La carità sia senza finzione
Terza Predica di Quaresima
Predicatore della Casa Pontificia
Cappella Redemptoris Mater del Palazzo Apostolico Vaticano
venerdì, 8 aprile 2011
1. Amerai il prossimo tuo come te stesso
È stato notato un fenomeno curioso. Il fiume Giordano, nel suo corso, forma due mari: il mare di Galilea e il mar Morto, ma mentre il mare di Galilea è un mare brulicante di vita e tra le acque più pescose della terra, il mar Morto è, appunto un mare “morto”, non c’è traccia di vita in esso e intorno ad esso, solo salsedine. Eppure si tratta della stessa acqua del Giordano. La spiegazione, almeno in parte, è questa: il mare di Galilea riceve le acque del Giordano, ma non le trattiene per se, le fa defluire in modo che esse possano irrigare tutta la valle del Giordano. Il mar Morto riceve le acque del Giordano e le trattiene per se, non ha emissari, da esso non esce una goccia d’acqua. È un simbolo. Non possiamo limitarci a ricevere amore, dobbiamo anche donarlo. È su questo che vogliamo riflettere in questa meditazione. L’acqua che Gesù ci da, deve diventare in noi “fontana che zampilla” (Gv 4, 14).
Dopo aver riflettuto nelle prime due meditazioni sull’amore di Dio come dono, è venuto il momento di meditare anche sul dovere di amare, e in particolare sul dovere di amare il prossimo. Il legame tra i due amori è espresso in maniera programmatica dalla parola di Dio: “Se Dio ci ha tanto amati, anche noi dobbiamo amarci gli uni gli altri” (1 Gv 4,11).
“Amerai il prossimo tuo come te stesso” era un comandamento antico, scritto nella legge di Mosè (Lev 19,18) e Gesù stesso lo cita come tale (Lc 10, 27). Come mai dunque Gesù lo chiama il “suo” comandamento e il comandamento “nuovo”? La risposta è che con lui sono cambiati l’oggetto, il soggetto e il motivo dell’amore del prossimo.
È cambiato anzitutto l’oggetto, cioè chi è il prossimo da amare. Esso non è più solo il connazionale, o al massimo l’ospite che abita con il popolo, ma ogni uomo, anche lo straniero (il Samaritano!), anche il nemico. È vero che la seconda parte della frase “Amerai il prossimo tuo e odierai il tuo nemico” non si trova alla lettera nell’Antico Testamento, ma essa ne riassume l’orientamento generale, espresso nella legge del taglione “occhio per occhio, dente per dente” (Lev 24,20), soprattutto se messo in confronto con ciò che Gesù esige dai suoi:
“Ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano, affinché siate figli del Padre vostro che è nei cieli; poiché egli fa levare il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti. Se infatti amate quelli che vi amano, che premio ne avete? Non fanno lo stesso anche i pubblicani? E se salutate soltanto i vostri fratelli, che fate di straordinario? Non fanno anche i pagani altrettanto?” (Mt 5, 44-47).
È cambiato anche il soggetto dell’amore del prossimo, cioè il significato della parola prossimo. Esso non è l’altro; sono io; non è colui che sta vicino, ma colui che si fa vicino. Con la parabola del buon samaritano Gesù dimostra che non bisogna attendere passivamente che il prossimo spunti sulla mia strada, con tanto di segnalazione luminosa, a sirene spiegate. Il prossimo sei tu, cioè colui che tu puoi diventare. Il prossimo non esiste in partenza, si avrà un prossimo solo se si diventa prossimo di qualcuno.
È cambiato soprattutto il criterio o la misura dell’amore del prossimo. Fino a Gesù il modello era l’amore di se stessi: “come te stesso”. È stato detto che Dio non poteva assicurare l’amore del prossimo a un “piolo” meglio confitto di questo; non avrebbe ottenuto lo stesso scopo neppure se avesse detto: “Amerai il prossimo tuo come il tuo Dio!”, perché sull’amore di Dio – cioè, su cos’è amare Dio – l’uomo può ancora barare, ma sull’amore di sé, no. L’uomo sa benissimo cosa significa, in ogni circostanza, amare se stesso; è uno specchio che ha sempre davanti a sé, non lascia scappatoie[1].
E invece una scappatoia la lascia ed è per questo che Gesù sostituisce ad esso un altro modello e un’altra misura: “Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io ho amato voi” (Gv 15,12). L’uomo può amare se stesso in modo sbagliato, cioè desiderare il male, non il bene, amare il vizio, non la virtù. Se un simile uomo ama gli altri “come se stesso” e vuole per gli altri le cose che vuole per se stesso, poveretta la persona che è amata così! Sappiamo invece dove ci porta l’amore di Gesù: alla verità, al bene, al Padre. Chi segue lui “non cammina nelle tenebre”. Egli ci ha amato dando la vita per noi, quando eravamo peccatori, cioè nemici (Rom 5, 6 ss).
Si capisce in questo modo cosa vuol dire l’evangelista Giovanni con la sua affermazione apparentemente contraddittoria: “Carissimi, non vi scrivo un comandamento nuovo, ma un comandamento vecchio che avevate fin da principio: il comandamento vecchio è la parola che avete udita. E tuttavia è un comandamento nuovo che io vi scrivo” (1 Gv 2, 7-8). Il comandamento dell’amore del prossimo è “antico” nella lettera, ma “nuovo” della novità stessa del vangelo. Nuovo - spiega il papa in un capitolo del suo nuovo libro su Gesù - perché non è più solo “legge”, ma anche, e prima ancora, “grazia”. Si fonda sulla comunione con Cristo, resa possibile dal dono dello Spirito.[2]
Con Gesù si passa dal rapporto a due: “Quello che l’altro fa a te, tu fallo a lui”, al rapporto a tre: “Quello che Dio ha fatto a te, tu fallo all’altro”, o, partendo dalla direzione opposta: “Quello che tu avrai fatto con l’altro, è quello che Dio farà con te”. Non si contano le parole di Gesù e degli apostoli che ripetono questo concetto: “Come Dio ha perdonato voi, così perdonatevi gli uni gli altri”: “Se non perdonerete di cuore ai vostri nemici, neppure il padre vostro perdonerà a voi”. È tagliata alla radice la scusa: “Ma lui non mi ama, mi offende…”. Questo riguarda lui, non te. A te deve interessare solo quello che fai all’altro e come ti comporti di fronte a quello che l’altro fa a te.
