Modernismo e senso religioso
La tradizione è più moderna della modernità
Non occorre conservare tutto ciò che si faceva ieri ma trasmetterne l'essenziale
Nell'ambito del ciclo di incontri organizzati dal Centro Culturale di Milano sul tema "Il desiderio e l'uomo contemporaneo. Confronti", nella serata di giovedì 3 marzo a Milano, nell'Aula Magna dell'Università Cattolica del Sacro Cuore, si tiene una conferenza della quale anticipiamo ampi stralci.
di Fabrice Hadjadj
La modernità dell'epoca di Péguy aveva ancora delle ambizioni umaniste. Ora tutto questo è finito. Il secolo trascorso tra l'epoca di Péguy e i nostri tempi ha posto le condizioni per una sparizione completa dell'umanesimo. Il fatto nuovo sta nella coscienza della finitezza non più individuale ma collettiva della specie umana. Il XX secolo, con Kolyma, Auschwitz e Hiroshima (adopero appositamente dei nomi propri perché i nomi comuni non sarebbero sufficienti a definire questi eventi), il XX secolo è stato allo stesso tempo l'era dell'apoteosi e poi della morte delle ideologie del progresso. Perché? Perché il progressismo è stato al potere e, invece di dare vita a una società più giusta, ha prodotto il totalitarismo. Quindi, come dice Rimbaud in Una stagione all'inferno: "A che serve un mondo moderno, se è per inventare veleni simili!". Se poi mettete al di sopra di queste catastrofi il darwinismo che ci spiega come l'umanità altro non sia che un bricolage dovuto alla casualità e alla competizione, diventa difficile credere nell'avvenire, nella storia e nella posterità.
È questo il motivo per cui noi assistiamo a una crisi della modernità e stiamo andando verso il post-umano. Un post-umano che può assumere tre forme: una tecnocratica, una teocratica e una ecologica.
Nel primo caso si tratta di creare un superuomo. Nel secondo caso si promuove un fondamentalismo che schiaccia la cultura umana, mentre nel terzo assistiamo a un ritorno alla cosiddetta Madre Natura. In ognuno di questi casi noi abbiamo perduto ogni speranza per l'uomo storico, colui che promuoveva la modernità. Non crediamo più nella continuità, nella cultura di lunga durata. La tecnocrazia, dal momento che esige l'efficienza, ci schiaccia immediatamente. La teocrazia ci proietta nell'aldilà. L'ambientalismo ci fa ritornare ai cicli naturali.
Questi tre errori si contrappongono l'uno agli altri, ma solo per farci cadere più facilmente in trappola. Denunciandone uno, si rischia sempre di cadere in un altro. È così che il demone gioca da tutti i lati della tavola di scopa.
Questa situazione nuova di crisi della modernità ha tuttavia alcuni vantaggi notevoli: sposta le barriere di un tempo. Il figlio della Chiesa e il partigiano dei Lumi possono diventare alleati di fronte a questa distruzione massiccia della cultura umana. Il moderno può ammettere che la tradizione cristiana aveva qualcosa di buono.
D'altronde - e ve lo accenno solo al volo - la prima occorrenza conosciuta dell'aggettivo basso latino moderni si incontra nel V secolo e serve a designare i cristiani. Ecco perché abbiamo assistito in Francia a una certa difesa della storia e della tradizione da parte di intellettuali piuttosto di sinistra (Max Gallo, Régis Debray, Alain Finkielkraut, e così via).
Com'è possibile questa nuova alleanza? Potremmo spiegarla attraverso un semplice artificio logico e psicologico: di fronte al post-moderno, che rappresenta il nemico comune, i moderni e i sostenitori della tradizione formano un fronte comune.
Ma esiste una ragione più profonda, legata alla lingua. L'amore per le parole, il gusto del linguaggio, la certezza che non sia un mezzo di comunicazione ma un luogo di verità e comunione, uno spazio in cui il mondo si raccoglie e che quindi dobbiamo sforzarci di curare e parlare bene, è questo ciò che unisce antichi e moderni contro la com dei tecnocrati, le bombe dei teocrati e i nitriti dei fanatici ambientalisti.
Il linguaggio ha questo di singolare: nella sua essenza è allo stesso tempo tradizionale e moderno. È tradizionale perché il linguaggio è sempre ricevuto: parlo perché qualcuno ha parlato a me e parlo una lingua il cui nome rimanda a una nazionalità e quindi a una comunità che esiste attraverso i tempi. Il linguaggio, però, è allo stesso tempo anche moderno, perché è attraverso di esso che si può dire "Io", che ci si può affermare qui e ora, che si può protestare, che si possono inventare forme nuove.
Noi non parliamo solo per ripetere, ma per cantare e dunque per variare, rinnovare, far risuonare il linguaggio in un modo nuovo. "Cantate al Signore un canto nuovo", dice il re David. Questa è l'essenza della parola: ci permette di sentire il comandamento antico e di cantare un canto nuovo, ed è ricevuta per poi essere nuovamente donata in maniera unica e personale.
