sabato 11 febbraio 2012

Giobbe ovvero l’esperienza del dolore innocente "Interrogativo lancinante" (Enrico dal Covolo)



Giobbe ovvero l’esperienza del dolore innocente

Interrogativo lancinante

di Enrico dal Covolo

Il grido di Giobbe — ovvero lo scandalo della malattia, del dolore, della morte — percorre la storia dell’umanità dall’inizio alla fine, e incrocia “tragicamente” Dio, l’uomo e il mondo nella questione più importante di tutte: la questione globale sul senso dell’esistenza umana. Quest’oggi — nel giorno in cui celebriamo la Giornata del malato, nella memoria della Beata Vergine di Lourdes — vogliamo fare nostro il doloroso interrogativo di Giobbe, e poi cercarne la risposta nel Vangelo di Gesù.

Giobbe sa di essere innocente, sa di non aver “meritato” la malattia e il dolore. Il suo grido parte proprio da questa lucida consapevolezza. Ed ecco il problema, l’interrogativo lancinante: come accettare la presenza di un dolore ingiusto, e tuttavia continuare a credere nell’amore di Dio?

La domanda fondamentale — il vero e proprio “grido di Giobbe” — sta in queste parole: «Perisca il giorno in cui nacqui (...) Perché dare la luce a un infelice?» (Giobbe, 3, 1-20).

È la domanda di un credente, che si imbatte nell’esperienza scandalosa del dolore innocente, un’esperienza che sembra smentire la fede.

Ma — a dispetto di questa esperienza — Giobbe resta aggrappato alla certezza di fede che Dio interverrà; che egli, alla fine, si comporterà da difensore dei giusti. Il miracolo sta precisamente nel fatto che Giobbe non fa un passo per fuggire verso un Dio migliore, ma rimane lì, sotto tiro. In definitiva, Giobbe si rifugia in quel Dio che lui stesso accusa, e allora il suo grido di dolore approda a un grido di fede: «Io so che il mio redentore è vivo e che, da ultimo, si ergerà sulla polvere!» (Giobbe, 19,25).

Giobbe parla con Dio, e tenta in tutti i modi di capire. Forse Dio lo ha dimenticato o si è stancato di lui? Forse Dio è cambiato?

Le domande e i sentimenti si susseguono con un ritmo incalzante. Ora Giobbe sembra lasciarsi andare, rassegnato e stanco; ora tenta di far ragionare Dio; ora ironizza con infinita amarezza; ora assume atteggiamenti di sfida. Ma al fondo di tutto rimane un filo ostinato, costante: la fiducia in Dio. È la fede di Giobbe: una fede che accetta la sfida dei fatti, pur senza riuscire a spiegarli.

Manca a Giobbe — e non poteva non essere così — la fede in Gesù Cristo, che doveva ancora venire: cioè la fede in un Dio che si fa lui stesso dolore innocente, ingiusto, e che proprio per questa strada svela all’uomo il senso vero dell’esistenza.

«L’umana sofferenza», spiega a questo proposito il beato Papa Giovanni Paolo II, «ha raggiunto il suo culmine nella passione di Cristo. E contemporaneamente essa è entrata in una dimensione completamente nuova e in un nuovo ordine: è stata legata all’amore (...) A quell’amore che crea il bene anche ricavandolo dal male, ricavandolo per mezzo della sofferenza, così come il bene supremo della redenzione del mondo è stato tratto dalla Croce di Cristo, e costantemente prende da essa il suo avvio. La Croce di Cristo è diventata una sorgente, dalla quale sgorgano fiumi d’acqua viva. In essa dobbiamo anche riproporre l’interrogativo sul senso della sofferenza, e leggervi sino alla fine la risposta a questo interrogativo» (Lettera apostolica Salvifici doloris, 18).


«In quest’anno», scrive il Papa, «vorrei porre l’accento sui “Sacramenti di guarigione”». E subito egli orienta l’attenzione dei fedeli sulle parole che Gesù rivolse a uno dei dieci lebbrosi, da lui guariti: «Alzati e va’; la tua fede ti ha salvato!» (Luca, 17,19).

Sta qui, in fondo, la risposta di Gesù di fronte al dolore dell’uomo.

Come si vede, non è una risposta razionalmente appagante, che risolva il grido di Giobbe con un “due più due fa quattro”. È invece un appello robusto, affinché l’uomo — nonostante tutto — si fidi di lui, di Gesù Cristo, e dell’incontro con lui nei Sacramenti della Chiesa.

Nel Figlio, morto e risorto per noi, Dio «non ci abbandona alle nostre angosce e sofferenze, ma ci è vicino, ci aiuta a portarle, e desidera guarire nel profondo il nostro cuore».

«La fede di quell’unico lebbroso», prosegue il Papa, che «ritorna subito da Gesù per manifestare la propria riconoscenza, lascia intravedere che la salute riacquistata è segno di qualcosa di più prezioso della semplice guarigione fisica, è segno della salvezza che Dio ci dona attraverso Cristo; essa trova espressione nelle parole di Gesù: la tua fede ti ha salvato. Chi, nella propria sofferenza e malattia, invoca il Signore, è certo che il suo amore non lo abbandona mai, e che anche l’amore della Chiesa, prolungamento nel tempo della sua opera salvifica, non viene mai meno».

«A Maria», così il Papa conclude il suo Messaggio, e così concludiamo anche noi, «a Maria, Madre di Misericordia e Salute degli Infermi, eleviamo il nostro sguardo fiducioso e la nostra orazione; la sua materna compassione, vissuta accanto al Figlio morente sulla Croce, accompagni e sostenga la speranza di ogni persona ammalata e sofferente nel cammino di guarigione delle ferite del corpo e dello spirito».

© L'Osservatore Romano 11 febbraio 2012