Dall' «Autobiografia» di santa Teresa di Gesù Bambino, vergine
(Manuscrits autobiographiques, Lisieux 1957, 227-229)
Siccome le mie immense aspirazioni erano per me un martirio, mi rivolsi alle lettere di san Paolo, per trovarmi finalmente una risposta. Gli occhi mi caddero per caso sui capitoli 12 e 13 della prima lettera ai Corinzi, e lessi nel primo che tutti non possono essere al tempo stesso apostoli, profeti e dottori e che la Chiesa si compone di varie membra e che l'occhio non può essere contemporaneamente la mano. Una risposta certo chiara, ma non tale da appagare i miei desideri e di darmi la pace.
Continuai nella lettura e non mi perdetti d'animo. Trovai così una frase che mi diede sollievo: «Aspirate ai carismi più grandi. E io vi mostrerò una via migliore di tutte» (1 Cor 12, 31). L'Apostolo infatti dichiara che anche i carismi migliori sono un nulla senza la carità, e che questa medesima carità é la via più perfetta che conduce con sicurezza a Dio. Avevo trovato finalmente la pace.
Considerando il corpo mistico della Chiesa, non mi ritrovavo in nessuna delle membra che san Paolo aveva descritto, o meglio, volevo vedermi in tutte. La carità mi offrì il cardine della mia vocazione. Compresi che la Chiesa ha un corpo composto di varie membra, ma che in questo corpo non può mancare il membro necessario e più nobile. Compresi che la Chiesa ha un cuore, un cuore bruciato dall'amore. Capii che solo l'amore spinge all'azione le membra della Chiesa e che, spentp questo amore, gli apostoli non avrebbero più annunziato il Vangelo, i martiri non avrebbero più versato il loro sangue. Compresi e conobbi che l'amore abbraccia in sé tutte le vocazioni, che l'amore é tutto, che si estende a tutti i tempi e a tutti i luoghi, in una parola, che l'amore é eterno.
Allora con somma gioia ed estasi dell'animo grida: O Gesù, mio amore, ho trovato finalmente la mia vocazione. La mia vocazione é l'amore. Si, ho trovato il mio posto nella Chiesa, e questo posto me lo hai dato tu, o mio Dio.
Nel cuore della Chiesa, mia madre, io sarò l'amore ed in tal modo sarò tutto e il mio desiderio si tradurrà in realtà.
Dal «Prologo al commento del Profeta Isaia» di san Girolamo, sacerdote
(Nn. 1. 2; CCL 73, 1-3)
Adempio al mio dovere, ubbidendo al comando di Cristo: «Scrutate le Scritture» (Gv 5, 39), e: «Cercate e troverete» (Mt 7, 7), per non sentirmi dire come ai Giudei: «Voi vi ingannate, non conoscendo né le Scritture, né la potenza di Dio» (Mt 22, 29). Se, infatti, al dire dell'apostolo Paolo, Cristo è potenza di Dio e sapienza di Dio, colui che non conosce le Scritture, non conosce la potenza di Dio, né la sua sapienza. Ignorare le Scritture significa ignorare Cristo.
Perciò voglio imitare il padre di famiglia, che dal suo tesoro sa trarre cose nuove e vecchie, e così anche la Sposa, che nel Cantico dei Cantici dice: O mio diletto, ho serbato per te il nuovo e il vecchio (cfr. Ct 7, 14 volg.). Intendo perciò esporre il profeta Isaia in modo da presentarlo non solo come profeta, ma anche come evangelista e apostolo. Egli infatti ha detto anche di sé quello che dice degli altri evangelisti: «Come sono belli sui monti i piedi del messaggero di lieti annunzi, che annunzia la pace» (Is 52, 7). E Dio rivolge a lui, come a un apostolo, la domanda: Chi manderò, e chi andrà da questo popolo? Ed egli risponde: Eccomi, manda me (cfr. Is 6, 8).
Ma nessuno creda che io voglia esaurire in poche parole l'argomento di questo libro della Scrittura che contiene tutti i misteri del Signore. Effettivamente nel libro di Isaia troviamo che il Signore viene predetto come l'Emmanuele nato dalla Vergine, come autore di miracoli e di segni grandiosi, come morto e sepolto, risorto dagli inferi e salvatore di tutte le genti. Che dirò della sua dottrina sulla fisica, sull'etica e sulla logica? Tutto ciò che riguarda le Sacre Scritture, tutto ciò che la lingua può esprimere e l'intelligenza dei mortali può comprendere, si trova racchiuso in questo volume. Della profondità di tali ministeri dà testimonianza lo stesso autore quando scrive: «Per voi ogni visione sarà come le parole di un libro sigillato: si dà a uno che sappia leggere, dicendogli: Leggio. Ma quegli risponde: Non posso, perché è sigillato. Oppure si dà il libro a chi non sa leggere, dicendogli: Leggio, ma quegli risponde: Non so leggere» (Is 29, 11-12).
(Si tratta dunque di misteri che, come tali, restano chiusi e incomprensibili ai profani, ma aperti e chiari ai profeti. Se perciò dai il libro di Isaia ai pagani, ignari dei libri ispirati, ti diranno: Non so leggerlo, perché non ho imparato a leggere i testi delle Scritture. I profeti però sapevano quello che dicevano e lo comprendevano). Leggiamo infatti in san Paolo: «Le ispirazioni dei profeti devono essere sottomesse ai profeti» (1 Cor 14, 32), perché sia in loro facoltà di tacere o di parlare secondo l'occorrenza.
I profeti, dunque, comprendevano quello che dicevano, per questo tutte le loro parole sono piene di sapienza e di ragionevolezza. Alle loro orecchie non arrivavano soltanto le vibrazioni della voce, ma la stessa parola di Dio che parlava nel loro animo. Lo afferma qualcuno di loro con espressioni come queste: L'angelo parlava in me (cfr. Zc 1, 9), e: (lo Spirito) «grida nei nostri cuori: Abbà, Padre» (Gal 4, 6), e ancora: «Ascolterò che cosa dice Dio, il Signore» (Sal 84, 9).
I discorsi di Benedetto XVI si prestano sempre a una lettura su molti piani e offrono spunti concreti a chi si trova ad affrontare la sfera della sofferenza umana e le problematiche bioetiche a essa connesse. Non hanno fatto eccezione gli interventi durante il viaggio in Germania, in particolare quelli al Bundestag e al convento degli agostiniani di Erfurt durante la celebrazione ecumenica.
«Solo chi conosce Dio, conosce l’uomo» ha ribadito il Papa citando Romano Guardini per ricordare come «senza la conoscenza di Dio l’uomo diventa manipolabile» e come la fede debba «concretizzarsi nel nostro comune impegno per l’uomo»: saremo giudicati «secondo come ci siamo comportati nei confronti (...) dei più piccoli». Il compito che Benedetto XVI ha delineato ancora una volta con fermezza consiste nel «difendere la dignità inviolabile dell’uomo dal concepimento fino alla morte, nelle questioni della diagnosi pre-impiantatoria fino all’eutanasia».
Questa proposta del Papa, chiara ai nostri occhi, poggia sulle basi evidenziate il giorno precedente al Bundestag in un discorso storico e articolato. Due sono gli elementi che aiutano concretamente chiunque voglia guardare all’uomo senza lo scuro filtro di un riduttivismo che «comprende la natura in modo puramente funzionale»: secondo Benedetto XVI bisogna ricostruire un ponte e inaugurare una nuova ecologia.
All’inizio degli anni settanta del secolo scorso la bioetica veniva al mondo proprio con l’immagine del «ponte»: un oncologo, Van Rensselaer Potter, la vedeva infatti in una celebre opera come bridge to the future («ponte verso il futuro»), un ponte tra «dati biologici» e «valori etici» (biological facts ed ethical values). Negli anni successivi ci si accorse però di come quel ponte nulla avrebbe messo in comunicazione se non fosse passato per l’immagine di uomo, di natura umana, che ognuno di noi, nello svolgere il proprio lavoro e nella vita, non dovrebbe mai perdere. Il Papa ci aiuta in un certo senso a ricostruire quel ponte in modo corretto ricordandoci che solo passando attraverso una natura umana non più compresa «in modo puramente funzionale» le due rive dell’uomo e dell’ethos torneranno a essere unite.
