sabato 24 settembre 2011

A chi vuole fare il teologo "Quanto gioverebbe un po’ di storia" (Inos Biffi)



A chi vuole fare il teologo

Quanto gioverebbe un po’ di storia

Le verità cristiane non sono paragonabili a formule geometriche. Occorre seguire e capire secondo le successive epoche la coscienza di fede della Chiesa. Oggi non è infrequente trovare docenti preparatissimi su un singolo trattato teologico ma che ignorano tutto il resto A farne le spese sono gli alunni.
di Inos Biffi

Chi vuole dedicarsi alla teologia, non può trascurarne la storia. La teologia, infatti, si è istituita nella storia. L’intelletto e la manifestazione della fede appaiono intrecciate e solidali col linguaggio, la sensibilità, la cultura del tempo, con una varietà di atteggiamento, di accoglienza oppure di critica, secondo i casi. Fare teologia, infatti, non significa semplicemente estrarre dalla Rivelazione una trama di verità, da comporre e da connettere secondo un ordine logico, trascurando la loro genesi e la modalità del loro concreto percorso.

Le verità cristiane non sono paragonabili a formule geometriche o matematiche, che in se stesse non hanno storia, o a essenze indifferenti alle vicissitudini del tempo. In particolare, la storia della teologia permette di seguire e di capire, secondo le successive epoche, la coscienza di fede della Chiesa, la ragione e gli strumenti delle sue espressioni, quindi la forma e il livello della sua comprensione del mistero, con le sue accentuazioni ed eventualmente i limiti delle sue prospettive e delle sue percezioni, osservando, al riguardo, che l’intelligenza del Credo non si manifesta solo nella modalità testuale, ma anche in quella pratica e simbolica, in quella della scuola e in quella dell’orazione, in quella dottrinale e in quella dell’esperienza e dell’arte. L’averlo dimenticato ebbe gravi conseguenze. Anzitutto si è, in tal modo, canonizzata la configurazione teologica propria di un’ep o ca, ritenendola in ogni suo aspetto un modello intangibile e irreformabile, che si trattava solo di proseguire e di ripetere. Proprio la storia della teologia, o la storia della fede, avrebbe potuto preservare da questa visione assolutizzante e statica, e aprire alla valutazione e al confronto con altre epoche e con altre espressioni della fede, anche perché le cesure cronologiche non rispecchiano e spesso tradiscono la realtà .

La stessa storia avrebbe permesso non solo di riconoscere una pluralità teologica nel solco della medesima ortodossia, ma di valorizzare le diffuse e sparse risorse di quelle che potremmo chiamare scuole teologiche.

Per sua stessa natura il contenuto del mistero cristiano non è comprensibile ed esauribile in un’unica tipologia. Conoscere la storia della teologia, con la particolareggiata analisi delle fonti, farebbe inoltre constatare come non raramente la persuasione della propria originalità o della novità di un orientamento è spesso soltanto un dono fatto alla smemoratezza o all’ignoranza, nel senso di non conoscenza.

Così, chi si soffermi nel mondo dei Padri della Chiesa o frequenti i primi scrittori cristiani, troverebbe un senso dell’economia di salvezza, una cristologia e una dottrina eucaristica di incomparabile e inesauribile valore e di intramontabile attualità, che semmai i secoli successivi hanno, per qualche aspetto, sminuito o attenuato.

Una più ampia e attenta conoscenza storica della teologia avrebbe potuto forse evitare alcune infiammate polemiche e alcuni penosi fraintendimenti e contrasti sorti e divampati all’interno della Chiesa. Potremmo anche aggiungere — a sottolineare l’importanza della storia della teologia — che essa rappresenterebbe un’eccellente iniziazione agli studi teologici, obbligandone i «novizi», come li chiamerebbe san Tommaso, alla ricerca paziente e all’ascolto prolungato della tradizione teologica, e quindi a munirsi degli strumenti necessari per intraprenderla. Si eviterebbe così la «presunzione», definita dall’Angelico «madre degli errori» (Summa contra Gentiles, I, 5), di ritenere che finalmente con se stessi incomincia la teologia e si eviterebbero giudizi avventati e infondati, come, ad esempio, quelli su san Tommaso imparato per sentito dire. Solo che, anche in questo caso, si richiede la «docibilità», senza la quale non resta che pregare.

E tuttavia fare teologia non significa limitarsi a esplorarne la storia e a registrarne ed esporne cronologicamente le diverse forme di intelligenza della fede, senza che venga colto ed evidenziato il non mutevole contenuto teoretico della stessa fede e ultimamente della Rivelazione, che è la fonte della teologia, Vale per le verità teologiche quanto Maritain afferma della verità in generale, e cioè che essa «non riconosce come suo criterio il criterio cronologico». Non è il tempo che genera la verità.

Ciò vale specialmente nel caso della Parola di Dio o della «realtà» del mistero rivelato, che è l’oggetto della manifestazione divina e quindi dell’adesione della fede. La teologia «sistematica» mira a mettere in luce la verità dello stesso mistero, nel suo nucleo e nelle sue articolazioni: ancora Tommaso parlerebbe di ordo disciplinae, che è la ragione della sua composizione della Summa Theologiae.

