martedì 26 aprile 2011

Karol Wojtyła: il Papa chiamato da un Paese lontano. Figlio della nazione polacca


Karol Wojtyła: il Papa chiamato da un Paese lontano

Figlio della nazione polacca

Origini e formazione di Karol Wojtyła spiegano molto del suo pontificato

Dal 27 aprile è disponibile in Italia il nostro speciale per la beatificazione di Giovanni Paolo II per il quale è stato scritto l’articolo che anticipiamo. L’autore ha appena pubblicato Le Roman des papes. De la Révolution française à nos jours (Monaco, Éditions du Rocher, 2011, pagine 253, euro 20,90).

di Bernard Lecomte


«Ed ecco che i venerabili cardinali hanno eletto un nuovo vescovo di Roma! L’hanno chiamato da un Paese lontano...». Piazza San Pietro, 18 ottobre 1978. La folla prorompe in applausi. Alcuni minuti prima, dalla loggia delle Benedizioni, il cardinale Pericle Felici ha annunciato il nome dell’eletto dal conclave: «...cardinalem Wojtyła!». C’è stato un istante di sorpresa. Chi? Un africano? No, un polacco!

Il nome dell’arcivescovo di Cracovia era quasi sconosciuto. Ma la sorpresa di per sé era già grande: il nuovo Papa non era italiano! Il collegio dei cardinali avevo interrotto una tradizione antica di cinque secoli. Solo più tardi, nel vedere Giovanni Paolo II compiere i suoi primi passi da Papa, gli osservatori capiranno che il nuovo vescovo di Roma non è solo un «non italiano», ma è polacco.

Karol Wojtyła è nato in Polonia nel maggio 1920, al tempo in cui il suo Paese ha appena riacquistato l’indipendenza dopo centoventi anni di occupazione straniera. Figlio del capitano Karol Wojtyła, cresciuto nel culto di Jozef Piłsudski, il vincitore della battaglia della Vistola nell’agosto 1920, il futuro Papa è immerso in un clima di fervore patriottico e di entusiasmo nazionale. «Il mio Paese è sopravvissuto solo grazie alla sua cultura», dirà, sessant’anni dopo, in un importante discorso all’Unesco. Lui, il Polacco, sa che la cultura non è il prodotto delle forze economiche come affermano i marxisti, ma della mente umana. E che la comunità naturale degli uomini, la nazione, è prima di tutto una realtà culturale: «È pensando a tutte le culture — aggiunge il Papa dinanzi alla prestigiosa platea nel giugno 1980 — che voglio dire a voce alta qui: “Ecco l’Uomo!”».

Non bisognerà stupirsi di vedere questo Papa predicare costantemente la realtà della nazione, fino a suggerire all’Onu l’elaborazione di una Carta dei diritti delle nazioni: «Non ci sono diritti dell’uomo — dice — laddove i diritti della nazione sono violati». Non bisognerà stupirsi di udirlo valorizzare la storia di ogni nazione, ricordando a ogni popolo le sue radici cristiane: quanti anniversari ha celebrato, quelli di santa Elisabetta (1981), di san Casimiro (1984), di san Metodio (1985), di san Vladimiro (1988) e tanti altri, fino al battesimo della Francia da parte di Clodoveo (1996)!

Questo Papa venuto da un Paese in cui il regime ha confiscato la storia, non ha lesinato sforzi per ricordare agli europei che non dovevano nascondere le loro radici cristiane. Così a Santiago de Compostela, nel novembre 1982, ha detto: «Io, Vescovo di Roma e Pastore della Chiesa universale, da Santiago, grido con amore a te, antica Europa: “Ritrova te stessa. Sii te stessa”. Riscopri le tue origini. Ravviva le tue radici. Torna a vivere dei valori autentici che hanno reso gloriosa la tua storia». Bisognava che il Papa fosse «figlio della nazione polacca» perché osasse fare simili affermazioni.

La Polonia non è un Paese come gli altri. All’epoca in cui il piccolo Karol cresce a Wadowice, nella Galizia occidentale, la Polonia è il Paese del mondo in cui ci sono più ebrei. La storia dell’Europa ha deciso così. Il suo migliore amico, Jerzy Kluger, è ebreo, come molti dei suoi compagni di calcio o di teatro: Goldberger, Selinger, Zweig, Beer, e così via. Quando la Polonia negli anni Trenta accentua l’antisemitismo di Stato, Karol subisce gli effetti devastanti di quel veleno: picchetti davanti ai negozi ebrei, insulti, pogrom, numerus clausus all’università, e così via. Nel 1945, quando vengono liberati i prigionieri del campo di concentramento di Auschwitz, non lontano da Cracovia, dove ha vissuto durante tutta la guerra, il giovane Wojtyła scopre, con orrore, fino a quale livello di follia i nazisti hanno spinto l’abiezione e l’odio.

