OMELIA DI
PADRE RANIERO CANTALAMESSA, O.F.M. Cap.,
PADRE RANIERO CANTALAMESSA, O.F.M. Cap.,
PREDICATORE DELLA CASA PONTIFICIA
Basilica di San Pietro
Venerdì Santo, 22 aprile 2011
Nella sua passione — scrive san Paolo a Timoteo — Gesù Cristo «ha dato la sua bella testimonianza» (1 Timoteo, 6, 13). Ci domandiamo: testimonianza di che? Non della verità della sua vita e della sua causa. Molti sono morti, e muoiono ancor oggi, per una causa sbagliata, credendo che sia giusta. La risurrezione, essa sì che testimonia la verità di Cristo: «Dio ha dato a tutti prova sicura su Gesù, risuscitandolo dai morti», dirà l’apostolo all’Areopago di Atene (Atti, 17, 31).
La morte non testimonia la verità, ma l’amore di Cristo. Di tale amore essa costituisce, anzi, la prova suprema: «Nessuno ha amore più grande di quello di dar la sua vita per i suoi amici» (Giovanni, 15, 13). Si potrebbe obbiettare che c’è un amore più grande che dare la vita per i propri amici, ed è dare la vita per i propri nemici. Ma questo è precisamente quello che Gesù ha fatto: «Cristo morì per gli empi, scrive l’apostolo nella Lettera ai Romani. A stento, qualcuno è disposto a morire per un giusto; forse qualcuno oserebbe morire per una persona buona. Ma Dio dimostra il suo amore verso di noi nel fatto che mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi» (Romani, 5, 6-8). «Ci ha amati quando eravamo nemici, per poterci rendere amici» (S. Agostino, Commento alla Prima Lettera di Giovanni, 9, 9 [PL 35, 2051]).
Una certa unilaterale «teologia della croce» può farci dimenticare l’essenziale. La croce non è solo giudizio di Dio sul mondo, confutazione della sua sapienza e rivelazione del suo peccato. Non è il no di Dio al mondo, ma il suo sì d’amore: «L’ingiustizia, il male come realtà — scrive il Papa nel suo ultimo libro su Gesù — non può semplicemente essere ignorato, lasciato stare. Deve essere smaltito, vinto. Questa è la vera misericordia. E che ora, poiché gli uomini non ne sono in grado, lo faccia Dio stesso — questa è la bontà incondizionata di Dio» (cfr. J. Ratzinger - Benedetto XVI, Gesù di Nazaret, II parte, Libreria Editrice Vaticana, 2011, pp. 151).
Ma come avere il coraggio di parlare dell’amore di Dio, mentre abbiamo davanti agli occhi tante sventure umane, come la catastrofe abbattutasi sul Giappone, o le tragedie consumatesi in mare nelle ultime settimane? Non parlarne affatto? Ma rimanere del tutto in silenzio sarebbe tradire la fede e ignorare il senso del mistero che stiamo celebrando.
C’è una verità da proclamare forte il Venerdì santo. Colui che contempliamo sulla croce è Dio «in persona». Sì, è anche l’uomo Gesù di Nazaret, ma questi è una sola persona con il Figlio dell’eterno Padre. Finché non si riconosce e non si prende sul serio il dogma di fede fondamentale dei cristiani — il primo definito dogmaticamente a Nicea — che Gesù Cristo è il Figlio di Dio, Dio lui stesso, della stessa sostanza del Padre, il dolore umano resterà senza risposta.
Non si può dire che «la domanda di Giobbe è rimasta inevasa», che neppure la fede cristiana ha una risposta da dare al dolore umano, se in partenza si rifiuta la risposta che essa dice di avere. Cosa si fa per assicurare qualcuno che una certa bevanda non contiene veleno? La si beve prima di lui, davanti a lui! Così ha fatto Dio con gli uomini. Egli ha bevuto il calice amaro della passione. Non può essere dunque avvelenato il dolore umano, non può essere solo negatività, perdita, assurdo, se Dio stesso ha scelto di assaporarlo. In fondo al calice ci deve essere una perla.
Il nome della perla lo conosciamo: risurrezione! «Io ritengo che le sofferenze del tempo presente non siano paragonabili alla gloria che dev'essere manifestata a nostro riguardo» (Romani, 8, 18), e ancora «Egli asciugherà ogni lacrima dai loro occhi e non ci sarà più la morte, né cordoglio, né grido, né dolore, perché le cose di prima sono passate» (Apocalisse, 21, 4).
