Ricordo di Giovanni Paolo II a sei anni dalla morte
Dove sta il centro del mondo
di Konrad Krajewski
Stavamo in ginocchio attorno al letto di Giovanni Paolo II. Il Papa giaceva in penombra. La luce discreta della lampada illuminava la parete, ma lui era ben visibile.
Quando è arrivata l'ora di cui, pochi istanti dopo, tutto il mondo avrebbe saputo, improvvisamente l'arcivescovo Dziwisz si è alzato. Ha acceso la luce della stanza, interrompendo così il silenzio della morte di Giovanni Paolo II. Con voce commossa, ma sorprendentemente ferma, con il tipico accento montanaro, allungando una delle sillabe, ha cominciato a cantare: "Noi ti lodiamo, Dio, ti proclamiamo Signore".
Sembrava un tuono proveniente dal cielo. Tutti guardavamo meravigliati don Stanislao. Ma la luce accesa e il canto delle parole che seguivano - "O eterno Padre, tutta la terra ti adora..." - davano certezza a ciascuno di noi. Ecco - pensavamo - ci troviamo in una realtà totalmente diversa. Giovanni Paolo II è morto: vuol dire che egli vive per sempre.
Anche se il cuore singhiozzava e il pianto stringeva la gola, abbiamo ripreso a cantare. A ogni parola la nostra voce diventava più sicura e più forte. Il canto proclamava: "Vincitore della morte, hai aperto ai credenti il regno dei cieli".
Così, con l'inno del Te Deum, abbiamo glorificato Dio, ben visibile e riconoscibile nella persona del Papa. In un certo senso, questa è anche l'esperienza di tutti coloro che lo hanno incontrato nel corso del pontificato. Chi entrava in contatto con Giovanni Paolo II, incontrava Gesù, che il Papa rappresentava con tutto se stesso. Con la parola, il silenzio, i gesti, il modo di pregare, il modo di incedere nello spazio liturgico, il raccoglimento in sagrestia: con tutto il suo modo di essere. Lo si notava immediatamente: era una persona ricolma di Dio. E per il mondo era diventato segno visibile di una realtà invisibile. Anche attraverso il suo corpo straziato dalla sofferenza degli ultimi anni.
Spesso bastava guardarlo per scoprire la presenza di Dio e, così, cominciare a pregare. Bastava per andare a confessarsi: non solo dei propri peccati, ma di non essere santi come lui.
Quando ha smesso di camminare e, durante le celebrazioni, è diventato totalmente dipendente dai cerimonieri, ho cominciato a rendermi conto che stavo toccando una persona santa. Forse facevo irritare i penitenzieri vaticani allorché, prima di ogni celebrazione, andavo a confessarmi, seguendo un imperativo interiore e sentendone una forte necessità. Avevo bisogno di ricevere l'assoluzione per stare accanto a lui. Quando si sta accanto a una persona santa, quando l'uomo in qualche modo tocca la santità, questa si irradia in tutta la persona. Ma, allo stesso tempo, si sperimenta sulla propria pelle anche la tentazione: evidentemente allo spirito maligno non piace l'aria di santità. Quando, verso le 3 di notte, sono uscito dall'appartamento del Palazzo Apostolico, a Borgo Pio c'era una moltitudine di gente: camminavano nel silenzio più raccolto. Il mondo si era fermato, si era inginocchiato e aveva pianto.
C'era chi piangeva solo per il fatto di aver perso una persona amata e poi ritornava a casa così come era venuto. E c'era chi, alle lacrime esteriori, univa quelle interiori, che scaturivano dal sentirsi inadeguati e infedeli di fronte al Signore. Questo pianto era benedetto. Era l'inizio del miracolo della conversione. Per tutti i giorni successivi, fino al funerale del Papa, Roma è diventata un cenacolo: tutti si comprendevano, anche se parlavano lingue diverse.
Sono stato a contatto con il Papa per sette lunghi anni: durante la sua vita, ma anche quando la sua anima si è staccata dal corpo. Nel momento della morte restano a noi solo le spoglie che si trasformeranno in polvere: il corpo svanisce, e la persona è accolta nel mistero di Dio.