D’altra parte, partendo dal dato oggettivo che «l’uomo non è soltanto una libertà che si crea da sé» e che «l’uomo non crea se stesso», Benedetto XVI ci invita a fare nostro lo stesso zelo del movimento ecologista comparso in Germania anch’esso negli anni settanta del Novecento. Questa volta però — dice il Papa — la natura da rispettare e da non manipolare è, accanto a quella di terra, acqua e aria, quella della persona umana.
Ricostruire un ponte e diventare fautori dell’ecologia dell’uomo mediante uno sguardo nuovo sulla natura umana alla luce della vera ragione che non rinuncia a guardare in alto: semplici, saggi antidoti contro la disumanità proposti da chi, umilmente, lavora davvero sodo nella vigna del Signore.
L'appellativo «angelo» designa l'ufficio, non la natura poveri
Dalle «Omelie sui vangeli» di san Gregorio Magno, papa
(Om. 34, 8-9; PL 76, 1250-1251)
È da sapere che il termine «angelo» denota l'ufficio, non la natura. Infatti quei santi spiriti della patria celeste sono sempre spiriti, ma non si possono chiamare sempre angeli, poiché solo allora sono angeli, quando per mezzo loro viene dato un annunzio. Quelli che recano annunzi ordinari sono detti angeli, quelli invece che annunziano i più grandi eventi son chiamati arcangeli.
Per questo alla Vergine Maria non viene inviato un angelo qualsiasi, ma l'arcangelo Gabriele. Era ben giusto, infatti, che per questa missione fosse inviato un angelo tra i maggiori, per recare il più grande degli annunzi.
A essi vengono attribuiti nomi particolari, perché anche dal modo di chiamarli appaia quale tipo di ministero è loro affidato. Nella santa città del cielo, resa perfetta dalla piena conoscenza che scaturisce dalla visione di Dio onnipotente, gli angeli non hanno nomi particolari, che contraddistinguano le loro persone. Ma quando vengono a noi per qualche missione, prendono anche il nome dall'ufficio che esercitano.
Così Michele significa: Chi è come Dio?, Gabriele: Fortezza di Dio, e Raffaele: Medicina di Dio.
Quando deve compiersi qualcosa che richiede grande coraggio e forza, si dice che è mandato Michele, perché si possa comprendere, dall'azione e dal nome, che nessuno può agire come Dio. L'antico avversario che bramò, nella sua superbia, di essere simile a Dio, dicendo: Salirò in cielo (cfr. Is 14, 13-14), sulle stelle di Dio innalzerò il trono, mi farò uguale all'Altissimo, alla fine del mondo sarà abbandonato a se stesso e condannato all'estremo supplizio. Orbene egli viene presentato in atto di combattere con l'arcangelo Michele, come è detto da Giovanni: «Scoppiò una guerra nel cielo: Michele e i suoi angeli combattevano contro il drago» (Ap 12, 7).
A Maria è mandato Gabriele, che è chiamato Fortezza di Dio; egli veniva ad annunziare colui che si degnò di apparire nell'umiltà per debellare le potenze maligne dell'aria. Doveva dunque essere annunziato da «Fortezza di Dio» colui che veniva quale Signore degli eserciti e forte guerriero.
Raffaele, come abbiamo detto, significa Medicina di Dio. Egli infatti toccò gli occhi di Tobia, quasi in atto di medicarli, e dissipò le tenebre della sua cecità. Fu giusto dunque che venisse chiamato «Medicina di Dio» colui che venne inviato a operare guarigioni.
Come sapete, da giovedì a domenica scorsi ho compiuto una Visita Pastorale in Germania; sono lieto, perciò, come di consueto, di cogliere l’occasione dell’odierna Udienza per ripercorrere insieme con voi le intense e stupende giornate trascorse nel mio Paese d’origine. Ho attraversato la Germania dal nord al sud, dall’est all’ovest: dalla capitale Berlino ad Erfurt e all’Eichsfeld e infine a Freiburg, città vicina al confine con la Francia e la Svizzera. Ringrazio anzitutto il Signore per la possibilità che mi ha offerto di incontrare la gente e parlare di Dio, di pregare insieme e confermare i fratelli e le sorelle nella fede, secondo il particolare mandato che il Signore ha affidato a Pietro e ai suoi successori. Questa visita, svoltasi sotto il motto “Dov’è Dio, là c’è futuro”, è stata davvero una grande festa della fede: nei vari incontri e colloqui, nelle celebrazioni, specialmente nelle solenni Messe con il popolo di Dio. Questi momenti sono stati un prezioso dono che ci ha fatto percepire di nuovo come sia Dio a dare alla nostra vita il senso più profondo, la vera pienezza, anzi, che solo Lui dona a noi, dona a tutti un futuro.
Con profonda gratitudine ricordo l’accoglienza calorosa ed entusiasta come anche l’attenzione e l’affetto dimostratimi nei vari luoghi che ho visitato. Ringrazio di cuore i Vescovi tedeschi, specialmente quelli delle Diocesi che mi hanno ospitato, per l’invito e per quanto hanno fatto, insieme con tanti collaboratori, per preparare questo viaggio. Un sentito grazie va ugualmente al Presidente Federale e a tutte le autorità politiche e civili a livello federale e regionale. Sono profondamente grato a quanti hanno contribuito in vario modo al buon esito della Visita, soprattutto ai numerosi volontari. Così essa è stata un grande dono per me e per tutti noi e ha suscitato gioia, speranza e un nuovo slancio di fede e di impegno per il futuro.
Nella capitale federale Berlino, il Presidente Federale mi ha accolto nella sua residenza e mi ha dato il benvenuto a nome suo e dei miei connazionali, esprimendo la stima e l’affetto nei confronti di un Papa nativo della terra tedesca. Da parte mia, ho potuto tracciare un breve pensiero sul rapporto reciproco tra religione e libertà, ricordando una frase del grande Vescovo e riformatore sociale Wilhelm von Ketteler: “Come la religione ha bisogno della libertà, così anche la libertà ha bisogno della religione.”
Ben volentieri ho accolto l’invito a recarmi al Bundestag, quello che è stato certamente uno dei momenti di grande portata del mio viaggio. Per la prima volta un Papa ha tenuto un discorso davanti ai membri del Parlamento tedesco. In tale occasione ho voluto esporre il fondamento del diritto e del libero Stato di diritto, cioè la misura di ogni diritto, inscritto dal Creatore nell’essere stesso della sua creazione. E’ necessario perciò allargare il nostro concetto di natura, comprendendola non solo come un insieme di funzioni ma oltre questo come linguaggio del Creatore per aiutarci a discernere il bene dal male. Successivamente ha avuto luogo anche un incontro con alcuni rappresentanti della comunità ebraica in Germania. Ricordando le nostre comuni radici nella fede nel Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, abbiamo evidenziato i frutti ottenuti finora nel dialogo tra la Chiesa cattolica e l’Ebraismo in Germania. Ho avuto modo ugualmente di incontrare alcuni membri della comunità musulmana, convenendo con essi circa l’importanza della libertà religiosa per uno sviluppo pacifico dell’umanità.
La Santa Messa nello stadio olimpico a Berlino, a conclusione del primo giorno della Visita, è stata una delle grandi celebrazioni liturgiche che mi hanno dato la possibilità di pregare insieme con i fedeli e di incoraggiarli nella fede. Mi sono molto rallegrato della numerosa partecipazione della gente! In quel momento festoso e impressionante abbiamo meditato sull’immagine evangelica della vite e dei tralci, cioè sull’importanza di essere uniti a Cristo per la nostra vita personale di credenti e per il nostro essere Chiesa, suo corpo mistico.
La seconda tappa della mia Visita è stata in Turingia. La Germania, e la Turingia in modo particolare, è la terra della riforma protestante. Quindi, fin dall’inizio ho voluto ardentemente dare particolare rilievo all’ecumenismo nel quadro di questo viaggio, ed è stato mio forte desiderio vivere un momento ecumenico ad Erfurt, perché proprio in tale città Martin Lutero è entrato nella comunità degli Agostiniani e lì è stato ordinato sacerdote. Perciò mi sono molto rallegrato dell’incontro con i membri del Consiglio della Chiesa Evangelica in Germania e dell’atto ecumenico nell’ex-Convento degli Agostiniani: un incontro cordiale che, nel dialogo e nella preghiera, ci ha portato in modo più profondo a Cristo. Abbiamo visto di nuovo quanto sia importante la nostra comune testimonianza della fede in Gesù Cristo nel mondo di oggi, che spesso ignora Dio o non si interessa di Lui. Occorre il nostro comune sforzo nel cammino verso la piena unità, ma siamo sempre ben consapevoli che non possiamo “fare” né la fede né l’unità tanto auspicata. Una fede creata da noi stessi non ha alcun valore, e la vera unità è piuttosto un dono del Signore, il quale ha pregato e prega sempre per l’unità dei suoi discepoli. Solo Cristo può donarci quest’unità, e saremo sempre più uniti nella misura in cui torniamo a Lui e ci lasciamo trasformare da Lui.
