venerdì 2 settembre 2011

Gli affreschi di Raffaello nella Stanza della Segnatura "Quel pennello che servì l’Incarnazione" (Antonio Paolucci)



Gli affreschi di Raffaello nella Stanza della Segnatura

Quel pennello
che servì l’Incarnazione

In occasione del Congresso Eucaristico Nazionale di Ancona (3-11 settembre), si apre nel capoluogo marchigiano la mostra «Alla Mensa del Signore. Capolavori dell’arte europea da Raffaello a Tiepolo». Pubblichiamo ampi stralci di uno dei saggi del catalogo.


di Antonio Paolucci

Si chiama Stanza della Segnatura perché, nel 1541, vi ebbe sede il tribunale ecclesiastico di quel nome. In realtà, nel progetto di Giulio ii della Rovere che aveva stabilito di collocare qui il suo appartamento privato, doveva essere il luogo destinato alla biblioteca. Nella biblioteca di un Papa come in quella di un intellettuale del Rinascimento, ci devono essere libri che parlano di filosofia, di teologia, di estetica, di diritto canonico, di diritto civile e penale. Gli affreschi di Raffaello obbediscono a questa partitura tematica, illustrano e celebrano la disciplina che i libri custodiscono e testimoniano. Questi ultimi non ci sono più perché è mutata nei secoli la funzione dell’ambiente ma gli affreschi si sono conservati, praticamente intatti, fino ai giorni nostri.

Esaminandoli a uno a uno vediamo emergere una teologia dell’uomo straordinariamente moderna. Cominciamo dalla cosiddetta Scuola di Atene. È la celebrazione della umana sapienza che ha il suo vertice nei protofilosofi Platone e Aristotele collocati al centro della figurazione e in posizione sopraelevata. Da loro, rappresentanti rispettivamente della filosofia idealista e della filosofia sperimentale, discendono le tendenze filosofiche e i saperi testimoniati dall’assemblea dei grandi spiriti riuniti. C’è Socrate dal profilo silenico che argomenta con il suo allievo Alcibiade bello e vanitoso, c’è Epicuro che, coronato di pampini, sembra affidare la sua teoria sul piacere al libro che sta leggendo compiaciuto, c’è il cinico nichilista Diogene che si abbandona seminudo, solo e indifferente a tutto, sui gradini di una immaginaria accademia. In primo piano Pitagora tiene lezione di aritmetica e di teoria musicale a un ristretto gruppo di allievi fra i quali si distingue il musulmano Averroè in turbante. Euclide sta illustrando un teorema. Alla sua destra ci sono gli scienziati del cielo e della terra: Zoroastro con il planetario, Tolomeo con il globo terraqueo. A sovrastare la scena c’è la figura allegorica della filosofia. I putti ai lati del trono inalberano l’iscrizione causarum cognitio. Perché a questo mira l’umana conoscenza: comprendere e dominare le ragioni delle cose.

La parete con la Scuola di Atene ci dice che dovere primario dell’uomo è il sapere. Conoscere e capire noi stessi e il mondo che ci circonda, non è una opzione facoltativa. È un obbligo etico. In questo senso la scienza è laica. Non ha, non può avere connotazioni confessionali. Anche l’ateo Epicuro, anche il musulmano Averroè, anche il cinico Diogene, hanno diritto di cittadinanza nella repubblica della filosofia e delle scienze. Dobbiamo sforzarci di studiare, di capire tutti i sapienti, nessuno escluso, senza preclusioni. Questo fa dire Giulio ii nella Stanza della Segnatura e bisogna riconoscere che si tratta di un messaggio straordinario per libertà mentale, per lucidità e modernità di visione.

Di fronte alla Scuola di Atene, uguale per dignità e per dimensioni, c’è la cosiddetta Disputa del Sacramento dedicato al mistero del Verbo incarnato. La teologia, la figura allegorica femminile che sovrasta la scena, recita divinarum rerum notitia.

Della Disputa del Sacramento parleremo in seguito. È importante tuttavia sottolineare l’importanza della distinzione epigrafica. Gli umani saperi sono cognitio (come sta scritto sopra la Scuola di Atene) perché essi sono praticabili alle umane facoltà. I supremi veri della religione sono invece notitia. Dio li rivela, in certo senso ce li notifica. Sta all’uomo accettarli oppure rifiutarli, essendo la libertà (il libero arbitrio) suo supremo diritto e privilegio.

L’uomo è chiamato alla conoscenza, è libero di accettare la Rivelazione essendo aperta per lui la via della eterna salvezza, ma non sarebbe tollerabile la vita su questa terra se non ci fosse la consolazione della bellezza e la certezza della legge.

Ius suum uniquique tribuit recita l’epigrafe che accompagna la figura allegorica della giustizia nella parete che celebra la nascita dei grandi codici con Triboniano che consegna il Corpus iuris a Giustiniano, con Gregorio ix che accetta dal giureconsulto Raimondo di Peñafort le Decretali, il codice di diritto canonico. Le leggi danno a ciascuno quello che merita, afferma la giustizia che tiene la spada del castigo nella mano destra e la bilancia del giusto peso nella sinistra. Ma le leggi per essere buone devono essere ispirate dalle virtù. Dalle virtù cardinali che si chiamano così perché cardini, caratteri identitari della natura umana; dalle virtù teologali che vengono da Dio e fanno la pienezza della sapienza, della misericordia e dunque della vera e buona giustizia.