Tra i compiti dei cerimonieri c'è anche quello di prendersi cura del corpo del Papa defunto. L'ho fatto per sette lunghi giorni, fino al funerale. Poco dopo la sua morte, ho vestito Giovanni Paolo II insieme a tre infermieri che lo avevano seguito per lungo tempo. Anche se era già trascorsa un'ora e mezza dal decesso, essi continuavano a parlare con il Papa come se stessero parlando al proprio padre. Prima di mettergli la tonaca, il camice, la casula, lo baciavano, lo accarezzavano e lo toccavano con amore e riverenza, proprio come se si trattasse di una persona di famiglia.
Il loro atteggiamento non manifestava solo la devozione al Pontefice: per me rappresentava il timido annuncio di una beatificazione vicina.
Forse è per questo che non mi sono mai dedicato a pregare intensamente per la sua beatificazione, dal momento che avevo già cominciato a parteciparvi.
Ogni giorno celebro l'Eucaristia nelle Grotte Vaticane. Osservo come i dipendenti della basilica e tutti coloro che si recano al lavoro nei diversi dicasteri e uffici del Vaticano, i gendarmi, i giardinieri, gli autisti, cominciano la giornata con un momento di preghiera presso la tomba di Giovanni Paolo II: toccano la lapide e gli mandano un bacio. È così tutte le mattine.
Dal 2000 il Papa aveva cominciato a indebolirsi sempre di più. Aveva grande difficoltà nel camminare. Preparando il grande Giubileo con l'arcivescovo Piero Marini ci auguravamo che almeno potesse aprire la porta santa. Era quasi impossibile pensare al futuro.
Mentre mi trovavo sulle montagne polacche, una volta ho sentito questa affermazione: "Ancora non ci conosciamo, perché non abbiamo sofferto insieme". Con monsignor Marini abbiamo partecipato per cinque lunghi anni alle sofferenze del Papa, al suo eroico combattimento con se stesso per sopportare la sofferenza. Mi vengono in mente le parole del salmo 51: "Purificami con issopo e sarò mondato", che si possono intendere anche così: "Toccami con la sofferenza e sarò puro".
Essere con Giovanni Paolo II voleva dire vivere nel Vangelo, essere dentro il Vangelo.
Negli ultimi anni del servizio accanto a lui mi sono reso conto che la bellezza è sempre legata alla sofferenza. Non si può toccare Gesù senza toccare la croce: il Pontefice era così provato, si può dire martoriato dalla sofferenza, ma così estremamente bello, in quanto con gioia ha offerto tutto ciò che ha ricevuto da Dio e con gioia ha restituito a Dio tutto ciò che da Lui ha avuto. La santità infatti - come diceva Madre Teresa di Calcutta - non significa soltanto che noi offriamo tutto a Dio, ma anche che Dio prende da noi tutto quello che ci ha dato.
L'atleta che camminava e sciava sulle montagne ora aveva smesso di camminare; l'attore aveva perso la voce. A poco a poco gli era stato tolto tutto.
Prima di cominciare le esequie, monsignor Dziwisz e monsignor Marini hanno coperto il volto del Papa con un panno di seta, un simbolo dal significato molto profondo: tutta la sua vita è stata coperta e nascosta in Dio. Mentre compivano questo gesto, stavo accanto alla bara e tenevo in mano l'Evangeliario, un altro segno forte. Giovanni Paolo II non si vergognava del Vangelo. Viveva secondo il Vangelo. Scioglieva secondo il Vangelo tutti i problemi del mondo e della Chiesa. Secondo il Vangelo ha costruito tutta la sua vita interiore ed esteriore.
Il mistero di Giovanni Paolo II, cioè la sua bellezza, si esprime molto bene attraverso la preghiera di Papa Clemente XI che si trovava negli antichi breviari: "Voglio tutto ciò che tu vuoi, lo voglio perché tu lo vuoi, lo voglio come e quando lo vuoi tu". Chi pronuncia queste parole con il cuore diventa come Gesù che, umile, si nasconde nell'ostia e si offre per essere consumato. Chi fa proprie queste parole comincia a vivere con lo spirito di adorazione del Santissimo Sacramento.
Seguendo il Pontefice nei viaggi apostolici, durante le lunghe trasvolate, mi domandavo spesso: dove sta il centro del mondo?
Tredici giorni dopo l'elezione, con alcuni suoi collaboratori, il Papa si recò vicino Roma, alla Mentorella, dove c'è il santuario della Madre delle Grazie. Domandò ai suoi compagni di viaggio: "Cosa è più importante per il Papa nella sua vita, nel suo lavoro?". Gli suggerirono: "Forse l'unità dei cristiani, la pace nel Medio Oriente, la distruzione della cortina di ferro...?". Ma egli rispose: "Per il Papa la cosa più importante è la preghiera".