Resta però da rispondere alla domanda principale: perché questo singolare dirottamento dell’amore da Dio al prossimo? Non sarebbe più logico aspettarsi: “Come io ho amato voi, così voi amate me”?, anziché: “Come io ho amato voi, così voi amatevi gli uni gli altri”? Qui sta la differenza tra l’amore puramente di eros e l’amore di eros e agape insieme. L’amore puramente erotico è a circuito chiuso: “Amami, Alfredo, amami quant’io t’amo”: così canta Violetta nella Traviata di Verdi: io amo te, tu ami me. L’amore di agape è a circuito aperto: viene da Dio e torna a lui, ma passando per il prossimo. Gesù ha inaugurato lui stesso questo nuovo genere di amore: “Come il Padre ha amato me, così anch’io ho amato voi” (Gv 15, 9).
Santa Caterina da Siena ha dato, del motivo di ciò, la spiegazione più semplice e convincente. Ella fa dire a Dio:
“Io vi chiedo di amarmi con lo stesso amore con cui io amo voi. Questo non lo potete fare a me, perché io vi amai senza essere amato. Tutto l'amore che avete per me è un amore di debito, non di grazia, in quanto siete tenuti a farlo, mentre io vi amo con amore di grazia, non di debito. Voi non potete dunque rendere a me l'amore che io richiedo. Per questo vi ho messo accanto il vostro prossimo: affinché facciate ad esso quello che non potete fare a me, cioè di amarlo senza considerazione di merito e senza aspettarvi alcuna utilità. E io reputo che facciate a me quello che fate ad esso”[3].
2. Amatevi di vero cuore
Dopo queste riflessioni generali sul comandamento dell’amore del prossimo, è venuto il momento di parlare delle qualità che deve rivestire questo amore. Esse sono fondamentalmente due: deve essere un amore sincero e un amore fattivo, un amore del cuore e un amore, per così dire, delle mani. Questa volta ci soffermiamo sulla prima qualità e lo facciamo lasciandoci guidare dal grande cantore della carità che è Paolo.
La seconda parte della Lettera ai Romani è tutto un susseguirsi di raccomandazioni circa l’amore vicendevole all’interno della comunità cristiana: “La carità non abbia finzioni [...]; amatevi gli uni gli altri con affetto fraterno, gareggiate nello stimarvi a vicenda...” (Rm 12, 9 ss). “Non abbiate alcun debito con nessuno, se non quello di un amore vicendevole, perché chi ama il suo simile ha adempiuto alla legge” (Rm 13, 8).
Per cogliere l’anima che unifica tutte queste raccomandazioni, l’idea di fondo, o, meglio, il “sentimento” che Paolo ha della carità bisogna partire da quella parola iniziale: “La carità non abbia finzioni!” Essa non è una delle tante esortazioni, ma la matrice da cui derivano tutte le altre. Contiene il segreto della carità. Cerchiamo di cogliere, con l’aiuto dello Spirito, tale segreto.
Il termine originale usato da san Paolo e che viene tradotto “senza finzioni”, è anhypòkritos, cioè senza ipocrisia. Questo vocabolo è una specie di luce-spia; è, infatti, un termine raro che troviamo impiegato, nel Nuovo Testamento, quasi esclusivamente per definire l’amore cristiano. L’espressione “amore sincero” (anhypòkritos) ritorna ancora in 2 Corinzi 6, 6 e in 1 Pietro 1, 22. Quest’ultimo testo permette di cogliere, con tutta certezza, il significato del termine in questione, perché lo spiega con una perifrasi; l’amore sincero – dice – consiste nell’amarsi intensamente “di vero cuore”.
San Paolo, dunque, con quella semplice affermazione: “la carità sia senza finzioni!”, porta il discorso alla radice stessa della carità, al cuore. Quello che si richiede dall’amore è che sia vero, autentico, non finto. Come il vino, per essere “sincero”, deve essere spremuto dall’uva, così l’amore dal cuore. Anche in ciò l’Apostolo è l’eco fedele del pensiero di Gesù; egli, infatti, aveva indicato, ripetutamente e con forza, il cuore, come il “luogo” in cui si decide il valore di ciò che l’uomo fa, ciò che è puro, o impuro, nella vita di una persona (Mt 15, 19).
Possiamo parlare di un’intuizione paolina, a riguardo della carità; essa consiste nel rivelare, dietro l’universo visibile ed esteriore della carità, fatto di opere e di parole, un altro universo tutto interiore, che è, nei confronti del primo, ciò che è l’anima per il corpo. Ritroviamo questa intuizione nell’altro grande testo sulla carità, che è 1 Corinzi 13. Ciò che san Paolo dice lì, a osservare bene, si riferisce tutto a questa carità interiore, alle disposizioni e ai sentimenti di carità: la carità è paziente, è benigna, non è invidiosa, non si adira, tutto copre, tutto crede, tutto spera... Nulla che riguardi, per sé e direttamente, il fare del bene, o le opere di carità, ma tutto è ricondotto alla radice del volere bene. La benevolenza viene prima della beneficenza.