Un momento particolarmente emozionante è stata per me la celebrazione dei Vespri mariani davanti al santuario di Etzelsbach, dove mi ha accolto una moltitudine di pellegrini. Già da giovane avevo sentito parlare della regione dell’Eichsfeld – striscia di terra rimasta sempre cattolica nelle varie vicissitudini della storia – e dei suoi abitanti che si sono opposti coraggiosamente alle dittature del nazismo e del comunismo. Così sono stato molto contento di visitare questa Eichsfeld e la sua gente in un pellegrinaggio all’immagine miracolosa della Vergine Addolorata di Etzelsbach, dove per secoli i fedeli hanno affidato a Maria le proprie richieste, preoccupazioni, sofferenze, ricevendo conforto, grazie e benedizioni. Altrettanto toccante è stata la Messa celebrata nella magnifica piazza del Duomo a Erfurt. Ricordando i santi patroni della Turingia – Santa Elisabetta, San Bonifacio e San Kilian – e l’esempio luminoso dei fedeli che hanno testimoniato il Vangelo durante i sistemi totalitari, ho invitato i fedeli ad essere i santi di oggi, validi testimoni di Cristo, e a contribuire a costruire la nostra società. Sempre, infatti, sono stati i santi e le persone pervase dall’amore di Cristo a trasformare veramente il mondo. Commovente è stato anche il breve incontro con Mons. Hermann Scheipers, l’ultimo sacerdote tedesco vivente sopravvissuto al campo di concentramento di Dachau. Ad Erfurt ho avuto anche occasione di incontrare alcune vittime di abuso sessuale da parte di religiosi, alle quali ho voluto assicurare il mio rammarico e la mia vicinanza alla loro sofferenza.
L’ultima tappa del mio viaggio mi ha portato nel sud-ovest della Germania, nell’Arcidiocesi di Freiburg. Gli abitanti di questa bella città, i fedeli dell’Arcidiocesi e i numerosi pellegrini venuti dalle vicine Svizzera e Francia e da altri Paesi mi hanno riservato un’accoglienza particolarmente festosa. Ho potuto sperimentarlo anche nella veglia di preghiera con migliaia di giovani. Sono stato felice di vedere che la fede nella mia patria tedesca ha un volto giovane, che è viva e ha un futuro. Nel suggestivo rito della luce ho trasmesso ai giovani la fiamma del cero pasquale, simbolo della luce che è Cristo, esortandoli: “Voi siete la luce del mondo”. Ho ripetuto loro che il Papa confida nella collaborazione attiva dei giovani: con la grazia di Cristo, essi sono in grado di portare al mondo il fuoco dell’amore di Dio.
Un momento singolare è stato l’incontro con i seminaristi nel Seminario di Freiburg. Rispondendo in un certo senso alla toccante lettera che essi mi avevano fatto pervenire qualche settimana prima, ho voluto mostrare a quei giovani la bellezza e grandezza della loro chiamata da parte del Signore e offrire loro qualche aiuto per proseguire il cammino della sequela con gioia e in profonda comunione con Cristo. Sempre nel Seminario ho avuto modo di incontrare in un’atmosfera fraterna anche alcuni rappresentanti delle Chiese ortodosse e ortodosse orientali, alle quali noi cattolici ci sentiamo molto vicini. Proprio da questa ampia comunanza deriva anche il compito comune di essere lievito per il rinnovamento della nostra società. Un amichevole incontro con rappresentanti del laicato cattolico tedesco ha concluso la serie di appuntamenti nel Seminario.
La grande celebrazione eucaristica domenicale all’aeroporto turistico di Freiburg è stata un altro momento culminante della Visita pastorale, e l’occasione per ringraziare quanti si impegnano nei vari ambiti della vita ecclesiale, soprattutto i numerosi volontari e i collaboratori delle iniziative caritative. Sono essi che rendono possibili i molteplici aiuti che la Chiesa tedesca offre alla Chiesa universale, specie nelle terre di missione. Ho ricordato anche che il loro prezioso servizio sarà sempre fecondo, quando deriva da una fede autentica e viva, in unione con i Vescovi e il Papa, in unione con la Chiesa. Infine, prima del mio ritorno, ho parlato ad un migliaio di cattolici impegnati nella Chiesa e nella società, suggerendo alcune riflessioni sull’azione della Chiesa in una società secolarizzata, sull’invito ad essere libera da fardelli materiali e politici per essere più trasparente a Dio.
Cari fratelli e sorelle, questo Viaggio Apostolico in Germania mi ha offerto un’occasione propizia per incontrare i fedeli della mia patria tedesca, per confermarli nella fede, nella speranza e nell’amore, e condividere con loro la gioia di essere cattolici. Ma il mio messaggio era rivolto a tutto il popolo tedesco, per invitare tutti a guardare con fiducia al futuro. È vero, “Dov’è Dio, là c’è futuro”. Ringrazio ancora una volta tutti coloro che hanno reso possibile questa Visita e quanti mi hanno accompagnato con la preghiera. Il Signore benedica il popolo di Dio in Germania e benedica voi tutti. Grazie.
Saluti:
Je salue les pèlerins francophones, particulièrement les pèlerins de Paris, de Nantes, et de Russ, ainsi que ceux venus de Tournai et du Bénin, pays que je vais visiter bientôt. Chers amis, le Christ-Jésus donne à notre vie son sens le plus profond. C’est Lui notre présent et notre avenir. Redécouvrons la joie de croire en Lui et restons unis à Lui dans l’Église ! Je vous bénis de tout cœur.
I offer a warm welcome to all the English-speaking visitors present at today’s Audience, especially those from England, Norway, Sweden, Kenya, South Africa, Samoa, Indonesia, Japan, South Korea and the United States of America. My affectionate greeting goes to the students of both the Venerable English College and the Pontifical Irish College as they take up their studies for the priesthood. I also greet the ecumenical groups from the Nordic countries and the pilgrims from Samoa. I thank the choirs, including the children’s choir from South Korea, for their praise of God in song. Upon all of you I invoke Almighty God’s blessings of joy and peace.
Gerne grüße ich alle Pilger und Besucher deutscher Sprache, vor allem die vielen Jugendlichen. Mit zahlreichen Begegnungen und feierlichen Gottesdiensten war mein Besuch in Deutschland ein Fest des Glaubens. Wir durften erneut spüren, daß Gott uns führt, daß er wirklich Erfüllung, den tiefsten Sinn des Lebens und Zukunft schenkt. Diese Zuversicht wollen wir an unsere Mitmenschen weitergeben. Der Herr segne euch alle!
Saludo a los peregrinos de lengua española, en particular a las Religiosas de la Compañía de Santa Teresa de Jesús que celebran su Capítulo General; a los fieles de las Diócesis de Teruel y Albarracín; a los peregrinos de la Arquidiócesis de Santo Domingo, junto a su Obispo Auxiliar; a los sacerdotes de la Arquidiócesis de Medellín, así como a los demás grupos venidos de España, Colombia, Chile, República Dominicana, México y otros países latinoamericanos. Invito a todos a dar gracias al Señor por esta Visita Apostólica a Alemania, suplicándole que, cuanto he podido sembrar en estos días, ayude a percibir cada vez más cómo Dios ofrece a todos un futuro. Muchas gracias.
Amados peregrinos de língua portuguesa, cordiais saudações para todos vós, de modo especial para os fiéis de Piracicaba e Belo Horizonte, de Bauru e Apucarana: convido-vos a olhar com confiança o vosso futuro em Deus. Com a graça de Cristo, sois capazes de levar ao mundo o fogo do amor de Deus. Sobre vós e vossas famílias desça a minha Bênção.
Saluto in lingua polacca:
Serdecznie pozdrawiam polskich pielgrzymów. Dziękuję Wam za modlitewne wsparcie podczas mojej wizyty w rodzinnych Niemczech. Dziękuję również tym wszystkim Polakom, którzy byli obecni w Berlinie, Erfurcie, Fryburgu i innych miejscach, jednocząc się z braćmi Niemcami i ubogacając się wzajemnie świadectwem wiary. Niech Bóg wam błogosławi!
