lunedì 7 marzo 2011

Le ultime parole del ministro Bhatti ricordate dal cardinale Jean-Louis Tauran. "Sapeva che l'avrebbero ucciso"


Le ultime parole del ministro Bhatti ricordate dal cardinale Jean-Louis Tauran

Sapeva che l'avrebbero ucciso


di Jean-Louis Tauran

Si è celebrata ieri, presso il Pontificio Collegio san Pietro Apostolo, la messa di suffragio del ministro pakistano delle Minoranze Shahbaz Bhatti, ucciso da estremisti islamici a Islamabad. Pubblichiamo l'omelia pronunciata dal cardinale presidente del Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso.

La Liturgia della Parola ci ha ricordato che essere cristiani è sempre fare una scelta: tra la luce e le tenebre, tra la fede e la legge, tra la vita e la morte, tra il Dio rivelato da Gesù e la sapienza umana, tra servire e dominare. Non si tratta però solo di ascoltare la Parola di Dio, di ricevere i sacramenti o di acquisire una buona conoscenza. Ma Gesù domanda pure un'altra cosa. Desidera che il "dire" sia accompagnato dal "fare". "Non chiunque mi dice Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio".

Se ci accontentassimo di essere cristiani solo sociologicamente, o peggio, cristiani la cui vita fosse in contraddizione con ciò che diciamo di Gesù, allora correremmo il rischio di sentirci dire un giorno: "Via da me, non vi conosco". Oggi abbiamo davanti a noi la vita luminosa di Shahbaz Bhatti. Aveva scelto Cristo, come salvatore, la Chiesa come madre, ogni essere umano come fratello. Fu coerente fino alla fine. La sua vita fu e rimarrà per sempre una vita immolata, un sacrificio offerto a Dio. Come desiderava, lo troviamo ai piedi della croce di Gesù: "Non voglio posizioni di potere, voglio solo un posto ai piedi di Gesù, voglio che la mia vita, il mio carattere, le mie azioni parlino per me e dicano che sto seguendo Gesù Cristo!".


Queste parole sono così forti che converrebbe tacere. Ma lasciamoci prendere per mano dal nostro amico Shahbaz Bhatti. Seguiamolo fino alla croce di Gesù. Da lì, dice ai suoi aguzzini: "Fino al mio ultimo respiro continuerò a servire Gesù in questa povera umanità sofferente: i cristiani, i bisognosi, i poveri". Poi, con lui, alziamo lo sguardo verso il Crocifisso. È là che comprendiamo la profondità della perdizione dell'uomo, il mistero di iniquità, di cui parlava Paolo, il potere del male. Ma in Gesù crocifisso, scopriamo anche un po' dell'immensità dell'amore divino che redime. La croce ci rivela il volto misericordioso di Cristo, che ci apre sempre il cammino della speranza. Sant'Agostino ha immaginato un dialogo tra Gesù e il Buon Ladrone.

Sant'Agostino gli chiede: "Come hai fatto per capire il dramma del Calvario? Hai studiato le Scritture tra i tuoi latrocini? Come hai fatto a capire le profezie e confessare la tua fede in Cristo in modo così luminoso, proprio quando i suoi discepoli lo stavano abbandonando?". E poi Agostino presta al Buon Ladrone questa risposta: "No, non ho studiato le Scritture, non ho meditato le profezie, ma Gesù mi ha guardato e nel suo sguardo ho capito tutto!".

Poiché, da bambino e da uomo, Shahbaz ha fatto sì che Gesù incrociasse il suo sguardo e aprisse il suo cuore, egli non ha più avuto alcuna paura, anzi ha avuto il coraggio di servire i suoi fratelli cristiani e non cristiani, il proprio Paese, di offrire i suoi servizi alla Chiesa, a rischio della propria vita. Dobbiamo rendere grazie a Dio per aver messo sulla nostra strada quest'autentico "martire", cioè "testimone" della fede cristiana, che ha saputo "dire" e "fare" e che ci ricorda che nella croce si trova l'autentica speranza: la Croce ci spinge a dare la nostra vita per i fratelli; la Croce ci ricorda che l'amore e più forte dell'odio; la Croce ci fa comprendere meglio che c'è più gioia nel dare che nel ricevere; la Croce significa che Dio e sempre più grande di noi uomini, e soprattutto che la vita e più forte della morte.


Se Gesù ha detto: "Nessuno mi toglie la mia vita, ma sono io che la offro" (Giovanni 10, 18), Shahbaz Bhatti ha potuto dire: "Non ho più parole da dire, dedico la mia vita a Gesù!". Non esiste un cristianesimo senza la croce. Il messaggio evangelico disturberà sempre. Ma l'amore dei cristiani per tutti sarà sempre luce, consolazione e solidarietà in mezzo alla violenza. Non mancheranno mai cristiani capaci di portare la luce del vangelo nell'umano senza distruggerlo, ma purificandolo, come ricordava il Santo Padre giorni fa, evocando san Francesco di Sales, il quale scrisse: "l'uomo e la perfezione dell'universo; lo spirito è la perfezione dell'uomo; l'amore è quella dello spirito, e la carità quella dell'amore". Il nostro Amico ha saputo condividere con molti in Pakistan quest'amore cristiano che non esclude nessuno. Se avrà esercitato un potere, sarà stato "il potere del cuore".

Mi vengono alla mente immagini commoventi delle due Eucaristie che ho celebrato in Islamabad e in Lahore, nel mese di novembre scorso. La domenica 28 novembre, il ministro Bhatti venne a salutarmi all'aeroporto di Lahore e mi disse: "So che mi uccideranno. Offro la mia vita per Cristo e per il dialogo interreligioso".

A tutti nostri fratelli e sorelle cattolici del Pakistan giunga il nostro messaggio di comunione nella fede, la speranza e la carità. Spesso si sentono soli, senza protezione. Aspettano molto dalla comunità internazionale. Stamane il Santo Padre li ha raccomandati alla preghiera di tutta la Chiesa.

A tale proposito, come non ricordare che il 1° gennaio, il Papa invitava "i leader delle grandi religioni del mondo e i responsabili delle nazioni a rinnovare il loro impegno per la promozione e la tutela della liberta religiosa, in particolare per la difesa delle minoranze religiose, le quali non costituiscono una minaccia contro l'identità della maggioranza, ma sono al contrario un'opportunità per il dialogo e per il reciproco arricchimento culturale. La loro difesa rappresenta la maniera ideale per consolidare lo spirito di benevolenza, di apertura e di reciprocità con cui tutelare i diritti e le libertà fondamentali in tutte le aree e le regioni del mondo".

Possa Dio farci capire meglio cosa vuol dire "dare la propria vita per i fratelli". In fondo, il peccato, il mistero del male che sembra dominare la scena del mondo, ha forse molto semplicemente la funzione di dare a Dio la gioia di perdonare, e ci sprona a essere, sulle strade della vita dove Gesù ci precede, araldi della sua presenza, convinti che da Lui "riceviamo adesso la riconciliazione" (cfr. Romani 5, 28), per essere a nostra volta riconciliatori degli uomini con Dio per mezzo della Croce.

(©L'Osservatore Romano 7-8 marzo 2011)