adesso facciamo un passo avanti. Dopo questa parola della chiamata, segue la dimensione ecclesiale. Abbiamo parlato adesso della vocazione come di una chiamata molto personale: Dio chiama me, conosce me, aspetta la mia risposta personale. Ma, nello stesso tempo, la chiamata di Dio è una chiamata in comunità, è una chiamata ecclesiale, Dio ci chiama in una comunità. E’ vero che in questo brano che stiamo meditando non c’è la parola "ekklesia", la parola "Chiesa", ma appare tanto più la realtà. San Paolo parla di uno Spirito e un corpo. Lo Spirito si crea il corpo e ci unisce come un unico corpo. E poi parla dell’unità, parla della catena dell’essere, del vincolo della pace. E con questa parola accenna alla parola "prigioniero" dell’inizio: è sempre la stessa parola, "io sono in catene", "catene ti terranno", ma dietro sta la grande catena invisibile, liberante dell’amore. Noi siamo in questo vincolo della pace che è la Chiesa, è il grande vincolo che ci unisce con Cristo. Forse dobbiamo anche meditare personalmente su questo punto: siamo chiamati personalmente, ma siamo chiamati in un corpo. E questo non è una cosa astratta, ma molto reale.
In questo momento, il Seminario è il corpo nel quale si realizza concretamente l’essere in un cammino comune. Poi sarà la parrocchia: accettare, sopportare, animare tutta la parrocchia, le persone, quelle simpatiche e quelle non simpatiche, inserirsi in questo corpo. Corpo: la Chiesa è corpo, quindi ha strutture, ha anche realmente un diritto e qualche volta non è così semplice inserirsi. Certo, vogliamo la relazione personale con Dio, però il corpo spesso non ci piace. Ma proprio così siamo in comunione con Cristo: accettando questa corporeità della sua Chiesa, dello Spirito, che si incarna nel corpo.
E dall’altra parte, spesso forse sentiamo il problema, la difficoltà di questa comunità, cominciando dalla comunità concreta del Seminario fino alla grande comunità della Chiesa, con le sue istituzioni. Dobbiamo anche tenere presente che è molto bello essere in una compagnia, camminare in una grande compagnia di tutti i secoli, avere amici in Cielo e in terra, e sentire la bellezza di questo corpo, essere felici che il Signore ci ha chiamati in un corpo e ci ha dato amici in tutte le parti del mondo.
Ho detto che la parola "ekklesia" non c’è qui, ma c’è la parola "corpo", la parola "spirito", la parola "vincolo" e sette volte, in questo piccolo brano, ritorna la parola "uno". Così sentiamo come sta a cuore all’Apostolo l’unità della Chiesa. E finisce con una "scala di unità", fino all’Unità: Uno è Dio, il Dio di tutti. Dio è Uno e l’unicità di Dio si esprime nella nostra comunione, perché Dio è il Padre, il Creatore di tutti noi e perciò tutti siamo fratelli, tutti siamo un corpo e l’unità di Dio è la condizione, è la creazione anche della fraternità umana, della pace. Quindi, meditiamo anche questo mistero dell’unità e l’importanza di cercare sempre l’unità nella comunione dell’unico Cristo, dell’unico Dio.
Ora possiamo fare un ulteriore passo avanti. Se ci domandiamo qual è il senso profondo di questo uso della parola "chiamata", vediamo che essa è una delle porte che si aprono sul mistero trinitario. Finora abbiamo parlato del mistero della Chiesa, dell’unico Dio, ma appare anche il mistero trinitario. Gesù è il mediatore della chiamata del Padre che avviene nello Spirito Santo. La vocazione cristiana non può che avere una forma trinitaria, sia a livello di singola persona, sia a livello di comunità ecclesiale. Il mistero della Chiesa è tutto animato dal dinamismo dello Spirito Santo, che è un dinamismo vocazionale in senso ampio e perenne, a partire da Abramo, che per primo ascoltò la chiamata di Dio e rispose con la fede e con l’azione (cfr Gen 12,1-3); fino all’"eccomi" di Maria, riflesso perfetto di quello del Figlio di Dio, nel momento in cui accoglie dal Padre la chiamata a venire nel mondo (cfr Eb 10,5-7). Così, nel "cuore" della Chiesa – come direbbe santa Teresa di Gesù Bambino – la chiamata di ogni singolo cristiano è un mistero trinitario: il mistero dell’incontro con Gesù, con la Parola fatta carne, mediante la quale Dio Padre ci chiama alla comunione con Sé e per questo ci vuole donare il suo Santo Spirito, ed è proprio grazie allo Spirito che noi possiamo rispondere a Gesù e al Padre in modo autentico, all’interno di una relazione reale, filiale. Senza il soffio dello Spirito Santo la vocazione cristiana semplicemente non si spiega, perde la sua linfa vitale.
E finalmente l’ultimo passaggio. La forma dell’unità secondo lo Spirito richiede, come avevo detto, l’imitazione di Gesù, la conformazione a Lui nella concretezza dei suoi comportamenti. Scrive l’Apostolo, come abbiamo meditato: "Con ogni umiltà, dolcezza e magnanimità, sopportandovi a vicenda nell’amore", e poi aggiunge che l’unità dello spirito va conservata "per mezzo del vincolo della pace" (Ef 4,2-3).
L’unità della Chiesa non è data da uno "stampo" imposto dall’esterno, ma è il frutto di una concordia, di un comune impegno di comportarsi come Gesù, in forza del suo Spirito. C’è un commento di san Giovanni Crisostomo a questo passo che è molto bello. Crisostomo commenta l’immagine del "vincolo", il "vincolo della pace", e dice: "E’ bello questo vincolo, con cui ci leghiamo insieme sia gli uni con gli altri sia con Dio. Non è una catena che ferisce. Non dà crampi alle mani, le lascia libere, dà loro ampio spazio e un coraggio più grande" (Omelie sull’Epistola agli Efesini 9, 4, 1-3). Troviamo qui il paradosso evangelico: l’amore cristiano è un vincolo, come abbiamo detto, ma un vincolo che libera! L’immagine del vincolo, come vi ho detto, ci riporta alla situazione di san Paolo, che è "prigioniero", è "in vincolo". L’Apostolo è in catene a motivo del Signore, come Gesù stesso, si è fatto schiavo per liberarci. Per conservare l’unità dello spirito occorre improntare il proprio comportamento a quella umiltà, dolcezza e magnanimità che Gesù ha testimoniato nella sua passione; bisogna avere le mani e il cuore legati da quel vincolo d’amore che Lui stesso ha accettato per noi, facendosi nostro servo. Questo è il "vincolo della pace". E dice ancora san Giovanni Crisostomo, nello stesso commento: "Legatevi ai vostri fratelli, quelli così legati insieme nell’amore sopportano tutto con facilità… Così egli vuole che siamo legati gli uni agli altri, non solo per essere in pace, non solo per essere amici, ma per essere tutti uno, un’anima sola" (ibid.).
Il testo paolino del quale abbiamo meditato alcuni elementi, è molto ricco. Ho potuto portare a voi solo alcuni spunti, che affido alla vostra meditazione. E preghiamo la Vergine Maria, la Madonna della Fiducia, perché ci aiuti a camminare con gioia nell’unità dello Spirito. Grazie!
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