Ciò che è precipuo di una vera novità è che non ha bisogno di rompere con ciò che la precede per affermarsi. Se fosse stata nuova solo per spirito d'avanguardia o di rottura, apparterrebbe a quella forma mutilata di modernità che chiamiamo "moda". La moda propone novità di rottura con ciò che precede.
Ecco perché queste novità diventano ben presto vecchiume: altre novità si affacciano all'orizzonte e la moda passa di moda. La novità mantiene la sua freschezza e la sua giovinezza non allontanandosi da ciò che la precede ma avvicinandosi alla fonte. Non è eccentrica: è originale. Questo vuol dire che non si allontana dal centro, che non cerca di trovare un posto soltanto in relazione a ciò che l'ha preceduta (che sia per prenderne le distanze oppure per avvicinarsene). La novità si volta verso l'origine.
Parlare in maniera davvero nuova, come ha fatto Dante per esempio, non vuol dire rompere ma mettersi in comunicazione con l'origine della parola, e questa origine risiede in un duplice silenzio: il silenzio della morte e il silenzio dell'Eterno. Tutti coloro che hanno parlato con una forza nuova, tutti coloro che hanno cantato un canto nuovo, sono stati capaci di mettersi tra l'angoscia davanti al silenzio della morte e la speranza davanti al silenzio dell'Eterno: hanno attraversato l'inferno e sono stati abbagliati dal paradiso. Resta il fatto che la modernità della lingua è secondaria a confronto con la sua tradizione. Occorre innanzitutto imparare le regole prima di poter giocare. Colui che attacca i propri genitori può farlo solo se li ha prima ascoltati e se è a loro che ancora si rivolge.
Eppure anche la tradizione della lingua è in funzione della sua modernità: l'apprendimento delle regole non è fine a se stesso, ma in funzione di una nuova partita da giocare. Noi non veniamo al mondo per ripetere ciò che ci hanno detto i nostri genitori, né tanto meno per insultarli, ma per dialogare con loro, per rispondere, per arricchire con la nostra melodia la grande corale della vita.
Questa struttura della parola, allo stesso tempo moderna e tradizionale, permette di comprendere la tesi di Romano Guardini in La fine dell'epoca moderna. Secondo Guardini la modernità ha essenzialmente ripreso alcune realtà colte dal cristianesimo per rivoltarle contro il cristianesimo stesso. Sulla base della rivelazione della dignità della persona si costruisce l'individualismo. Sulla base della verità del libero arbitrio si costruisce il liberalismo. Sulla base dell'esigenza della giustizia sociale si costruisce il socialismo, e via discorrendo.
La modernità riconosce un tal fiore evangelico, lo raccoglie e lo mette in un vaso. Il fiore viene addirittura valorizzato, tanto da sembrare persino più meraviglioso. L'isolamento gli dona una luminosità speciale, un profumo estasiante, tanto da far pensare che il fiore non abbia più niente a che vedere con le sue radici. La verità è invece che lo si condanna a marcire.
L'oblio può funzionare solo per un certo periodo di tempo, abbastanza perché il progressismo arrivi a mascherare di essere soltanto un sostituto della speranza teologale.
Ma cosa vediamo oggi? Ve l'ho detto: il crollo dei progressismi e, al contrario, la moda di un catastrofismo generalizzato, e quindi la crisi radicale della modernità. Sarebbe dovuta arrivare prima o poi, poiché tutte queste nozioni recise dalle loro radici e dal loro sole non possono fare altro che perdere a poco a poco la linfa vitale. Paradossalmente oggi la modernità può essere salvata solo facendo ricorso alla tradizione, e più specificamente alla tradizione ebraica e cristiana.
Le speranze mondane sono morte. È impossibile partire da queste e riuscire ancora a credere in una via d'uscita per l'umano. Ma la speranza teologale non può morire. Non dipende dall'avvenire: dipende dall'eterno. Ricordo sempre questo: quando mi avvertiranno che alla fine del mondo non manca che un solo anno, non rinuncerò ad amare mia moglie, ad avere con lei un altro bambino, a fare scoprire agli altri miei cinque figli la poesia di Dante... Perché so che questa vita non serve per avere un futuro ma perché ciascuno abbia la vita eterna.
Il modernismo, ossia la modernità che pretende di basarsi su se stessa, può quindi solo distruggere la modernità. È sempre spazzata via dal post-umano. Perché non si può giocare senza aver prima imparato le regole. In un attimo la protesta si spegne e lascia il posto al programma in codice o al verso dell'animale, perché siamo usciti dalla tradizione e dalla tradizione della parola. Da questo momento la modernità deve rivoltarsi contro il modernismo e la modernizzazione sistematica se vuole rimanere viva e umana. Deve ritrovare la sua tradizione, quella tradizione che riecheggia nel comandamento della Bibbia: "Cantate al Signore un canto nuovo".