È l’Apostolo stesso che esplicita la differenza tra le due sfere della carità, dicendo che il più grande atto di carità esteriore - il distribuire ai poveri tutte le proprie sostanze - non gioverebbe a nulla, senza la carità interiore (cf. 1 Cor 13, 3). Sarebbe l’opposto della carità “sincera”. La carità ipocrita, infatti, è proprio quella che fa del bene, senza voler bene, che mostra all’esterno qualcosa che non ha un corrispettivo nel cuore. In questo caso, si ha una parvenza di carità, che può, al limite, nascondere egoismo, ricerca di sé, strumentalizzazione del fratello, o anche semplice rimorso di coscienza.
Sarebbe un errore fatale contrapporre tra di loro carità del cuore e carità dei fatti, o rifugiarsi nella carità interiore, per trovare in essa una specie di alibi alla mancanza di carità fattiva. Del resto, dire che, senza la carità, “a niente mi giova” anche il dare tutto ai poveri, non significa dire che ciò non serve a nessuno e che è inutile; significa piuttosto dire che non giova “a me”, mentre può giovare al povero che la riceve. Non si tratta, dunque, di attenuare l’importanza delle opere di carità (lo vedremo, dicevo, la prossima volta), quanto di assicurare a esse un fondamento sicuro contro l’egoismo e le sue infinite astuzie. San Paolo vuole che i cristiani siano “radicati e fondati nella carità” (Ef 3, 17), cioè che l’amore sia la radice e il fondamento di tutto.
Amare sinceramente significa amare a questa profondità, là dove non puoi più mentire, perché sei solo davanti a te stesso, solo davanti allo specchio della tua coscienza, sotto lo sguardo di Dio. “Ama il fratello –scrive Agostino – colui che, davanti a Dio, là dove egli solo vede, rassicura il suo cuore e si chiede nell’intimo se veramente agisce così per amore del fratello; e quell’occhio che penetra nel cuore, là dove l’uomo non può giungere, gli rende testimonianza”[4]. Era amore sincero perciò quello di Paolo per gli ebrei se poteva dire: “Dico la verità in Cristo, non mento; poiché la mia coscienza me lo conferma per mezzo dello Spirito Santo ho una grande tristezza e una sofferenza continua nel mio cuore; io stesso vorrei essere anatema, separato da Cristo, per amore dei miei fratelli, miei parenti secondo la carne” (Rom 9,1-3).
Per essere genuina, la carità cristiana deve, dunque, partire dall’interiore, dal cuore; le opere di misericordia dalle “viscere di misericordia” (Col 3, 12). Tuttavia, dobbiamo subito precisare che qui si tratta di qualcosa di molto più radicale della semplice “interiorizzazione”, cioè di uno spostare l’accento dalla pratica esteriore della carità alla pratica interiore. Questo è solo il primo passo. L’interiorizzazione approda alla divinizzazione! Il cristiano – diceva san Pietro – è colui che ama “di vero cuore”: ma con quale cuore? Con “il cuore nuovo e lo Spirito nuovo” ricevuto nel battesimo!
Quando un cristiano ama così, è Dio che ama attraverso di lui; egli diventa un canale dell’amore di Dio. Avviene come per la consolazione che altro non è se non una modalità dell’amore: “Dio ci consola in ogni nostra tribolazione perché possiamo anche noi consolare quelli che si trovano in ogni genere di afflizione con la consolazione con cui siamo consolati noi stessi da Dio” (2 Cor 1, 4). Noi consoliamo con la consolazione con cui siamo consolati da Dio, amiamo con l’amore con cui siamo amati da Dio. Non con uno diverso. Questo spiega la risonanza, apparentemente sproporzionata, che ha talvolta un semplicissimo atto di amore, spesso perfino nascosto, la speranza e la luce che crea all’intorno.
3. La carità edifica
Quando si parla della carità negli scritti apostolici, non se ne parla mai in astratto, in modo generico. Lo sfondo è sempre l’edificazione della comunità cristiana. In altre parole, il primo ambito di esercizio della carità deve essere la Chiesa e più concretamente ancora la comunità in cui si vive, le persone con cui si hanno relazioni quotidiane. Così deve avvenire anche oggi, in particolare nel cuore della Chiesa, tra coloro che lavorano a stretto contatto con il Sommo Pontefice.
Per un certo tempo, nell'antichità, si usò designare con il termine carità, agape, non solo il pasto fraterno che i cristiani prendevano insieme, ma anche l'intera Chiesa[5]. Il martire sant'Ignazio di Antiochia saluta la Chiesa di Roma come quella che “che presiede alla carità (agape)”, cioè alla “fraternità cristiana”, all’insieme di tutte le chiese[6]. Questa frase non afferma solo il fatto del primato di Roma, ma anche la sua natura, o il modo di esercitarlo: cioè nella carità. La frase si può tradurre in due modi: la chiesa romana “presiede alla carità”, o “presiede nella carità”, con carità.
La Chiesa ha urgente bisogno di una vampata di carità che risani le sue fratture. In un suo discorso Paolo VI diceva: “La Chiesa ha bisogno di sentire rifluire per tutte le sue umane facoltà l’onda dell’amore, di quell’amore che si chiama carità, e che appunto è diffusa nei nostri cuori proprio dallo Spirito Santo che a noi è stato dato” [7]. Solo l'amore guarisce. È l'olio del samaritano. Olio anche perché deve galleggiare al di sopra di tutto come fa l'olio rispetto ai liquidi. “Al di sopra di tutto vi sia la carità che è il vincolo della perfezione” (Col 3, 14). Al di sopra di tutto, super omnia! Dunque anche della fede e della speranza, della disciplina, dell'autorità, anche se, evidentemente, la stessa disciplina e autorità può essere un'espressione della carità.