Traduzione italiana:
Saluto cordialmente i pellegrini polacchi. Vi ringrazio per l’orante sostegno durante la mia visita nella nativa Germania. Ringrazio anche tutti i Polacchi, che sono stati presenti a Berlin, Erfurt, Feiburg e in altri luoghi, unendosi ai fratelli tedeschi e arricchendosi a vicenda della testimonianza della Fede. Dio vi benedica!
Saluto in lingua croata:
Srdačno pozdravljam sve hrvatske hodočasnike, a osobito vjernike iz župe Svetog Nikole Tavelića iz Zagreba. Dragi prijatelji, po primjeru apostola i tolikih svetaca iz vašega naroda, budite oduševljeni za Krista i slijedite Ga u ljubavi. Hvaljen Isus i Marija!
Traduzione italiana:
Saluto cordialmente i pellegrini croati ed in modo particolare i fedeli della parrocchia di San Nicola Tavelić di Zagabria. Cari amici, sull’esempio degli Apostoli e di tanti santi del vostro popolo, siate appassionati a Cristo e seguiteLo nell’amore. Siano lodati Gesù e Maria!
Saluto in lingua ceca:
Srdečně zdravím české poutníky, zvláště skupinu ze Štípy. Drazí přátelé, modlím se za vás a vaše rodiny a všem vám žehnám. Chvála Kristu!
Traduzione italiana:
Rivolgo un cordiale saluto ai pellegrini di lingua ceca, in particolare al gruppo proveniente da Stipa. Cari amici, assicuro un ricordo nella preghiera per voi e per le vostre famiglie e tutti vi benedico. Sia lodato Gesù Cristo!
Saluto in lingua ungherese:
Nagy szeretettel üdvözlöm a magyar zarándokokat, különösen is a közép-európai Mária-út alapítóit és a kunszentmiklósi híveket. A római bazilikákba vezető utatok és az Örök Város hagyományával való találkozástok erősítsen meg benneteket a hitben és legyen a lelki gyarapodás forrása.
A szent főangyalok közbenjárását kérve szívesen adom Rátok Apostoli Áldásomat. Dicsértessék a Jézus Krisztus!
Traduzione italiana:
Saluto con grande affetto i pellegrini di lingua ungherese, specialmente i fondatori della Via Mariana dell’Europa Centro-orientale ed i fedeli che sono arrivati da Kunszentmiklós. Il vostro pellegrinaggio alle Basiliche di Roma e l’incontro con la tradizione della Città Eterna rafforzino la vostra fede e diventino fonte della crescita spirituale. Chiedendo la intercessione dei santi Arcangeli imparto volentieri a voi la Benedizione Apostolica. Sia lodato Gesù Cristo!
Saluto in lingua ucraina:
Щиро вітаю український молодіжний хор з Перемишля. Дорогі друзі, через спів ви також поширюєте найвищі людські та християнські цінності. Всім вам уділяю своє благословення.
Traduzione italiana:
Saluto cordialmente il coro giovanile ucraino, proveniente da Przemysl. Cari amici anche attraverso il canto, diffondete i più alti valori umani e cristiani. A tutti voi la mia benedizione.
* * *
Rivolgo un cordiale saluto ai pellegrini di lingua italiana. In particolare, sono lieto di accogliere i sacerdoti del Pontificio Collegio San Pietro, provenienti da vari Paesi, come pure le Suore Benedettine della Divina Provvidenza, che ricordano significativi anniversari, ed auguro a ciascuno di continuare con fervore la testimonianza evangelica nella Chiesa e nel mondo. Saluto poi i fedeli della diocesi di Belluno-Feltre, che, insieme al loro Vescovo Mons. Giuseppe Andrich, sono venuti a Roma per fare grata e orante memoria del mio venerato Predecessore, il Servo di Dio Giovanni Paolo I, nell’anniversario della sua scomparsa. Saluto il pellegrinaggio della diocesi di Ascoli Piceno, guidato dal Vescovo Mons. Silvano Montevecchi, ed auspico che questa sosta presso le tombe degli Apostoli segni per l’intera Comunità diocesana una rinnovata vitalità spirituale nella fedele adesione a Cristo e sotto lo sguardo materno della celeste patrona la Beata Vergine delle Grazie.
Come di consueto, il mio pensiero va infine ai giovani, ai malati e agli sposi novelli. Tutti invito ad essere sempre fedeli all’ideale evangelico per realizzarlo nella vita di ogni giorno, sperimentando così la gioia della presenza di Cristo.
Omelia per l’11 settembre del cardinale prefetto della Congregazione per i Vescovi
Solo il perdono
sradica l’odio
Pubblichiamo integralmente il testo dell’omelia che il cardinale prefetto della Congregazione per i Vescovi ha pronunciato l’11 settembre scorso — XXIV domenica del tempo ordinario — in occasione del pellegrinaggio dei presuli ordinati nell’ultimo anno presso la basilica di San Pietro.
di Marc Ouellet
Oggi ricorre il triste anniversario della distruzione delle «torri gemelle» di Manhattan avvenuta l’11 settembre 2001. Tornano alla mente tutte quelle immagini allucinanti di quella orribile tragedia che ha gettato il mondo nella costernazione e in una insicurezza permanente. Tutto il decennio è stato contraddistinto da questo attentato che ha destabilizzato l’equilibrio politico del pianeta e ha compromesso profondamente l’equilibrio della pace. Un tale ricordo ci introduce immediatamente nel mistero del male presente nella storia del mondo, male tanto più odioso quanto si unisce, a volte, a sedicenti motivazioni religiose. Nella storia dell’umanità, odio e violenza non generano che guerra e la guerra è sempre un male, un male minore in certe circostanze, ma sempre un male che non porta mai a delle vere soluzioni. Dieci anni or sono, in risposta a questo attentato di New York, il beato Giovanni Paolo II ha fatto organizzare un incontro interreligioso ad Assisi, un giorno di preghiera per la pace. Questo gesto ha ricordato al mondo che le religioni, tutte le religioni, sono delle sorgenti per la pace e che chiunque uccide in nome di Dio, tradisce l’autentica religione.
È veramente interessante che questo triste anniversario coincida con la domenica nella quale la liturgia parla molto esplicitamente del perdono. «Chi si vendica avrà la vendetta dal Signore», scrive Ben Sirach il Saggio, «ed egli terrà sempre presenti i suoi peccati. Perdona l'offesa al tuo prossimo e allora per la tua preghiera ti saranno rimessi i peccati». Questa massima è ripresa nel Vangelo in una maniera più profonda e radicale: «Signore, quante volte dovrò perdonare al mio fratello, se pecca contro di me? Fino a sette volte?». E Gesù rispose: «Non ti dico fino a sette, ma fino a settanta volte sette». Questa risposta significa che il perdono deve essere costante e senza misura. Gesù aggiunge una parabola che contiene una sola esigenza: colui che è stato perdonato, a sua volta deve perdonare.
Si potrebbe obiettare che la risposta di Gesù si riferisce a una morale individuale, ma che non è pertinente circa la morale sociale, quando delle gravi offese distruggono la pace pubblica. Non è, quindi, necessario avere come prioritaria l’esigenza di ristabilire la giustizia? Ma la giustizia può essere ristabilita senza la carità che perdona? L’enciclica Caritas in veritate ci insegna a non opporre carità e giustizia e che «la carità completa la giustizia nella logica del dono e del perdono» (n. 6). La storia del mondo è contrassegnata da guerre micidiali che sono state condotte in nome della giustizia. Solo il perdono può vincere l’odio e la violenza. L’obiezione contro la parabola di Gesù non è valida.
Osserviamo attentamente il senso profondo della parabola: rivela il disegno di Dio di ricostruire l’umanità attraverso il suo perdono universale che deve generare nuove relazioni tra gli uomini. Dio perdona le mancanze, gratuitamente e senza condizione. Una tale grazia ci è offerta in Gesù Cristo senza alcun merito nostro, e tale grazia ci dispone a un atteggiamento di bontà e di misericordia nei riguardi dell’altro. Diversamente la misericordia di Dio è tradita e disprezzata. Non ci si prende gioco di Dio.
La Sacra Scrittura ci rivela così il volto di un Dio ricco di tenerezza e di misericordia, che si compiace nel perdonare. Tuttavia, non dimentichiamo che Dio è il Dio dell’Alleanza, che attende pertanto da parte nostra una risposta che faccia beneficiare i nostri simili del perdono gratuito e incondizionato che noi abbiamo ricevuto.