La tradizione non è così contrapposta alla modernità quanto si potrebbe immaginare, poiché la tradizione non è né conservatorismo né fascinazione del passato storico.
Ciò che ha orientato verso la distruzione di ogni tradizione è stata proprio la conoscenza storica fine a se stessa: moltiplica le informazioni sul passato, ma solo per metterle in vetrina. Niente è più lontano dalla tradizione di un museo folkloristico. La verità è che la tradizione non consiste in una semplice trasmissione del sapere: è la trasmissione di un saper vivere.
Io posso conoscere con grande precisione tutto ciò che ha fatto Gesù e posso persino sapere la Bibbia a memoria; posso addirittura essere il curatore di un grande museo del cristianesimo. Ma questo rapporto col museo non è un rapporto con la tradizione: la cultura non ha a che fare con il culto. L'erudito conosce la tradizione alla perfezione, ma non vive nella tradizione.
L'anziana che prega Gesù vive nella tradizione, anche se conosce della tradizione quanto ne sa l'erudito. Nella tentazione di Gesù nel deserto, Satana cita a memoria il Deuteronomio, dimostrando di essere un esperto di esegesi storico-critica: vive nell'erudizione per evitare di entrare nella tradizione viva. D'altra parte la tradizione non è un conservatorismo. Un buon esempio ci è dato dal motu proprio di Giovanni Paolo II, Ecclesia Dei adflicta. Questo testo prende atto dello scisma provocato da monsignor Marcel Lefebvre e da quelli che chiamiamo "integralisti" o "tradizionalisti".
Qual è il principio di questo scisma? Non l'amore per la tradizione, dice Giovanni Paolo II, ma l'amore per il conservatorismo, ossia per una forma di conservazione che vuole mantenere tutto assolutamente intatto, e che dunque pietrifica invece di conservare in vita. Lo sapete bene: se volete conservare tutto di un essere vivente, non potete mantenerlo in vita e siete costretti a congelarlo. "La radice di questo atto scismatico è individuabile in una incompleta e contraddittoria nozione di tradizione.
Incompleta, perché non tiene sufficientemente conto del carattere vivo della tradizione che - come ha insegnato chiaramente il concilio Vaticano II - progredisce nella Chiesa sotto l'assistenza dello Spirito Santo". Il tradizionalismo si contrappone alla tradizione perché uccide l'organismo vivente per divenire un adepto del fossile. La vera tradizione non consiste nel conservare tutto di ciò che si faceva ieri, ma nel trasmetterne l'essenziale. E per poterlo trasmettere occorre saper riconoscere i segni del tempo e quindi adattarsi a certe nuove condizioni di trasmissione. Josef Pieper scrive con forza: "Una coscienza autentica della tradizione ci rende liberi e indipendenti di fronte a coloro che pretendono di esserne i "guardiani". Può accadere che questi famosi "difensori della tradizione", proprio per il fatto che si limitano a forme storiche, ostacolino quella che invece è la vera e necessaria trasmissione (che non può avvenire se non con forme storiche mutevoli)".
La vera tradizione è una relazione viva col mistero, nella misura in cui questa relazione è ricevuta e trasmessa, come la parola e la vita, attraverso la parola e la vita, sin dall'origine. La tradizione è dunque più ancora che critica, perché è confronto con ciò che sfugge alla critica, con ciò che ci supera, con ciò che ci pone più interrogativi di quanti non ne poniamo noi, con ciò che ci chiama più di quanto noi sappiamo rispondere.
Anche in questo la tradizione è più moderna della modernità: è sempre avanti, nella misura in cui si basa sulla speranza; non si regge sul futuro prossimo, ma sull'eterno, e dunque su ciò che risorge persino dopo la fine dei tempi. In questo la tradizione è ancora più giovane della modernità, perché la tradizione presuppone che i padri siano anche e prima di tutto dei figli e quindi dei bambini: non hanno avuto l'iniziativa della parola, non hanno inventato la vita, l'hanno soprattutto ricevuta.
Il complesso di Edipo esiste solo fuori dalla tradizione. La rivolta dei Titani esiste solo fuori dalla tradizione. In seno alla tradizione il figlio non ha alcuna ragione di uccidere il padre perché scopre che suo padre è anche un figlio, che ogni originalità pura, ogni vero genio, è sempre filiale. Perché essere figlio dell'Eterno è infinitamente più grande che essere padre per un breve momento.
Lo scrive anche Josef Pieper a proposito della speranza: "La gioventù dell'uomo che aspira all'eterno è per sua natura indistruttibile. Non è esposta né all'invecchiamento né alla delusione".
(©L'Osservatore Romano - 4 marzo 2011)