Un ambito importante su cui lavorare è quello dei giudizi reciproci. Paolo scriveva ai Romani: “Perché giudichi il tuo fratello? Perché disprezzi il tuo fratello?... Cessiamo dunque dal giudicarci gli uni gli altri” (Rm 14, 10.13). Prima di lui Gesù aveva detto: “Non giudicate, per non essere giudicati. [...] Perché osservi la pagliuzza nell’occhio del tuo fratello, mentre non ti accorgi della trave che hai nel tuo occhio?” (Mt 7, 1-3). Paragona il peccato del prossimo (il peccato giudicato), qualunque esso sia, a una pagliuzza, in confronto al peccato di colui che giudica (il peccato di giudicare) che è una trave. La trave è il fatto stesso di giudicare, tanto esso è grave agli occhi di Dio.
Il discorso sui giudizi è certamente delicato e complesso e non si può lasciare a metà, senza che appaia subito poco realistico. Come si fa, infatti, a vivere del tutto senza giudicare? Il giudizio è implicito in noi perfino in uno sguardo. Non possiamo osservare, ascoltare, vivere, senza dare delle valutazioni, cioè senza giudicare. Un genitore, un superiore, un confessore, un giudice, chiunque ha una qualche responsabilità su altri, deve giudicare. Talvolta, anzi, come è il caso di molti qui in Curia, il giudicare è, appunto, il tipo di servizio che uno è chiamato a prestare alla società o alla Chiesa.
Difatti, non è tanto il giudizio che si deve togliere dal nostro cuore, quanto il veleno dal nostro giudizio! Cioè l’astio, la condanna. Nella redazione di Luca, il comando di Gesù: “Non giudicate e non sarete giudicati” è seguito immediatamente, come per esplicitare il senso di queste parole, dal comando: “Non condannate e non sarete condannati” (Lc 6, 37). Per sé, il giudicare è un’azione neutrale, il giudizio può terminare sia in condanna che in assoluzione e in giustificazione. Sono i giudizi negativi che vengono ripresi e banditi dalla parola di Dio, quelli che insieme con il peccato condannano anche il peccatore, quelli che mirano più alla punizione che alla correzione del fratello.
Un altro punto qualificante della carità sincera è la stima: “Gareggiate nello stimarvi a vicenda” (Rm 12, 10). Per stimare il fratello, bisogna non stimare troppo se stessi, non essere sempre sicuri di sé; bisogna – dice l’Apostolo – “non farsi un’idea troppo alta di se stessi” (Rm 12, 3). Chi ha un’idea troppo alta di se stesso è come un uomo che, di notte, tiene davanti agli occhi una fonte di luce intensa: non riesce a vedere nient’altro al di là di essa; non riesce a vedere le luci dei fratelli, i loro pregi e i loro valori.
“Minimizzare” deve diventare il nostro verbo preferito, nei rapporti con gli altri: minimizzare i nostri pregi e i difetti altrui. Non minimizzare i nostri difetti e i pregi altrui, come, invece, siamo portati a fare spesso, che è la cosa diametralmente opposta! C’è una favola di Esopo al riguardo; nella rielaborazione che ne fa La Fontaine suona così:
“Quando viene in questa valle
porta ognuno sulle spalle
una duplice bisaccia.
Dentro a quella che sta innanzi
volentieri ognun di noi
i difetti altrui vi caccia,
e nell’altra mette i suoi”[8].
Dovremmo semplicemente rovesciare le cose: mettere i nostri difetti sulla bisaccia che abbiamo davanti e i difetti degli altri su quella di dietro. San Giacomo ammonisce: “Non sparlate gli uni degli altri” (Gc 4,11). Il pettegolezzo oggi ha cambiato nome, si chiama gossip. Sembra diventato una cosa innocente, invece è una delle cose che più inquinano il vivere insieme. Non basta non sparlare degli altri; bisogna anche impedire che altri lo facciano in nostra presenza, far loro capire, magari silenziosamente, che non si è d’accordo. Che aria diversa si respira in un ambiente quando si prende sul serio l’ammonizione di san Giacomo! In molti locali pubblici una volta c’era la scritta: “Qui non si fuma”, o anche “Qui non si bestemmia”. Non sarebbe male sostituirle in alcuni casi con la scritta: “Qui non si fa pettegolezzo!”
Terminiamo ascoltando come rivolta a noi l’esortazione dell’Apostolo alla comunità di Filippi: “Rendete perfetta la mia gioia, avendo un medesimo pensare, un medesimo amore, essendo di un animo solo e di un unico sentimento. Non fate nulla per spirito di parte o per vanagloria, ma ciascuno, con umiltà, stimi gli altri superiori a se stesso, cercando ciascuno non il proprio interesse, ma anche quello degli altri. Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù” (Fil 2, 2-5).
NOTE
[1] Cf. S. Kierkegaard, Gli atti dell’amore, Milano, Rusconi, 1983, p. 163.
[2] J. Ratzinger - Benedetto XVI, Gesù di Nazaret, II Parte, Libreria Editrice Vaticana 2011, pp. 76 s.
[3] S. Caterina da Siena, Dialogo 64.
[4] S. Agostino, Commento alla Prima Lettera di Giovanni, 6,2 (PL 35, 2020).
[5] Lampe, A Patristic Greek Lexicon, Oxford 1961, p. 8
[6] S. Ignazio d'Antiochia, Lettera ai Romani, saluto iniziale.
[7] Discorso all’udienza generale del 29 Novembre 1972 (Insegnamenti di Paolo VI, Tipografia Poliglotta Vaticana, X, pp. 1210s.).