Nel mio Paese c'è questo detto: "Il re è nudo davanti agli occhi dei suoi servi". Quanto più cominciavamo a conoscere Giovanni Paolo II, tanto più eravamo convinti della sua santità, la vedevamo in ogni momento della sua vita. Egli non oscurava Dio.
Se volessi indicare cosa è più importante per la vita sacerdotale e per ciascuno di noi, guardando a lui potrei dire: non coprire o offuscare Dio con se stesso, ma, al contrario, mostrarlo e diventare il segno visibile della sua presenza. Dio nessuno lo ha visto, ma Giovanni Paolo II lo ha reso visibile attraverso la sua vita.
Quando pregava, ho avuto l'impressione che si gettasse ai piedi di Gesù. Quando pregava, sul suo viso era visibile il totale affidamento a Dio. Era veramente trasparente; era, per usare un'immagine poetica, come l'arcobaleno che lega il cielo alla terra e la sua anima correva sulle scale dalla terra al cielo. Torno ora alla domanda: "Dove sta il centro del mondo?".
Pian piano ho cominciato a rendermi conto che il centro del mondo era sempre dove io mi trovavo con il Papa: non perché stavo con Giovanni Paolo II, ma perché lui ovunque egli si trovasse, pregava. Ho capito che il centro del mondo è dove io prego, dove io sono insieme a Dio, nella più intima unione che c'è: la preghiera. Sono al centro del mondo quando cammino alla presenza di Dio, quando "in lui infatti vivo, mi muovo ed esisto" (cfr. Atti degli apostoli, 17, 28). Quando celebro o partecipo all'Eucaristia sono al centro del mondo; quando confesso e mi confesso, nel confessionale c'è il centro del mondo; il posto e il tempo della mia preghiera costituiscono il centro del mondo perché, quando prego, Dio respira dentro di me. Il Papa ha permesso a Dio di respirare attraverso di lui: ogni giorno passava tanto tempo davanti al tabernacolo. Il Santissimo Sacramento era il sole che illuminava la sua vita. E lui davanti a quel sole andava a riscaldarsi con la luce di Dio. La vita di Giovanni Paolo II era intessuta di preghiera. Aveva sempre tra le dita la coroncina del rosario, con la quale si rivolgeva a Maria confermando il suo Totus tuus.
Una volta, dopo l'infortunio del 1991, il cardinale Deskur portò al Papa un contenitore di acqua santa da Lourdes e gli disse: "Santità, quando laverà la parte dolente, dovrà recitare l'Ave Maria". Giovanni Paolo II rispose: "Caro Cardinale, io dico sempre l'Ave Maria".
Il mio compito nell'Ufficio delle Celebrazioni Liturgiche consiste nel curare, sotto la guida del maestro, le celebrazioni pontificie e non di scrivere articoli o preparare conferenze. È stato così per tredici anni. Dopo il 2 aprile 2005, quando qualcuno mi chiede di dare testimonianza su Giovanni Paolo II, rispondo spesso: "Sì, con grande gioia!". E invito a prendere parte ogni giovedì alla messa davanti alla sua tomba nelle Grotte Vaticane. Così come invito a recarsi nella chiesa di Santo Spirito in Sassia, dove ogni pomeriggio si recita la coroncina della Divina Misericordia seguita dalla Via Crucis. Ogni giovedì sera si incontrano nel mio appartamento sacerdoti che lavorano o studiano a Roma, suore e laici. Insieme recitiamo i vespri, preghiamo e ci sediamo alla tavola comune.
Radunarsi in preghiera e stare insieme per ritrovarsi al centro del mondo: ho imparato questo da Giovanni Paolo II.
Non mi meraviglia che il Papa sia beatificato nella domenica della Divina Misericordia, anche se è una sorpresa della Provvidenza il fatto che quest'anno coincida con il 1° maggio. Così quel giorno si parlerà principalmente di santità. Benedetto XVI e Giovanni Paolo II trasformeranno quella ricorrenza in un evento religioso inedito nella storia: una processione di maggio verso la santità e la preghiera.
(©L'Osservatore Romano 2 aprile 2011)