Non bisognerà stupirsi, dopo la sua elezione nel 1978, di vedere il Papa polacco avviare un lungo e difficile processo di riconciliazione fra cristiani ed ebrei: visita alla grande sinagoga di Roma nel 1986, riconoscimento dello Stato d’Israele da parte del Vaticano, «pentimento» nei confronti dell’antigiudaismo cristiano, straordinario viaggio a Gerusalemme nell’anno 2000, con una sosta al museo dello Yad Vashem e una preghiera davanti al Muro del Pianto. Un Papa africano, italiano, brasiliano o francese avrebbe compiuto tanti sforzi in tal senso? Occorre ricordare che è dal grande poeta Mickiewicz, emblema della Polonia eterna, che Giovanni Paolo II ha preso l’espressione «fratelli maggiori» con cui si è rivolto agli ebrei?

Un’altra stimma indelebile di questa Polonia dal destino così tragico: la brutale invasione nazista del 1° settembre 1939, che segnò l’inizio della seconda guerra mondiale. Studente all’università di Cracovia, Karol fugge a est, insieme a suo padre, ma i due uomini ritornano sui loro passi di fronte all’Armata rossa, che, complice di Hitler, ha appena invaso il loro sfortunato Paese. Di ritorno a Cracovia, il giovane Wojtyła vive sulla propria carne le deportazioni, le esecuzioni, il terrore quotidiano. Nessun Paese ha subito cinque anni di atrocità come la Polonia, che vi perderà un sesto dei suoi figli. Il padre di Karol, sconvolto e prostrato, non sopravviverà: muore nel febbraio 1941.

Di fronte a questa storia drammatica, ci si può stupire del fatto che Giovanni Paolo II abbia deciso di lottare con tutte le sue forze, giorno dopo giorno, per la pace? Dal suo primissimo intervento per evitare la guerra fra il Cile e l’Argentina nel 1979, fino ai numerosi sforzi compiuti — invano — per evitare la guerra fra gli Stati Uniti e l’Iraq nel 2003, ha rivolto tutte le forze della Santa Sede alla difesa della pace. Ha addirittura coinvolto nella sua lotta i rappresentanti di tutte le religioni del mondo, ad Assisi, nell’autunno 1986, in un raduno inedito che resterà un tempo forte del suo pontificato.

E poi, appena uscita dagli orrori della guerra, la Polonia di Karol Wojtyła ha subìto l’altro grande totalitarismo del XX secolo: il comunismo. Giovane sacerdote, poi giovane vescovo, si sforza di non invischiarsi nella lotta politica, persino quando viene a sapere con stupore che il governo polacco ha arrestato e messo in carcere il cardinale Stefan Wyszyński, primate di Polonia. Ma la politica lo riafferra: quando gli abitanti del nuovo quartiere Nowa Huta, nella sua diocesi, decidono di costruire una chiesa nonostante l’opposizione del partito comunista, nel 1963, monsignor Wojtyła celebrerà volutamente una messa di mezzanotte all’aperto.

Arcivescovo e cardinale, il futuro Giovanni Paolo II ha forgiato a poco a poco un vera teologia dei diritti dell’uomo, che coincideva con le aspirazioni di tutti coloro che, nell’Est, la pensavano «in modo diverso», in particolare i dissidenti.

È quest’uomo che, a partire dal 1978, moltiplicherà le parole e i gesti a favore dei diritti dell’uomo, a cominciare dalla sua prima enciclica Redemptor hominis, che redige personalmente, in polacco, e che viene pubblicata il 4 marzo 1979. Se bisognasse riassumere questo importante testo in poche parole, sarebbero: «Priorità all’uomo!». All’uomo stesso, vale a dire a ognuno di noi: l’uomo reale, incarnato, che deve essere, come ripeterà spesso, «la via della Chiesa». Giovanni Paolo II racconterà in seguito che «portava in sé» questa enciclica che rifletteva «quello che viveva già all’inizio del suo pontificato».