[8] J. de La Fontaine, Favole, I, 7.
È stato notato un fenomeno curioso. Il fiume Giordano, nel suo corso, forma due mari: il mare di Galilea e il mar Morto, ma mentre il mare di Galilea è un mare brulicante di vita e tra le acque più pescose della terra, il mar Morto è, appunto un mare “morto”, non c’è traccia di vita in esso e intorno ad esso, solo salsedine. Eppure si tratta della stessa acqua del Giordano. La spiegazione, almeno in parte, è questa: il mare di Galilea riceve le acque del Giordano, ma non le trattiene per se, le fa defluire in modo che esse possano irrigare tutta la valle del Giordano. Il mar Morto riceve le acque del Giordano e le trattiene per se, non ha emissari, da esso non esce una goccia d’acqua. È un simbolo. Non possiamo limitarci a ricevere amore, dobbiamo anche donarlo. È su questo che vogliamo riflettere in questa meditazione. L’acqua che Gesù ci da, deve diventare in noi “fontana che zampilla” (Gv 4, 14).
Dopo aver riflettuto nelle prime due meditazioni sull’amore di Dio come dono, è venuto il momento di meditare anche sul dovere di amare, e in particolare sul dovere di amare il prossimo. Il legame tra i due amori è espresso in maniera programmatica dalla parola di Dio: “Se Dio ci ha tanto amati, anche noi dobbiamo amarci gli uni gli altri” (1 Gv 4,11).
“Amerai il prossimo tuo come te stesso” era un comandamento antico, scritto nella legge di Mosè (Lev 19,18) e Gesù stesso lo cita come tale (Lc 10, 27). Come mai dunque Gesù lo chiama il “suo” comandamento e il comandamento “nuovo”? La risposta è che con lui sono cambiati l’oggetto, il soggetto e il motivo dell’amore del prossimo.
È cambiato anzitutto l’oggetto, cioè chi è il prossimo da amare. Esso non è più solo il connazionale, o al massimo l’ospite che abita con il popolo, ma ogni uomo, anche lo straniero (il Samaritano!), anche il nemico. È vero che la seconda parte della frase “Amerai il prossimo tuo e odierai il tuo nemico” non si trova alla lettera nell’Antico Testamento, ma essa ne riassume l’orientamento generale, espresso nella legge del taglione “occhio per occhio, dente per dente” (Lev 24,20), soprattutto se messo in confronto con ciò che Gesù esige dai suoi:
“Ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano, affinché siate figli del Padre vostro che è nei cieli; poiché egli fa levare il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti. Se infatti amate quelli che vi amano, che premio ne avete? Non fanno lo stesso anche i pubblicani? E se salutate soltanto i vostri fratelli, che fate di straordinario? Non fanno anche i pagani altrettanto?” (Mt 5, 44-47).
È cambiato anche il soggetto dell’amore del prossimo, cioè il significato della parola prossimo. Esso non è l’altro; sono io; non è colui che sta vicino, ma colui che si fa vicino. Con la parabola del buon samaritano Gesù dimostra che non bisogna attendere passivamente che il prossimo spunti sulla mia strada, con tanto di segnalazione luminosa, a sirene spiegate. Il prossimo sei tu, cioè colui che tu puoi diventare. Il prossimo non esiste in partenza, si avrà un prossimo solo se si diventa prossimo di qualcuno.
È cambiato soprattutto il criterio o la misura dell’amore del prossimo. Fino a Gesù il modello era l’amore di se stessi: “come te stesso”. È stato detto che Dio non poteva assicurare l’amore del prossimo a un “piolo” meglio confitto di questo; non avrebbe ottenuto lo stesso scopo neppure se avesse detto: “Amerai il prossimo tuo come il tuo Dio!”, perché sull’amore di Dio – cioè, su cos’è amare Dio – l’uomo può ancora barare, ma sull’amore di sé, no. L’uomo sa benissimo cosa significa, in ogni circostanza, amare se stesso; è uno specchio che ha sempre davanti a sé, non lascia scappatoie[1].
E invece una scappatoia la lascia ed è per questo che Gesù sostituisce ad esso un altro modello e un’altra misura: “Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io ho amato voi” (Gv 15,12). L’uomo può amare se stesso in modo sbagliato, cioè desiderare il male, non il bene, amare il vizio, non la virtù. Se un simile uomo ama gli altri “come se stesso” e vuole per gli altri le cose che vuole per se stesso, poveretta la persona che è amata così! Sappiamo invece dove ci porta l’amore di Gesù: alla verità, al bene, al Padre. Chi segue lui “non cammina nelle tenebre”. Egli ci ha amato dando la vita per noi, quando eravamo peccatori, cioè nemici (Rom 5, 6 ss).
Si capisce in questo modo cosa vuol dire l’evangelista Giovanni con la sua affermazione apparentemente contraddittoria: “Carissimi, non vi scrivo un comandamento nuovo, ma un comandamento vecchio che avevate fin da principio: il comandamento vecchio è la parola che avete udita. E tuttavia è un comandamento nuovo che io vi scrivo” (1 Gv 2, 7-8). Il comandamento dell’amore del prossimo è “antico” nella lettera, ma “nuovo” della novità stessa del vangelo. Nuovo - spiega il papa in un capitolo del suo nuovo libro su Gesù - perché non è più solo “legge”, ma anche, e prima ancora, “grazia”. Si fonda sulla comunione con Cristo, resa possibile dal dono dello Spirito.[2]
Con Gesù si passa dal rapporto a due: “Quello che l’altro fa a te, tu fallo a lui”, al rapporto a tre: “Quello che Dio ha fatto a te, tu fallo all’altro”, o, partendo dalla direzione opposta: “Quello che tu avrai fatto con l’altro, è quello che Dio farà con te”. Non si contano le parole di Gesù e degli apostoli che ripetono questo concetto: “Come Dio ha perdonato voi, così perdonatevi gli uni gli altri”: “Se non perdonerete di cuore ai vostri nemici, neppure il padre vostro perdonerà a voi”. È tagliata alla radice la scusa: “Ma lui non mi ama, mi offende…”. Questo riguarda lui, non te. A te deve interessare solo quello che fai all’altro e come ti comporti di fronte a quello che l’altro fa a te.