Ora, questa verità della divina scientia non è generata dalla storia: questa è chiamata a esprimerla, a penetrarla e a trasmetterla, ma non a ricrearla e a modificarla. Diversamente avremmo un evoluzionismo veritativo che equivarrebbe al dissolvimento della stessa Rivelazione. Senza una teologia teoretica, alla fine la storia della teologia equivarrebbe all’esposizione di opinioni, non alla conoscenza del dogma salvifico, e facilmente si esporrebbe a sostituire alla trascendente Parola di Dio la semplice e volubile parola dell’uomo.

A questo punto l’intento della storia della teologia può essere meglio precisato: è quello esattamente di rilevare nei diversi momenti della vita e della coscienza della Chiesa la presenza e l’emergenza della verità rivelata, che diviene il criterio per giudicare del valore stesso della teologia di una determinata epoca storica, in ogni modo inaccettabile, quando essa appaia incoerente o infedele o in rottura rispetto al Credo ecclesiale della Tradizione. Una professione di fede e quindi una teologia che, poniamo, misconosca la struttura gerarchica della Chiesa, o contesti i sacramenti, o metta in discussione il carattere sacrificale dell’Eucaristia, rappresenterebbe non un caso di legittima pluralità teologica, ma una deludente novità che infrange la comunione con il Credo della Chiesa di sempre. Di conseguenza, un caso in cui la storia ha arbitrariamente ricreato la verità di fede.

Ecco, quindi, un altro profilo da cui risalta l’imprescindibile necessità della storia della teologia. Com’è noto, attualmente viene per lo più praticata, nell’insegnamento della teologia, la distinzione tra la parte storica e la parte sistematica, la prima intesa a studiare il tema teologico nella storia, a partire dalle fonti bibliche; la seconda a raccogliere in una sintesi ordinata i dati rivenuti. È un procedimento senza dubbio più valido di quello seguito dalla teologia manualistica, segnata da indubbi limiti nella stessa concezione della teologia, dove il riferimento biblico era posto a prova della tesi enunciata. Anche se non condivideremmo il senso, a dir poco, di sufficienza ormai diffuso nei confronti della manualistica e in particolare dell’antica teologia delle facoltà romane.

D’altronde, i moduli d’oltr’alp e, a loro volta, non erano affatto immuni da limiti e da pregiudizi, e le fiere intenzioni dei teologi discesi in occasione del Vaticano II non erano in tutto ineccepibili, così come, alla fine, i loro stessi prodotti sbalordivano molto fin che non trovavano una versione nella lingua nostrana. In seguito impressionavano assai meno. Non dovrebbero dimenticarlo neppure i teologi che si compiacciono di elencare nel loro pedigree le università estere frequentate. Anche le più rinomate scuderie accolgono, ma non trasformano chi vi entra.

Vorremmo persino non omettere un elogio della manualistica, con i suoi diversi trattati, non raramente svolti in maniera eccellente da acuti e illustri maestri; e cioè l’elogio per la sua funzione pedagogica di introdurre gli alunni a una visione d’insieme della materia teologica e di stimolare a essa lo stesso docente, almeno agli inizi del suo insegnamento, prima delle sue specializzazioni. Oggi, infatti, non è infrequente trovare docenti versatissimi su un trattato teologico, ma che ignorano, o quasi, tutti gli altri, con l’inevitabile riflesso di dannose lacune negli alunni, quando, come si sa, i collegamenti tematici sono fondamentali soprattutto nel campo teologico, unificato e insieme irraggiante dal cristocentrismo trinitario e antropologico.

La stessa docenza di materie che non si denominano sistematiche — e a ognuna delle quali va senz’a l t ro riconosciuta una specifica dignità metodologica e scientifica — avrebbe tutto da guadagnare dall’ampiezza e dal rigore di una fondamentale conoscenza dogmatica e dall’attiva consapevolezza che l’inizio e l’esito della scienza teologica è il disegno divino. È, infatti, questo l’oggetto della Rivelazione e alla sua illustrazione mirano, alla fine, le competenze nelle diverse branche della teologia.

Per fare alcuni nomi di biblisti, felicemente provveduti dal profilo teologico, ricorderei lo stesso celebre fondatore dell’École Biblique, Joseph Lagrange, e più di recente il geniale Enrico Galbiati, in Italia, o a Rudolf Schnackenburg e Heinrich Schlier, per esempio con la loro mirabile teologia della Chiesa.

Del resto, proprio una sensibilità «dogmatica» abilita a rinvenire gli aspetti del medesimo disegno e ad ampliarne l’intelligenza, contro il pericolo di una elaborazione astratta non fondata sulle fonti.

Riconosciuto il senso della distinzione tra momento storico della teologia e momento teoretico o sistematico (distinzione assente in epoca medievale, dove l’insegnamento della teologia era fondato soprattutto sulla «lezione» biblica), non si deve dimenticare quanto soprattutto importi, di là dall’esigenza didattica, tenerli strettamente uniti. E infatti, da un lato, il mistero nella sua realtà «teorica », se così si può dire, è ritrovato, o meglio ci è donato, e quasi plasmato e sagomato, nel modulo della storia, fatta «di eventi e di parole » (gestis verbisque, costituzione Dei Verbum, 2). E, dall’altro lato, la stessa storia appare luogo intrinsecamente irradiato dal mistero e dalla sua dottrina.

A questo punto teoria e storia quasi si risolvono l’una nell’altra, mentre il dogmatico e lo storico del dogma, non che opporsi, si accordano nella compiaciuta e ammirata contemplazione della luce della Rivelazione, che in ogni epoca dell’ortodossia cristiana si diffonde nella sua unità luminosa e multiforme.

© L'Osservatore Romano 24 settembre 2011