Se la corsa per la vita finisse quaggiù, ci sarebbe davvero da disperarsi al pensiero dei milioni e forse miliardi di esseri umani che partono svantaggiati, inchiodati dalla povertà e dal sottosviluppo al punto di partenza, e questo mentre alcuni, pochi, si concedono ogni lusso e non sanno come spendere le somme spropositate che guadagnano.
Ma non è così. La morte non solo azzera le differenze, ma le rovescia. «Morì il povero e fu portato dagli angeli nel seno di Abramo — morì anche il ricco (epulone) e fu sepolto nell’inferno» (cfr. Luca, 16, 22-23). Non possiamo applicare in maniera semplicistica questo schema alla realtà sociale, ma esso è lì ad ammonirci che la fede nella risurrezione non lascia nessuno nel suo quieto vivere. Ci ricorda che la massima «vivere e lasciar vivere» non deve mai trasformarsi nella massima «vivere e lasciar morire».
La risposta della croce non è solo per noi cristiani, è per tutti, perché il Figlio di Dio è morto per tutti. C’è nel mistero della redenzione un aspetto oggettivo e un aspetto soggettivo; c’è il fatto in se stesso e la presa di coscienza e la risposta di fede ad esso. Il primo si estende al di là del secondo. «Lo Spirito Santo — dice un testo del Vaticano II — in un modo noto a Dio, offre a ogni uomo la possibilità di essere associato al mistero pasquale» (Gaudium et spes, 22).
Uno dei modi di essere associati al mistero pasquale è proprio la sofferenza: «Soffrire — scriveva Giovanni Paolo II all’indomani del suo attentato e della lunga degenza a esso seguita — significa diventare particolarmente suscettibili, particolarmente sensibili all’opera delle forze salvifiche di Dio offerte all’umanità in Cristo» (Salvifici doloris, 23). La sofferenza, ogni sofferenza, ma specialmente quella degli innocenti, mette in contatto in modo misterioso, «noto solo a Dio», con la croce di Cristo.
Dopo Gesù, quelli che hanno «dato la loro bella testimonianza» e che «hanno bevuto il calice» sono i martiri! I racconti della loro morte erano intitolati all’inizio «passio», passione, come quello delle sofferenze di Gesù che abbiamo appena ascoltato. Il mondo cristiano è tornato a essere visitato dalla prova del martirio che si credeva finita con la caduta dei regimi totalitari atei. Non possiamo passare sotto silenzio la loro testimonianza. I primi cristiani onoravano i loro martiri. Gli atti del loro martirio venivano letti e fatti circolare tra le chiese con immenso rispetto. Proprio oggi, Venerdì santo del 2011, in un grande Paese dell’Asia, i cristiani hanno pregato e marciato in silenzio per le vie di alcune città per scongiurare la minaccia che incombe su di loro.
C’è una cosa che distingue gli atti autentici dei martiri da quelli leggendari, costruiti a tavolino dopo la fine delle persecuzioni. Nei primi, non c’è quasi traccia di polemica contro i persecutori; tutta l’attenzione è concentrata sull’eroismo dei martiri, non sulla perversità dei giudici e dei carnefici. San Cipriano ordinerà perfino ai suoi di dare venticinque monete d’oro al carnefice che gli taglierà la testa. Sono discepoli di colui che morì dicendo: «Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno». «Il sangue di Gesù — ci ha ricorda il Papa nel suo ultimo libro — parla un’altra lingua rispetto a quello di Abele (cfr. Ebrei, 12, 24): non chiede vendetta e punizione, ma è riconciliazione» (J. Ratzinger - Benedetto XVI, op. cit. p. 211).
Anche il mondo si inchina davanti ai testimoni moderni della fede. Si spiega così l’inatteso successo in Francia del film Uomini di Dio che narra la vicenda dei sette monaci cistercensi trucidati a Tibhirine nel marzo del 1996. E come non rimanere ammirati dalle parole scritte nel suo testamento dall’uomo politico cattolico, Shahbaz Bhatti, ucciso per la sua fede, il mese scorso? Il suo testamento è lasciato anche a noi, suoi fratelli di fede, e sarebbe ingratitudine lasciarlo cadere presto nell’oblio.