La parete affrescata con la raffigurazione del Parnaso è dedicata a Febo Apollo il dio della poesia e della bellezza. Intorno a lui ci sono le nove muse e i massimi poeti della storia; Omero, Dante, Virgilio. Altri poeti antichi e moderni (Saffo e Orazio, Petrarca e Boccaccio fra gli altri) si offrono alla nostra ammirazione mentre salgono al sacro monte del Parnaso. Da notare che la figura allegorica che sovrasta l’affresco e ne dà la chiave interpretativa, è coronata di alloro ed è alata. Si presenta a noi come un messaggero celeste, come un angelo del Signore. Il cartiglio in latino, numine afflatur, è esplicito. La bellezza diffusa dai versi e dalla musica è ispirata da Dio. Febo Apollo suona la lira perché lo tocca lo spirito dell’Altissimo. Questo vuol dire Raffaello nell’affresco. Questo è il pensiero del suo committente Giulio ii e degli intellettuali della corte pontificia.

La decorazione della Stanza della Segnatura ha inizio nel 1508 e si conclude nel 1511. In quei tre anni che segnano il momento zenitale nella storia della Chiesa di Roma e nella gloria del Rinascimento italiano, Raffaello dà immagine a una profonda coltissima antropologia culturale che tuttavia egli riesce a presentare a noi (questo è l’aspetto più seducente del suo genio) con straordinaria efficacia didattica e con immensa capacità di coinvolgimento. L’uomo ha il dovere di conoscere il mondo che Dio gli ha dato, ha bisogno della bellezza come del pane, leggi virtuose devono governare le sue azioni. Ma come si pone l’uomo ideale di Giulio ii e di Raffaello di fronte alla religione? Si pone in libertà perché la Rivelazione — lo abbiamo detto — è notitia, non cognitio. Non ci si arriva per speculazione filosofica ma per libera e tuttavia razionale adesione dell’anima.

Il cuore della dottrina cristiana è l’Incarnazione; il Verbo che si fa carne e diventa corpo eucaristico. Nella parete che fronteggia la Scuola di Atene perfettamente uguale per dimensioni, centralità e dignità, Raffaello dipinse l’Incarnazione del Verbo e quindi l’istituzione eucaristica. Non esiste nella storia universale delle arti un altro caso nel quale un concetto così vertiginosamente arduo sia stato espresso in modo altrettanto profondo e comprensibile.

Il fuoco prospettico e concettuale della composizione è l’ostensorio con la particola consacrata collocato al centro dell’altare. Nella parte alta dell’affresco le tre persone della Trinità stanno in asse con l’ostia eucaristica e visibilmente la incarnano. In alto c’è l’Eterno Padre benedicente, al centro Cristo fra la Vergine e san Giovanni il Precursore. Tutto intorno disposti a emiciclo si collocano i santi, i patriarchi, i profeti della Chiesa trionfante. In basso e al centro della schiera celeste c’è la colomba dello Spirito Santo che irradia l’ostensorio. I sacri protagonisti della teofania riposano su soffici nubi fatte di angioletti. Intessuto di angeli vibranti nell’oro è la paradisiaca cortina che sta dietro l’Onnipotente.

Nella parte inferiore dell’affresco è rappresentata una vasta assemblea di Dottori della Chiesa: Ambrogio e Agostino, Girolamo e Gregorio in posizione eminente seduti sui troni, tutti gli altri in piedi o variamente disposti. Si riconoscono, fra gli altri, san Bonaventura da Bagnoregio, san Tommaso d’Aquino, ma anche il Beato Angelico, Dante, Girolamo Savonarola condannato al rogo a Firenze non molti anni prima e che ora il francescano Giulio ii vuole collocato fra i santi, in odio al suo predecessore, Alessandro vi Borgia, che ne aveva voluto la morte.

Disputa del Sacramento si chiama da sempre l’affresco. La responsabilità del titolo, del tutto inappropriato, è di Giorgio Vasari il quale aveva scritto, nelle sue Vite, di personaggi disputanti. In realtà i santi e i dottori non disputano ma piuttosto venerano, stupiscono, si emozionano di fronte al vertiginoso mistero, cercano risposta nei loro libri a quell’inconcepibile prodigio.

La mente umana si smarrisce, prova sgomento e inadeguatezza infinita di fronte alla Verità rivelata. Ci aiuta, per nostra fortuna, la misericordiosa presenza di Dio che manda il suo angelo a sostenerci e a consolarci. A questo allude il bellissimo angelo biondo che, al limite del presbiterio dove sono raccolti i teologi, ci invita, con amabile grazia, alla adorazione eucaristica.

© L'Osservatore Romano 3 settembre 2011