Quando Gesù parla del perdono, bisogna avere presente la sua bella preghiera sulla Croce: «Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno» (Luca, 23, 34). Gesù intercede per coloro che lo stanno crocifiggendo. O meglio, egli li scusa. Tutto ciò perché Dio sa vedere nel cuore dell’uomo e vede che nessun uomo calcola pienamente la portata delle sue offese. Siamo chiamati a rivolgere ai nostri fratelli questo sguardo di misericordia che Dio rivolge a loro e a noi. Senza di ciò non esistono più possibili relazioni umane, è la guerra, è il ciclo infernale della vendetta. Il perdono sradica ed elimina l’odio. Ogni peccato merita il perdono; ma il rifiuto del perdono rende impossibile di beneficiarne noi stessi. La parabola di oggi lo mostra chiaramente e il Padre nostro ci ricorda ogni giorno quale debba essere la nostra vigilanza in materia di perdono.
Cari fratelli, viviamo il momento fra i più significativi del nostro pellegrinaggio alla tomba di san Pietro, in quanto vescovi eletti e ordinati da poco, per far parte del collegio dei successori degli apostoli. La Parola che noi abbiamo ascoltato, il luogo in cui ci troviamo riuniti in assemblea, il ricordo della suprema testimonianza del primo degli apostoli, tutto ci aiuta a plasmare la nostra identità di servitori del Signore nel ministero episcopale.
La parola di san Paolo ai Romani, che lui stesso a suggellato con il proprio martirio, si applica in modo tutto particolare alla nostra vocazioni di ministri del Signore: «Fratelli, nessuno di voi vive per se stesso e nessuno muore per se stesso, perché se noi viviamo, viviamo per il Signore, se noi moriamo, moriamo per il Signore. Sia che viviamo, sia che moriamo, siamo dunque del Signore».
A noi, oggi, interessa guardare il nostro ministero episcopale mettendoci nella giusta prospettiva del perdono, di cui parlano i testi sacri. Infatti, il ministero che noi dobbiamo compiere nel nostro mondo ferito è un ministero di pace e di riconciliazione. Al seguito di san Pietro e di san Paolo che hanno annunciato Cristo con il prezzo della loro vita, la nostra carità pastorale deve sgorgare quotidianamente dalla nostra comunione con il corpo e il sangue del Salvatore. Offriamoci sinceramente a Lui in questa Eucaristia solenne con il popolo che ci è stato affidato, affinché, in noi, risplenda il Suo sacerdozio e che la nostra fedeltà lasci trasparire il volto misericordioso del Salvatore.
Prendiamo, anche, coscienza che il nostro ministero è un ministero di unità che affonda le radici nell’unità del collegio apostolico. Infatti, l’amore e il perdono, di cui noi siamo dei testimoni privilegiati, dovrebbero cominciare tra noi vescovi, ed estendersi ai nostri presbiteri e risplendere sulle nostre comunità diocesane.
Dio ha voluto che noi fossimo benedetti dal ministero di unità di Sua Santità Benedetto XVI, la cui sapienza e saggezza risplendono al di là delle frontiere della Chiesa, sull’esempio del beato predecessore Giovanni Paolo II. Rimaniamo in profonda comunione con lui, attraverso l’affetto filiale e l’obbedienza, non solo perché è dotato di un carisma eccezionale circa l’insegnamento che edifica anche gli stessi non credenti, ma soprattutto e semplicemente perché egli è il Papa, il successore di Pietro, colui al quale il Cristo ha affidato la sua Chiesa. Amen.
Da alcune «Lettere e conferenze spirituali» di san Vincenzo de' Paoli, sacerdote
(Cfr. lett, 2546, ecc.; Correspondance, entretiens, documents, Paris 1922-1925, passim)
Non dobbiamo regolare il nostro atteggiamento verso i poveri da ciò che appare esternamente in essi e neppure in base alle loro qualità interiori. Dobbiamo piuttosto considerarli al lume della fede. Il Figlio di Dio ha voluto essere povero, ed essere rappresentato dai poveri. Nella sua passione non aveva quasi la figura di uomo; appariva un folle davanti ai gentili, una pietra di scandalo per i Giudei; eppure egli si qualifica l'evangelizzazione dei poveri: «Mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio» (Lc 4, 18).
Dobbiamo entrare in questi sentimenti e fare ciò che Gesù ha fatto: curare i poveri, consolarli, soccorrerli, raccomandarli.
Egli stesso volle nascere povero, ricevere nella sua compagnia i poveri, servire i poveri, mettersi al posto dei poveri, fino a dire che il bene o il male che noi faremo ai poveri lo terrà come fatto alla sua persona divina. Dio ama i poveri, e, per conseguenza, ama quelli che amano i poveri. In realtà quando si ama molto qualcuno, si porta affetto ai suoi amici e ai suoi servitori. Così abbiamo ragione di sperare che, per amore di essi, Dio amerà anche noi.
Quando andiamo a visitarli, cerchiamo di capirli per soffrire con loro, e di metterci nella disposizione interiore dell'Apostolo che diceva: «Mi sono fatto tutto a tutti» (1 Cor 9, 22). Sforziamoci perciò di diventare sensibili alle sofferenze e alle miserie del prossimo. Preghiamo Dio, per questo, che ci doni lo spirito di misericordia e di amore, che ce ne riempia e che ce lo conservi.
Il servizio dei poveri deve essere preferito a tutto. Non ci devono essere ritardi. Se nell'ora dell'orazione avete da portare una medicina o un soccorso a un povero, andatevi tranquillamente.
Offrite a Dio la vostra azione, unendovi l'intenzione dell'orazione. Non dovete preoccuparvi e credere di aver mancato, se per il servizio dei poveri avete lasciato l'orazione. Non è lasciare Dio, quando si lascia Dio per Iddio, ossia un'opera di Dio per farne un'altra. Se lasciate l'orazione per assistere un povero, sappiate che far questo è servire Dio. La carità è superiore a tutte le regole, e tutto deve riferirsi ad essa. E` una grande signora: bisogna fare ciò che comanda.
Tutti quelli che ameranno i poveri in vita non avranno alcuna timore della morte. Serviamo dunque con rinnovato amore i poveri e cerchiamo i più abbandonati. Essi sono i nostri signori e padroni.
Illustre e caro Signor Presidente Federale, Distinti Rappresentanti del Governo Federale, del Land Baden Württemberg e dei Comuni, Cari Confratelli nell’Episcopato, Gentili Signore e Signori!
Prima di lasciare la Germania, mi preme ringraziare per i giorni trascorsi, così commoventi e ricchi di avvenimenti, nella nostra patria.
La mia gratitudine va a Lei, Signor Presidente Federale Wulff, che, a Berlino, mi ha accolto in nome del popolo tedesco ed ora, al momento del congedo, mi ha onorato di nuovo con le sue cortesi parole. Ringrazio i Rappresentanti del Governo Federale e dei Governi dei Länder che sono venuti alla cerimonia di congedo. Un grazie di cuore all’Arcivescovo di Friburgo Mons. Zollitsch, che mi ha accompagnato durante tutto il viaggio. Volentieri estendo i miei ringraziamenti anche all’Arcivescovo di Berlino Mons. Woelki, e al Vescovo di Erfurt Mons. Wanke, che mi hanno altrettanto mostrato la loro ospitalità, nonché all’intero Episcopato tedesco. Infine, rivolgo un ringraziamento particolare a quanti hanno preparato, dietro le quinte, questi quattro giorni, assicurando il loro svolgimento, senza intoppi: alle istituzioni comunali, alle forze dell’ordine, ai servizi sanitari, ai responsabili dei trasporti pubblici nonché ai numerosi volontari. Ringrazio tutti per queste splendide giornate, per i tanti incontri personali e per gli innumerevoli segni di attenzione e di affetto mostratimi.
Nella capitale federale Berlino ho avuto l’occasione particolare di parlare davanti ai parlamentari al Deutscher Bundestag ed esporre loro alcune riflessioni sui fondamenti intellettuali dello stato di diritto. Volentieri ripenso anche ai colloqui fruttuosi con il Presidente Federale e la Signora Cancelliere sulla situazione attuale del popolo tedesco e della comunità internazionale. Mi ha particolarmente toccato l’accoglienza cordiale e l’entusiasmo di così tante persone a Berlino.