Alcuni mesi dopo, nel giugno 1979, il primo viaggio nel suo Paese natale, vale a dire dietro la cortina di ferro, è un vero terremoto in quell’Europa che, come dirà, è accidentalmente «tagliata in due». Il sostegno del Papa al sindacato Solidarność, soprattutto dopo l’instaurazione dello stato di guerra in Polonia, nel dicembre 1981, poi le altre due visite pastorali che compie nel 1983 e nel 1987, ma anche la speranza che ha suscitato in tutte le popolazioni vicine dell’Europa orientale — incluso in Lituania e in Ucraina occidentale, nel cuore stesso dell’Unione Sovietica — faranno del «Papa slavo» un attore importante del processo che ha portato al crollo del blocco comunista.

Sotto questo aspetto, è stata spesso rimproverata a Giovanni Paolo II la sua opposizione alla «teologia della liberazione», espressa a Puebla (Messico) proprio all’inizio di quel famoso anno 1979. Bisogna comprendere bene che questo Papa dalla indubbia statura politica non ha mai tradito gli oppressi di questi Paesi, esigendo dalle Chiese locali che s’impegnassero coraggiosamente nella «opzione preferenziale per i poveri». Quello che il Pontefice polacco non poteva accettare era che alcune «comunità di base» latinoamericane cadessero, in nome del Vangelo, nella trappola della lotta di classe; che un giorno, sacerdoti potessero prendere le armi contro alcuni dei loro vescovi accusati di frequentare troppo da vicino dittatori locali. Ecco cosa era inimmaginabile per questo Papa venuto dall’est.

Polacco, Giovanni Paolo II lo resterà fino alla fine della sua lunga vita. Se non fosse stato formato all’interno di una Chiesa tanto dinamica quanto tenacemente attaccata alla tradizione, sarebbe stato così attento a conservare consuetudini e riti come la processione del Corpus Domini, il culto del santissimo Sacramento o la recita del rosario? Sarebbe stato così decisamente contrario al matrimonio dei preti o al sacerdozio delle donne? Infine, sarebbe stato così appassionatamente attaccato ai valori familiari tradizionali, tanto pregnanti nel suo Paese natale?

Giovanni Paolo II si è mostrato fino alla fine fedele ai suoi anni di formazione e di sacerdozio. Ha sempre mantenuto con passione il culto della Vergine Maria, caro al cuore di tutti i polacchi, al punto da dedicare solennemente il suo pontificato, la Chiesa e il mondo intero alla Madre di Dio. È alla Vergine Maria di Kalwaria Zebrzydowska che ha rivolto le sue preghiere con il padre fin dall’infanzia, poi a quella di Częstochowa, tanto cara a tutti i suoi conterranei, che ritroverà a Guadalupe, a Fátima, a Lourdes, e in tutti quei santuari in cui lo condurranno i suoi viaggi nel mondo intero.

Un altro aspetto originale del suo pontificato è che ha beatificato e canonizzato più persone di quanto abbiano fatto i suoi predecessori. L’idea molto moderna secondo la quale i santi sono modelli per tutte le nazioni del mondo gli viene chiaramente dalla sua giovinezza trascorsa nella devozione a san Giuseppe, a san Giovanni della Croce, a san Luigi Maria Grignion de Montfort — dal quale ha preso a prestito il suo motto Totus tuus — e a tante figure prestigiose della storia della Chiesa. Non è forse un segno della Provvidenza che la beatificazione di questo Papa coincida con il ricordo di santa Faustina Kowalska, la giovane polacca incarnazione della misericordia divina, che lui stesso ha canonizzato durante il Grande Giubileo dell’anno 2000?

Infine, il più grande paradosso del lungo pontificato di Giovanni Paolo II deriva indubbiamente dalla sua nazionalità. Questo Pontefice così fiero delle sue origini polacche e così attento ai diritti delle nazioni, ha giustamente spinto la Chiesa cattolica a essere sempre meno «romana» e sempre più universale. Un Papa italiano, quali che fossero le sue virtù, avrebbe potuto incarnare a tal punto la comunità cattolica mondiale, il cui centro di gravità è situato oggi più nell’emisfero sud che attorno al Mediterraneo?

Di Sinodo in Concistoro, il Papa venuto dalla Polonia ha internazionalizzato la Curia in modo irreversibile. Nel corso dei suoi viaggi apostolici fuori Roma — dei quali più di cento oltre i confini dell’Italia — ha personalmente portato il governo della Chiesa in ogni angolo del pianeta. Depositario di una cultura bimillenaria, attento all’unità di una comunità di oltre un miliardo di individui, il primo Papa polacco della storia ha fatto entrare i cattolici di tutto il mondo nel terzo millennio con l’idea che la Chiesa deve essere, come non mai, la Chiesa di tutti gli uomini.

(©L'Osservatore Romano 26-27 aprile 2011)