Resta però da rispondere alla domanda principale: perché questo singolare dirottamento dell’amore da Dio al prossimo? Non sarebbe più logico aspettarsi: “Come io ho amato voi, così voi amate me”?, anziché: “Come io ho amato voi, così voi amatevi gli uni gli altri”? Qui sta la differenza tra l’amore puramente di eros e l’amore di eros e agape insieme. L’amore puramente erotico è a circuito chiuso: “Amami, Alfredo, amami quant’io t’amo”: così canta Violetta nella Traviata di Verdi: io amo te, tu ami me. L’amore di agape è a circuito aperto: viene da Dio e torna a lui, ma passando per il prossimo. Gesù ha inaugurato lui stesso questo nuovo genere di amore: “Come il Padre ha amato me, così anch’io ho amato voi” (Gv 15, 9).
Santa Caterina da Siena ha dato, del motivo di ciò, la spiegazione più semplice e convincente. Ella fa dire a Dio:
“Io vi chiedo di amarmi con lo stesso amore con cui io amo voi. Questo non lo potete fare a me, perché io vi amai senza essere amato. Tutto l'amore che avete per me è un amore di debito, non di grazia, in quanto siete tenuti a farlo, mentre io vi amo con amore di grazia, non di debito. Voi non potete dunque rendere a me l'amore che io richiedo. Per questo vi ho messo accanto il vostro prossimo: affinché facciate ad esso quello che non potete fare a me, cioè di amarlo senza considerazione di merito e senza aspettarvi alcuna utilità. E io reputo che facciate a me quello che fate ad esso”[3].
2. Amatevi di vero cuore
Dopo queste riflessioni generali sul comandamento dell’amore del prossimo, è venuto il momento di parlare delle qualità che deve rivestire questo amore. Esse sono fondamentalmente due: deve essere un amore sincero e un amore fattivo, un amore del cuore e un amore, per così dire, delle mani. Questa volta ci soffermiamo sulla prima qualità e lo facciamo lasciandoci guidare dal grande cantore della carità che è Paolo.
La seconda parte della Lettera ai Romani è tutto un susseguirsi di raccomandazioni circa l’amore vicendevole all’interno della comunità cristiana: “La carità non abbia finzioni [...]; amatevi gli uni gli altri con affetto fraterno, gareggiate nello stimarvi a vicenda...” (Rm 12, 9 ss). “Non abbiate alcun debito con nessuno, se non quello di un amore vicendevole, perché chi ama il suo simile ha adempiuto alla legge” (Rm 13, 8).
Per cogliere l’anima che unifica tutte queste raccomandazioni, l’idea di fondo, o, meglio, il “sentimento” che Paolo ha della carità bisogna partire da quella parola iniziale: “La carità non abbia finzioni!” Essa non è una delle tante esortazioni, ma la matrice da cui derivano tutte le altre. Contiene il segreto della carità. Cerchiamo di cogliere, con l’aiuto dello Spirito, tale segreto.
Il termine originale usato da san Paolo e che viene tradotto “senza finzioni”, è anhypòkritos, cioè senza ipocrisia. Questo vocabolo è una specie di luce-spia; è, infatti, un termine raro che troviamo impiegato, nel Nuovo Testamento, quasi esclusivamente per definire l’amore cristiano. L’espressione “amore sincero” (anhypòkritos) ritorna ancora in 2 Corinzi 6, 6 e in 1 Pietro 1, 22. Quest’ultimo testo permette di cogliere, con tutta certezza, il significato del termine in questione, perché lo spiega con una perifrasi; l’amore sincero – dice – consiste nell’amarsi intensamente “di vero cuore”.
San Paolo, dunque, con quella semplice affermazione: “la carità sia senza finzioni!”, porta il discorso alla radice stessa della carità, al cuore. Quello che si richiede dall’amore è che sia vero, autentico, non finto. Come il vino, per essere “sincero”, deve essere spremuto dall’uva, così l’amore dal cuore. Anche in ciò l’Apostolo è l’eco fedele del pensiero di Gesù; egli, infatti, aveva indicato, ripetutamente e con forza, il cuore, come il “luogo” in cui si decide il valore di ciò che l’uomo fa, ciò che è puro, o impuro, nella vita di una persona (Mt 15, 19).
Possiamo parlare di un’intuizione paolina, a riguardo della carità; essa consiste nel rivelare, dietro l’universo visibile ed esteriore della carità, fatto di opere e di parole, un altro universo tutto interiore, che è, nei confronti del primo, ciò che è l’anima per il corpo. Ritroviamo questa intuizione nell’altro grande testo sulla carità, che è 1 Corinzi 13. Ciò che san Paolo dice lì, a osservare bene, si riferisce tutto a questa carità interiore, alle disposizioni e ai sentimenti di carità: la carità è paziente, è benigna, non è invidiosa, non si adira, tutto copre, tutto crede, tutto spera... Nulla che riguardi, per sé e direttamente, il fare del bene, o le opere di carità, ma tutto è ricondotto alla radice del volere bene. La benevolenza viene prima della beneficenza.