Ovviamente, questa visita era rivolta in particolare ai cattolici Berlino, a Erfurt, nell’Eichsfeld e a Friburgo. Ricordo con piacere le celebrazioni liturgiche comuni, la gioia, l’ascoltare insieme la Parola di Dio e il pregare e il cantare uniti – soprattutto anche nelle parti del Paese in cui si è tentato per decenni di rimuovere la religione dalla vita delle persone. Questo mi rende fiducioso per il futuro della Chiesa in Germania e del cristianesimo in Germania. Come già durante le visite precedenti, si è potuto sperimentare quante persone qui testimoniano la propria fede e rendono presente la sua forza trasformante nel mondo di oggi.
Non da ultimo, sono stato molto lieto, dopo l’impressionante Giornata Mondiale della Gioventù a Madrid, di stare anche a Friburgo, di nuovo insieme con tanti giovani, ieri, alla veglia della gioventù. Desidero incoraggiare la Chiesa in Germania a proseguire con forza e fiducia il cammino della fede, che fa ritornare le persone alle radici, al nucleo essenziale della Buona Novella di Cristo. Ci saranno comunità piccole di credenti – e già esistono – che con il proprio entusiasmo diffondono raggi di luce nella società pluralistica, rendendo altri curiosi di cercare la luce che dà vita in abbondanza. “Non vi è niente di più bello che conoscere Lui e comunicare agli altri l’amicizia con lui” (Omelia per l’inizio solenne del Ministero petrino, 24 aprile 2005). Da questa esperienza cresce infine la certezza: “Dove c’è Dio, là c’è futuro”. Dove Dio è presente, là c’è speranza e là si aprono prospettive nuove e spesso insospettate che vanno oltre l’oggi e le cose effimere. In questo senso accompagno, nei pensieri e nelle preghiere, il cammino della Chiesa in Germania.
Colmo di esperienze e ricordi, fortemente impressi, di questi giorni nella mia patria, ritorno ora a Roma. Con l’assicurazione delle mie preghiere per tutti voi e per un futuro buono per il nostro Paese in pace e libertà, mi congedo con un cordiale “Vergelt’s Gott” [Dio ve ne renda merito]. Dio vi benedica tutti!
Illustre Signor Presidente federale, Signor Presidente dei Ministri, Signor Sindaco, Illustri Signori e Signore, Cari Confratelli nel ministero episcopale e sacerdotale!
Sono contento di questo incontro con voi, che siete impegnati in molteplici modi per la Chiesa e la società. Questo mi offre un’occasione gradita di ringraziarvi qui personalmente con tutto il cuore per il vostro servizio e la vostra testimonianza quali “efficaci araldi della fede nelle cose sperate” (Lumen gentium, 35), come il Concilio Vaticano II definisce le persone che, in base alla fede, si preoccupano come voi del presente e del futuro. Nel vostro ambiente di lavoro difendete volentieri la causa della vostra fede e della Chiesa, cosa – come sappiamo – davvero non sempre facile nel tempo attuale.
Da decenni assistiamo ad una diminuzione della pratica religiosa, constatiamo un crescente distanziarsi di una parte notevole di battezzati dalla vita della Chiesa. Emerge la domanda: la Chiesa non deve forse cambiare? Non deve forse, nei suoi uffici e nelle sue strutture, adattarsi al tempo presente, per raggiungere le persone di oggi che sono alla ricerca e in dubbio?
Alla beata Madre Teresa fu richiesto una volta di dire quale fosse, secondo lei, la prima cosa da cambiare nella Chiesa. La sua risposta fu: Lei ed io!
Questo piccolo episodio ci rende evidenti due cose: da un lato, la religiosa intende dire all’interlocutore che la Chiesa non sono soltanto gli altri, non soltanto la gerarchia, il Papa e i Vescovi: Chiesa siamo tutti noi, i battezzati. Dall’altro lato, essa parte effettivamente dal presupposto: sì, c’è motivo per un cambiamento. Esiste un bisogno di cambiamento. Ogni cristiano e la comunità dei credenti nel suo insieme sono chiamati ad una continua conversione.
Come deve configurarsi concretamente questo cambiamento? Si tratta forse di un rinnovamento come lo realizza ad esempio un proprietario di casa attraverso una ristrutturazione o la tinteggiatura del suo stabile? Oppure si tratta qui di una correzione, per riprendere la rotta e percorrere in modo più spedito e diretto un cammino? Certamente, questi ed altri aspetti hanno importanza, e qui non possiamo affrontarli tutti. Ma per quanto riguarda il motivo fondamentale del cambiamento: esso è la missione apostolica dei discepoli e della Chiesa stessa.
Infatti, la Chiesa deve sempre di nuovo verificare la sua fedeltà a questa missione. I tre Vangeli sinottici mettono in luce diversi aspetti del mandato di tale missione: la missione si basa anzitutto sull’esperienza personale: “Voi siete testimoni” (Lc 24,48); si esprime in relazioni: “Fate discepoli tutti i popoli” (Mt 28,19); trasmette un messaggio universale: “Proclamate il Vangelo a ogni creatura” (Mc 16,15). A causa delle pretese e dei condizionamenti del mondo, però, questa testimonianza viene ripetutamente offuscata, vengono alienate le relazioni e viene relativizzato il messaggio. Se poi la Chiesa, come dice Papa Paolo VI, “cerca di modellare se stessa secondo il tipo che Cristo le propone, avviene che la Chiesa si distingue profondamente dall'ambiente umano, in cui essa pur vive, o a cui essa si avvicina” (Lettera enciclica Ecclesiam suam, 60). Per compiere la sua missione, essa dovrà anche continuamente prendere le distanze dal suo ambiente, dovrà, per così dire, essere distaccata dal mondo.
La missione della Chiesa, infatti, deriva dal mistero del Dio uno e trino, dal mistero del suo amore creatore. E l’amore non è soltanto presente in qualche modo in Dio: Egli stesso lo è, è per sua natura amore. E l’amore di Dio non vuole essere isolato in sé, ma secondo la sua natura vuole diffondersi. Nell’incarnazione e nel sacrificio del Figlio di Dio, esso ha raggiunto l’umanità – cioè noi – in modo particolare, e questo attraverso il fatto che Cristo, il Figlio di Dio è, per così dire, uscito dalla sfera del suo essere Dio, si è fatto carne ed è diventato uomo; non soltanto per confermare il mondo nel suo essere terreno, ed essere il suo compagno che lo lascia così come è, ma per trasformarlo. Dell’evento cristologico fa parte il dato incomprensibile che – come dicono i Padri della Chiesa – esiste un sacrum commercium, uno scambio tra Dio e gli uomini. I Padri lo spiegano così: noi non abbiamo nulla che potremmo dare a Dio, possiamo solo metterGli davanti il nostro peccato. Ed egli lo accoglie, lo assume come proprio, e in cambio ci dà se stesso e la sua gloria. Si tratta di uno scambio davvero disuguale che si compie nella vita e nella passione di Cristo. Egli si fa peccatore, prende il peccato su di sé, assume ciò che è nostro e ci dà ciò che è suo. Ma nello sviluppo del pensiero e della vita alla luce della fede, in seguito, si è reso evidente che non Gli diamo solo il peccato, bensì Egli ci ha dato la facoltà: dall’intimo ci dona la forza di darGli anche qualcosa di positivo, il nostro amore, di dargli l’umanità in senso positivo. Naturalmente è chiaro che solo grazie alla generosità di Dio, l’uomo, il mendicante che riceve la ricchezza divina, tuttavia, può anche dare qualcosa a Dio; Dio ci rende sopportabile il dono, rendendoci capaci di diventare donatori nei suoi confronti.
La Chiesa deve se stessa totalmente a questo scambio disuguale. Non possiede niente da sé stessa di fronte a Colui che l’ha fondata, in modo da poter dire: l’abbiamo fatto molto bene! Il suo senso consiste nell’essere strumento della redenzione, nel lasciarsi pervadere dalla parola di Dio e nell’introdurre il mondo nell’unione d’amore con Dio. La Chiesa s’immerge nell’attenzione condiscendente del Redentore verso gli uomini. Quando è davvero se stessa, essa è sempre in movimento, deve continuamente mettersi al servizio della missione, che ha ricevuto dal Signore. E per questo deve sempre di nuovo aprirsi alle preoccupazioni del mondo, del quale, appunto, essa stessa fa parte, dedicarsi senza riserve tali preoccupazioni, per continuare e rendere presente lo scambio sacro che ha preso inizio con l’Incarnazione.