«Mi sono state proposte — scriveva — alte cariche al Governo e mi è stato chiesto di abbandonare la mia battaglia, ma io ho sempre rifiutato, persino a rischio della mia stessa vita. Non voglio popolarità, non voglio posizioni di potere. Voglio solo un posto ai piedi di Gesù. Voglio che la mia vita, il mio carattere, le mie azioni parlino per me e dicano che sto seguendo Gesù Cristo. Tale desiderio è così forte in me che mi considererei privilegiato qualora, in questo mio sforzo e in questa mia battaglia per aiutare i bisognosi, i poveri, i cristiani perseguitati del mio Paese, Gesù volesse accettare il sacrificio della mia vita. Voglio vivere per Cristo e per Lui voglio morire».
Sembra di riascoltare il martire Ignazio di Antiochia, quando veniva a Roma a subire il martirio. Il silenzio delle vittime non giustifica però la colpevole indifferenza del mondo dinanzi alla loro sorte. «Perisce il giusto — lamentava il profeta Isaia — e nessuno ci bada. I pii sono tolti di mezzo e nessuno ci fa caso» (Isaia, 57, 1)!
I martiri cristiani non sono i soli, abbiamo visto, a soffrire e a morire intorno a noi. Cosa possiamo offrire a chi non crede, oltre la nostra certezza di fede che c’è un riscatto per il dolore? Possiamo soffrire con chi soffre, piangere con chi piange (Romani, 12, 15). Prima di annunciare la risurrezione e la vita, davanti al lutto delle sorelle di Lazzaro, Gesù «scoppiò in pianto» (Giovanni, 11, 35). In questo momento, soffrire e piangere, in particolare, con il popolo giapponese, reduce da una delle più immani catastrofi naturali della storia. Possiamo anche dire a questi fratelli in umanità che siamo ammirati della loro dignità e dell’esempio di compostezza e mutuo soccorso che hanno dato al mondo.
La globalizzazione ha almeno questo effetto positivo: il dolore di un popolo diventa il dolore di tutti, suscita la solidarietà di tutti. Ci dà occasione di scoprire che siamo una sola famiglia umana, legata nel bene e nel male. Ci aiuta a superare le barriere di razza, colore e religione. Come dice il verso di un nostro poeta, «Uomini, pace! Nella prona terra troppo è il mistero» (G. Pascoli, I due fanciulli).
Dobbiamo però raccogliere anche l’insegnamento che c’è in eventi come questo. Terremoti, uragani e altre sciagure che colpiscono insieme colpevoli e innocenti non sono mai un castigo di Dio. Dire il contrario, significa offendere Dio e gli uomini. Sono però un ammonimento: in questo caso, l’ammonimento a non illuderci che basteranno la scienza e la tecnica a salvarci. Se non sapremo imporci dei limiti, possono diventare proprio esse, lo stiamo vedendo, la minaccia più grave di tutte.
Ci fu un terremoto anche al momento della morte di Cristo: «Il centurione e quelli che con lui facevano la guardia a Gesù, visto il terremoto e le cose avvenute, furono presi da grande spavento e dissero: “Veramente, costui era Figlio di Dio”» (Matteo, 27, 54). Ma ce ne fu un altro ancora «più grande» al momento della sua risurrezione: «Ed ecco si fece un gran terremoto; perché un angelo del Signore, sceso dal cielo, si accostò, rotolò la pietra e vi sedette sopra» (Matteo, 28, 2). Così sarà sempre. A ogni terremoto di morte succederà un terremoto di risurrezione e di vita.
Qualcuno ha detto: «Ormai solo un dio ci può salvare», «Nur noch ein Gott kann uns retten» (Antwort. Martin Heidegger im Gespräch, Pfullingen 1988). Abbiamo una garanzia certa che lo farà perché «Dio ha tanto amato il mondo da dare per esso il suo Figlio unigenito» (Giovanni, 3, 16). Prepariamoci perciò a cantare con rinnovata convinzione e commossa gratitudine le parole della liturgia: «Ecce lignum crucis, in quo salus mundi pependit: Ecco il legno della croce da cui pendette la salvezza del mondo. Venite, adoremus: venite adoriamo».
L'Osservatore Romano, Edizione quotidiana 23 aprile 2011