È l’Apostolo stesso che esplicita la differenza tra le due sfere della carità, dicendo che il più grande atto di carità esteriore - il distribuire ai poveri tutte le proprie sostanze - non gioverebbe a nulla, senza la carità interiore (cf. 1 Cor 13, 3). Sarebbe l’opposto della carità “sincera”. La carità ipocrita, infatti, è proprio quella che fa del bene, senza voler bene, che mostra all’esterno qualcosa che non ha un corrispettivo nel cuore. In questo caso, si ha una parvenza di carità, che può, al limite, nascondere egoismo, ricerca di sé, strumentalizzazione del fratello, o anche semplice rimorso di coscienza.
Sarebbe un errore fatale contrapporre tra di loro carità del cuore e carità dei fatti, o rifugiarsi nella carità interiore, per trovare in essa una specie di alibi alla mancanza di carità fattiva. Del resto, dire che, senza la carità, “a niente mi giova” anche il dare tutto ai poveri, non significa dire che ciò non serve a nessuno e che è inutile; significa piuttosto dire che non giova “a me”, mentre può giovare al povero che la riceve. Non si tratta, dunque, di attenuare l’importanza delle opere di carità (lo vedremo, dicevo, la prossima volta), quanto di assicurare a esse un fondamento sicuro contro l’egoismo e le sue infinite astuzie. San Paolo vuole che i cristiani siano “radicati e fondati nella carità” (Ef 3, 17), cioè che l’amore sia la radice e il fondamento di tutto.
Amare sinceramente significa amare a questa profondità, là dove non puoi più mentire, perché sei solo davanti a te stesso, solo davanti allo specchio della tua coscienza, sotto lo sguardo di Dio. “Ama il fratello –scrive Agostino – colui che, davanti a Dio, là dove egli solo vede, rassicura il suo cuore e si chiede nell’intimo se veramente agisce così per amore del fratello; e quell’occhio che penetra nel cuore, là dove l’uomo non può giungere, gli rende testimonianza”[4]. Era amore sincero perciò quello di Paolo per gli ebrei se poteva dire: “Dico la verità in Cristo, non mento; poiché la mia coscienza me lo conferma per mezzo dello Spirito Santo ho una grande tristezza e una sofferenza continua nel mio cuore; io stesso vorrei essere anatema, separato da Cristo, per amore dei miei fratelli, miei parenti secondo la carne” (Rom 9,1-3).
Per essere genuina, la carità cristiana deve, dunque, partire dall’interiore, dal cuore; le opere di misericordia dalle “viscere di misericordia” (Col 3, 12). Tuttavia, dobbiamo subito precisare che qui si tratta di qualcosa di molto più radicale della semplice “interiorizzazione”, cioè di uno spostare l’accento dalla pratica esteriore della carità alla pratica interiore. Questo è solo il primo passo. L’interiorizzazione approda alla divinizzazione! Il cristiano – diceva san Pietro – è colui che ama “di vero cuore”: ma con quale cuore? Con “il cuore nuovo e lo Spirito nuovo” ricevuto nel battesimo!
Quando un cristiano ama così, è Dio che ama attraverso di lui; egli diventa un canale dell’amore di Dio. Avviene come per la consolazione che altro non è se non una modalità dell’amore: “Dio ci consola in ogni nostra tribolazione perché possiamo anche noi consolare quelli che si trovano in ogni genere di afflizione con la consolazione con cui siamo consolati noi stessi da Dio” (2 Cor 1, 4). Noi consoliamo con la consolazione con cui siamo consolati da Dio, amiamo con l’amore con cui siamo amati da Dio. Non con uno diverso. Questo spiega la risonanza, apparentemente sproporzionata, che ha talvolta un semplicissimo atto di amore, spesso perfino nascosto, la speranza e la luce che crea all’intorno.
3. La carità edifica
Quando si parla della carità negli scritti apostolici, non se ne parla mai in astratto, in modo generico. Lo sfondo è sempre l’edificazione della comunità cristiana. In altre parole, il primo ambito di esercizio della carità deve essere la Chiesa e più concretamente ancora la comunità in cui si vive, le persone con cui si hanno relazioni quotidiane. Così deve avvenire anche oggi, in particolare nel cuore della Chiesa, tra coloro che lavorano a stretto contatto con il Sommo Pontefice.
Per un certo tempo, nell'antichità, si usò designare con il termine carità, agape, non solo il pasto fraterno che i cristiani prendevano insieme, ma anche l'intera Chiesa[5]. Il martire sant'Ignazio di Antiochia saluta la Chiesa di Roma come quella che “che presiede alla carità (agape)”, cioè alla “fraternità cristiana”, all’insieme di tutte le chiese[6]. Questa frase non afferma solo il fatto del primato di Roma, ma anche la sua natura, o il modo di esercitarlo: cioè nella carità. La frase si può tradurre in due modi: la chiesa romana “presiede alla carità”, o “presiede nella carità”, con carità.
La Chiesa ha urgente bisogno di una vampata di carità che risani le sue fratture. In un suo discorso Paolo VI diceva: “La Chiesa ha bisogno di sentire rifluire per tutte le sue umane facoltà l’onda dell’amore, di quell’amore che si chiama carità, e che appunto è diffusa nei nostri cuori proprio dallo Spirito Santo che a noi è stato dato” [7]. Solo l'amore guarisce. È l'olio del samaritano. Olio anche perché deve galleggiare al di sopra di tutto come fa l'olio rispetto ai liquidi. “Al di sopra di tutto vi sia la carità che è il vincolo della perfezione” (Col 3, 14). Al di sopra di tutto, super omnia! Dunque anche della fede e della speranza, della disciplina, dell'autorità, anche se, evidentemente, la stessa disciplina e autorità può essere un'espressione della carità.