Nello sviluppo storico della Chiesa si manifesta, però, anche una tendenza contraria: quella cioè di una Chiesa soddisfatta di se stessa, che si accomoda in questo mondo, è autosufficiente e si adatta ai criteri del mondo. Non di rado dà così all’organizzazione e all’istituzionalizzazione un’importanza maggiore che non alla sua chiamata all’essere aperta verso Dio e ad un aprire il mondo verso il prossimo.
Per corrispondere al suo vero compito, la Chiesa deve sempre di nuovo fare lo sforzo di distaccarsi da questa sua secolarizzazione e diventare nuovamente aperta verso Dio. Con ciò essa segue le parole di Gesù: “Essi non sono del mondo, come io non sono del mondo” (Gv 17,16), ed è proprio così che Lui si dona al mondo. In un certo senso, la storia viene in aiuto alla Chiesa attraverso le diverse epoche di secolarizzazione, che hanno contribuito in modo essenziale alla sua purificazione e riforma interiore.
Le secolarizzazioni infatti – fossero esse l’espropriazione di beni della Chiesa o la cancellazione di privilegi o cose simili – significarono ogni volta una profonda liberazione della Chiesa da forme di mondanità: essa si spoglia, per così dire, della sua ricchezza terrena e torna ad abbracciare pienamente la sua povertà terrena. Con ciò condivide il destino della tribù di Levi che, secondo l’affermazione dell’Antico Testamento, era la sola tribù in Israele che non possedeva un patrimonio terreno, ma, come parte di eredità, aveva preso in sorte esclusivamente Dio stesso, la sua parola e i suoi segni. Con tale tribù, la Chiesa condivideva in quei momenti storici l’esigenza di una povertà che si apriva verso il mondo, per distaccarsi dai suoi legami materiali, e così anche il suo agire missionario tornava ad essere credibile.
Gli esempi storici mostrano che la testimonianza missionaria di una Chiesa distaccata dal mondo emerge in modo più chiaro. Liberata dai fardelli e dai privilegi materiali e politici, la Chiesa può dedicarsi meglio e in modo veramente cristiano al mondo intero, può essere veramente aperta al mondo. Può nuovamente vivere con più scioltezza la sua chiamata al ministero dell’adorazione di Dio e al servizio del prossimo. Il compito missionario, che è legato all’adorazione cristiana e dovrebbe determinare la struttura della Chiesa, si rende visibile in modo più chiaro. La Chiesa si apre al mondo, non per ottenere l’adesione degli uomini per un’istituzione con le proprie pretese di potere, bensì per farli rientrare in se stessi e così condurli a Colui del quale ogni persona può dire con Agostino: Egli è più intimo a me di me stesso (cfr Conf. 3,6,11). Egli, che è infinitamente al di sopra di me, è tuttavia talmente in me stesso da essere la mia vera interiorità. Mediante questo stile di apertura della Chiesa verso il mondo è, insieme, tracciata anche la forma in cui l’apertura al mondo da parte del singolo cristiano può realizzarsi in modo efficace e adeguato.
Non si tratta qui di trovare una nuova tattica per rilanciare la Chiesa. Si tratta piuttosto di deporre tutto ciò che è soltanto tattica e di cercare la piena sincerità, che non trascura né reprime alcunché della verità del nostro oggi, ma realizza la fede pienamente nell’oggi vivendola, appunto, totalmente nella sobrietà dell’oggi, portandola alla sua piena identità, togliendo da essa ciò che solo apparentemente è fede, ma in verità è convenzione ed abitudine.
Diciamolo ancora con altre parole: la fede cristiana è per l’uomo uno scandalo sempre e non soltanto nel nostro tempo. Che il Dio eterno si preoccupi di noi esseri umani, ci conosca; che l’Inafferrabile sia diventato in un determinato momento in un determinato luogo, afferrabile; che l’Immortale abbia patito e sia morto sulla croce; che a noi esseri mortali siano promesse la risurrezione e la vita eterna – credere questo è per gli uomini senz’altro una vera pretesa.
Questo scandalo, che non può essere abolito se non si vuole abolire il cristianesimo, purtroppo, è stato messo in ombra proprio recentemente dagli altri scandali dolorosi degli annunciatori della fede. Si crea una situazione pericolosa, quando questi scandali prendono il posto dello skandalon primario della Croce e così lo rendono inaccessibile, quando cioè nascondono la vera esigenza cristiana dietro l’inadeguatezza dei suoi messaggeri.
Vi è una ragione in più per ritenere che sia nuovamente l’ora di trovare il vero distacco del mondo, di togliere coraggiosamente ciò che vi è di mondano nella Chiesa. Questo, naturalmente, non vuol dire ritirarsi dal mondo, anzi, il contrario. Una Chiesa alleggerita degli elementi mondani è capace di comunicare agli uomini – ai sofferenti come a coloro che li aiutano – proprio anche nell’ambito sociale-caritativo, la particolare forza vitale della fede cristiana. “La carità non è per la Chiesa una specie di attività di assistenza sociale che si potrebbe anche lasciare ad altri, ma appartiene alla sua natura, è espressione irrinunciabile della sua stessa essenza” (Lettera enciclica Deus caritas est, 25). Certamente, anche le opere caritative della Chiesa devono continuamente prestare attenzione all’esigenza di un adeguato distacco dal mondo per evitare che, di fronte ad un crescente allontanamento dalla Chiesa, le loro radici si secchino. Solo il profondo rapporto con Dio rende possibile una piena attenzione all’uomo, così come senza l’attenzione al prossimo s’impoverisce il rapporto con Dio.
Essere aperti alle vicende del mondo significa quindi per la Chiesa distaccata dal mondo testimoniare, secondo il Vangelo, con parole ed opere qui ed oggi la signoria dell’amore di Dio. E questo compito, inoltre, rimanda al di là del mondo presente: la vita presente, infatti, include il legame con la vita eterna. Viviamo come singoli e come comunità della Chiesa la semplicità di un grande amore che, nel mondo, è insieme la cosa più facile e più difficile, perché esige nulla di più e nulla di meno che il donare se stessi.
Cari amici, mi resta di implorare per tutti noi la benedizione di Dio e la forza dello Spirito Santo, affinché possiamo, ciascuno nel proprio campo d’azione, sempre nuovamente riconoscere e testimoniare l’amore di Dio e la sua misericordia. Vi ringrazio per la vostra attenzione.
È per me una grande gioia poter incontrarmi qui con giovani, che si incamminano per servire il Signore; che ascoltano la sua chiamata e vogliono seguirlo. Vorrei ringraziare in modo particolarmente caloroso per la bella lettera, che il Rettore del seminario e i seminaristi mi hanno scritto. Mi ha veramente toccato il cuore vedere come avete riflettuto sulla mia lettera e su di essa avete sviluppato le vostre domande e risposte; con quale serietà accogliete ciò che ho tentato di proporre e, in base a questo, sviluppate la vostra propria via.
Certamente la cosa più bella sarebbe se potessimo avere un dialogo insieme, ma l’orario del viaggio, al quale sono obbligato e devo obbedire, purtroppo, non permette cose del genere. Posso quindi soltanto cercare di sottolineare ancora una volta alcuni pensieri alla luce di ciò che avete scritto e di ciò che io avevo scritto.
Nel contesto della domanda: “Di che cosa fa parte il seminario; che cosa significa questo periodo?” in fondo, mi colpisce sempre più di tutto il modo in cui san Marco, nel terzo capitolo del suo Vangelo, descrive la costituzione della comunità degli Apostoli: “Il Signore fece i Dodici”. Egli crea qualcosa, Egli fa qualcosa, si tratta di un atto creativo. Ed Egli li fece, “perché stessero con Lui e per mandarli” (cfr Mc 3,14): questa è una duplice volontà che, sotto certi aspetti, sembra contraddittoria. “Perché stessero con Lui”: devono stare con Lui, per arrivare a conoscerlo, per ascoltarlo, per lasciarsi plasmare da Lui; devono andare con Lui, essere con Lui in cammino, intorno a Lui e dietro di Lui. Ma allo stesso tempo devono essere degli inviati che partono, che portano fuori ciò che hanno imparato, lo portano agli altri uomini in cammino – verso la periferia, nel vasto ambiente, anche verso ciò che è molto lontano da Lui. E tuttavia, questi aspetti paradossali vanno insieme: se essi sono veramente con Lui, allora sono sempre anche in cammino verso gli altri, allora sono in ricerca della pecorella smarrita, allora vanno lì, devono trasmettere ciò che hanno trovato, allora devono farLo conoscere, diventare inviati. E viceversa: se vogliono essere veri inviati, devono stare sempre con Lui. San Bonaventura disse una volta che gli Angeli, ovunque vadano, per quanto lontano, si muovono sempre all’interno di Dio. Così è anche qui: come sacerdoti dobbiamo uscire fuori nelle molteplici strade in cui si trovano gli uomini, per invitarli al suo banchetto nuziale. Ma lo possiamo fare solo rimanendo sempre presso di Lui. Ed imparare ciò, questo insieme di uscire fuori, di essere mandati, e di essere con Lui, di rimanere presso di Lui, è – credo – proprio ciò che dobbiamo imparare nel seminario. Il modo giusto del rimanere con Lui, il venire profondamente radicati in Lui – essere sempre di più con Lui, conoscerLo sempre di più, sempre di più non separarsi da Lui – e al contempo uscire sempre di più, portare il messaggio, trasmetterlo, non tenerlo per sé, ma portare la Parola a coloro che sono lontani e che, tuttavia, in quanto creature di Dio e amati da Cristo, portano nel cuore il desiderio di Lui.
Il seminario è dunque un tempo dell’esercitarsi; certamente anche del discernere e dell’imparare: Egli mi vuole per questo? La vocazione deve essere verificata, e di questo fa poi parte la vita comunitaria e fa parte naturalmente il dialogo con le guide spirituali che avete, per imparare a discernere ciò che è la sua volontà. E poi apprendere la fiducia: se Egli lo vuole veramente, allora posso affidarmi a Lui. Nel mondo di oggi, che si trasforma in modo incredibile e in cui tutto cambia continuamente, in cui i legami umani si scindono perché avvengono nuovi incontri, diventa sempre più difficile credere: io resisterò per tutta la vita. Già per noi, ai nostri tempi, non era tanto facile immaginare quanti decenni Dio avrebbe forse inteso darmi, quanto sarebbe cambiato il mondo. Persevererò con Lui così come Gli l’ho promesso?... È una domanda che, appunto, esige la verifica della vocazione, ma poi – più riconosco: sì, Egli mi vuole – anche la fiducia: se mi vuole, allora anche mi sorreggerà; nell’ora della tentazione, nell’ora del pericolo sarà presente e mi darà persone, mi mostrerà vie, mi sosterrà. E la fedeltà è possibile, perché Egli è sempre presente, e perché Egli esiste ieri, oggi e domani; perché Egli non appartiene soltanto a questo tempo, ma è futuro e può sorreggerci in ogni momento.
Un tempo di discernimento, di apprendimento, di chiamata… E poi, naturalmente, in quanto tempo dell’essere con Lui, tempo di preghiera, di ascolto di Lui. Ascoltare, imparare ad ascoltarlo veramente – nella Parola della Sacra Scrittura, nella fede della Chiesa, nella liturgia della Chiesa – ed apprendere l’oggi nella sua Parola. Nell’esegesi impariamo tante cose sul ieri: tutto ciò che c’era allora, quali fonti vi sono, quali comunità esistevano e così via. Anche questo è importante. Ma più importante è che in questo ieri noi apprendiamo l’oggi; che Egli con queste parole parla adesso e che esse portano tutte in sé il loro oggi, e che, al di là del loro inizio storico, recano in sé una pienezza che parla a tutti i tempi. Ed è importante imparare questa attualità del suo parlare – imparare ad ascoltare – e così poterne parlare agli altri uomini. Certo, quando si prepara l’omelia per la Domenica, questo parlare… o Dio, è spesso così lontano! Se io, però, vivo con la Parola, allora vedo che non è affatto lontana, è attualissima, è presente adesso, riguarda me e riguarda gli altri. E allora imparo anche a spiegarla. Ma per questo occorre un cammino costante con la Parola di Dio.
Lo stare personalmente con Cristo, con il Dio vivente, è una cosa; l’altra cosa è che sempre soltanto nel “noi” possiamo credere. A volte dico: san Paolo ha scritto: “La fede viene dall’ascolto” – non dal leggere. Ha bisogno anche del leggere, ma viene dall’ascolto, cioè dalla parola vivente, dalle parole che gli altri rivolgono a me e che posso sentire; dalle parole della Chiesa attraverso tutti i tempi, dalla parola attuale che essa mi rivolge mediante i sacerdoti, i Vescovi e i fratelli e le sorelle. Fa parte della fede il “tu” del prossimo, e fa parte della fede il “noi”. E proprio l’esercitarsi nella sopportazione vicendevole è qualcosa di molto importante; imparare ad accogliere l’altro come altro nella sua differenza, ed imparare che egli deve sopportare me nella mia differenza, per diventare un “noi”, affinché un giorno anche nella parrocchia possiamo formare una comunità, chiamare le persone ad entrare nella comunanza della Parola ed essere insieme in cammino verso il Dio vivente. Fa parte di ciò il “noi” molto concreto, come lo è il seminario, come lo sarà la parrocchia, ma poi sempre anche il guardare oltre il “noi” concreto e limitato al grande “noi” della Chiesa di ogni luogo e di ogni tempo, per non fare di noi stessi il criterio assoluto. Quando diciamo: “Noi siamo Chiesa” – sì, è vero: siamo noi, non qualunque persona. Ma il “noi” è più ampio del gruppo che lo sta dicendo. Il “noi” è l’intera comunità dei fedeli, di oggi e di tutti i luoghi e tutti i tempi. E dico poi sempre: nella comunità dei fedeli, sì, lì esiste, per così dire, il giudizio della maggioranza di fatto, ma non può mai esserci una maggioranza contro gli Apostoli e contro i Santi: ciò sarebbe una falsa maggioranza. Noi siamo Chiesa: Siamolo! Siamolo proprio nell’aprirci e nell’andare al di là di noi stessi e nell’esserlo insieme con gli altri!
Credo che, in base all’orario, dovrei forse concludere. Vorrei soltanto dirvi ancora una cosa. La preparazione al sacerdozio, il cammino verso di esso, richiede anzitutto anche lo studio. Non si tratta di una casualità accademica che si è formata nella Chiesa occidentale, ma è qualcosa di essenziale. Sappiamo tutti che san Pietro ha detto: “Siate sempre pronti ad offrire a chiunque vi domandi, come risposta, la ragione, il logos della vostra fede” (cfr 1Pt 3,15). Il nostro mondo oggi è un mondo razionalistico e condizionato dalla scientificità, anche se molto spesso si tratta di una scientificità solo apparente. Ma lo spirito della scientificità, del comprendere, dello spiegare, del poter sapere, del rifiuto di tutto ciò che non è razionale, è dominante nel nostro tempo. C’è in questo pure qualcosa di grande, anche se spesso dietro si nasconde molta presunzione ed insensatezza. La fede non è un mondo parallelo del sentimento, che poi ci permettiamo come un di più, ma è ciò che abbraccia il tutto, gli dà senso, lo interpreta e gli dà anche le direttive etiche interiori, affinché sia compreso e vissuto in vista di Dio e a partire da Dio. Per questo è importante essere informati, comprendere, avere la mente aperta, imparare. Naturalmente, fra vent’anni saranno di moda teorie filosofiche totalmente diverse da quelle di oggi: se penso a ciò che tra noi era la più alta e la più moderna moda filosofica e vedo come tutto ciò ormai sia dimenticato… Ciononostante non è inutile imparare queste cose, perché in esse ci sono anche elementi durevoli. E soprattutto con ciò impariamo a giudicare, a seguire mentalmente un pensiero – e a farlo in modo critico – ed impariamo a far sì che, nel pensare, la luce di Dio ci illumini e non si spenga. Studiare è essenziale: soltanto così possiamo far fronte al nostro tempo ed annunciare ad esso il logos della nostra fede. Studiare anche in modo critico – nella consapevolezza, appunto, che domani qualcun altro dirà qualcosa di diverso – ma essere studenti attenti ed aperti ed umili, per studiare sempre con il Signore, dinanzi al Signore e per Lui.
Sì, potrei dire ancora tante cose, e dovrei forse farlo… Ma ringrazio per l’ascolto. E nella preghiera tutti i seminaristi del mondo sono presenti nel mio cuore – non così bene, con i singoli nomi, come li ho ricevuti qui, ma tuttavia in un cammino interiore verso il Signore: che Egli benedica tutti, a tutti dia luce ed indichi loro la strada giusta, e ci doni molti buoni sacerdoti. Grazie di cuore.