Un ambito importante su cui lavorare è quello dei giudizi reciproci. Paolo scriveva ai Romani: “Perché giudichi il tuo fratello? Perché disprezzi il tuo fratello?... Cessiamo dunque dal giudicarci gli uni gli altri” (Rm 14, 10.13). Prima di lui Gesù aveva detto: “Non giudicate, per non essere giudicati. [...] Perché osservi la pagliuzza nell’occhio del tuo fratello, mentre non ti accorgi della trave che hai nel tuo occhio?” (Mt 7, 1-3). Paragona il peccato del prossimo (il peccato giudicato), qualunque esso sia, a una pagliuzza, in confronto al peccato di colui che giudica (il peccato di giudicare) che è una trave. La trave è il fatto stesso di giudicare, tanto esso è grave agli occhi di Dio.
Il discorso sui giudizi è certamente delicato e complesso e non si può lasciare a metà, senza che appaia subito poco realistico. Come si fa, infatti, a vivere del tutto senza giudicare? Il giudizio è implicito in noi perfino in uno sguardo. Non possiamo osservare, ascoltare, vivere, senza dare delle valutazioni, cioè senza giudicare. Un genitore, un superiore, un confessore, un giudice, chiunque ha una qualche responsabilità su altri, deve giudicare. Talvolta, anzi, come è il caso di molti qui in Curia, il giudicare è, appunto, il tipo di servizio che uno è chiamato a prestare alla società o alla Chiesa.
Difatti, non è tanto il giudizio che si deve togliere dal nostro cuore, quanto il veleno dal nostro giudizio! Cioè l’astio, la condanna. Nella redazione di Luca, il comando di Gesù: “Non giudicate e non sarete giudicati” è seguito immediatamente, come per esplicitare il senso di queste parole, dal comando: “Non condannate e non sarete condannati” (Lc 6, 37). Per sé, il giudicare è un’azione neutrale, il giudizio può terminare sia in condanna che in assoluzione e in giustificazione. Sono i giudizi negativi che vengono ripresi e banditi dalla parola di Dio, quelli che insieme con il peccato condannano anche il peccatore, quelli che mirano più alla punizione che alla correzione del fratello.
Un altro punto qualificante della carità sincera è la stima: “Gareggiate nello stimarvi a vicenda” (Rm 12, 10). Per stimare il fratello, bisogna non stimare troppo se stessi, non essere sempre sicuri di sé; bisogna – dice l’Apostolo – “non farsi un’idea troppo alta di se stessi” (Rm 12, 3). Chi ha un’idea troppo alta di se stesso è come un uomo che, di notte, tiene davanti agli occhi una fonte di luce intensa: non riesce a vedere nient’altro al di là di essa; non riesce a vedere le luci dei fratelli, i loro pregi e i loro valori.
“Minimizzare” deve diventare il nostro verbo preferito, nei rapporti con gli altri: minimizzare i nostri pregi e i difetti altrui. Non minimizzare i nostri difetti e i pregi altrui, come, invece, siamo portati a fare spesso, che è la cosa diametralmente opposta! C’è una favola di Esopo al riguardo; nella rielaborazione che ne fa La Fontaine suona così:
“Quando viene in questa valle
porta ognuno sulle spalle
una duplice bisaccia.
Dentro a quella che sta innanzi
volentieri ognun di noi
i difetti altrui vi caccia,
e nell’altra mette i suoi”[8].
Dovremmo semplicemente rovesciare le cose: mettere i nostri difetti sulla bisaccia che abbiamo davanti e i difetti degli altri su quella di dietro. San Giacomo ammonisce: “Non sparlate gli uni degli altri” (Gc 4,11). Il pettegolezzo oggi ha cambiato nome, si chiama gossip. Sembra diventato una cosa innocente, invece è una delle cose che più inquinano il vivere insieme. Non basta non sparlare degli altri; bisogna anche impedire che altri lo facciano in nostra presenza, far loro capire, magari silenziosamente, che non si è d’accordo. Che aria diversa si respira in un ambiente quando si prende sul serio l’ammonizione di san Giacomo! In molti locali pubblici una volta c’era la scritta: “Qui non si fuma”, o anche “Qui non si bestemmia”. Non sarebbe male sostituirle in alcuni casi con la scritta: “Qui non si fa pettegolezzo!”
Terminiamo ascoltando come rivolta a noi l’esortazione dell’Apostolo alla comunità di Filippi: “Rendete perfetta la mia gioia, avendo un medesimo pensare, un medesimo amore, essendo di un animo solo e di un unico sentimento. Non fate nulla per spirito di parte o per vanagloria, ma ciascuno, con umiltà, stimi gli altri superiori a se stesso, cercando ciascuno non il proprio interesse, ma anche quello degli altri. Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù” (Fil 2, 2-5).
NOTE
[1] Cf. S. Kierkegaard, Gli atti dell’amore, Milano, Rusconi, 1983, p. 163.
[2] J. Ratzinger - Benedetto XVI, Gesù di Nazaret, II Parte, Libreria Editrice Vaticana 2011, pp. 76 s.
[3] S. Caterina da Siena, Dialogo 64.
[4] S. Agostino, Commento alla Prima Lettera di Giovanni, 6,2 (PL 35, 2020).
[5] Lampe, A Patristic Greek Lexicon, Oxford 1961, p. 8
[6] S. Ignazio d'Antiochia, Lettera ai Romani, saluto iniziale.
[7] Discorso all’udienza generale del 29 Novembre 1972 (Insegnamenti di Paolo VI, Tipografia Poliglotta Vaticana, X, pp. 1210s.).
[8] J. de La Fontaine, Favole, I, 7.