5 FEBBRAIO 2012
Malattia e guarigione
La malattia e la sofferenza che accompagnano la nostra vita generano uno stato di paurosa insicurezza. Esse incarnano la debolezza e la fragilità umana, sottoposte all’eventualità dell’inatteso e dell’imprevedibile. Questa condizione umana contrasta con il desiderio di assoluto, di stabilità e di sicurezza che pervade ogni uomo, e rende la sua esistenza poco desiderabile (prima lettura lettura).
Anche l’uomo presentato dalla Bibbia va alla ricerca delle cause di questa situazione. In un mondo dove la realtà viene rapportata continuamente a Dio, la malattia e le disgrazie non fanno eccezione: sono viste come una percossa di Dio che colpisce l’uomo. Con un movimento spontaneo il senso religioso dell’uomo stabilisce un legame tra malattia e peccato, a livello sia collettivo che personale.
Soffrire non è scontare una pena
A mano a mano che la fede di Israele diventa più profonda, affiorano interpretazioni più complesse. La malattia non è necessariamente legata ad un peccato personale, può essere anche una prova provvidenziale mandata da Dio per rinsaldare la fedeltà dei suoi amici. E’ il caso di Giobbe. Più profondamente ancora: la malattia apparirà come mezzo di purificazione delle colpe, e sovente come mezzo di affermazione dello spirito sulla materia.
La riflessione messianica farà eco a questa concezione: il Messia che inaugurerà gli ultimi tempi, prenderà il volto del Servo sofferente che si addossa le nostre malattie e le guarisce con le sue ferite.
Quando giungeranno gli ultimi tempi, e lo Spirito della vita avrà rinnovato la terra, la malattia scomparirà definitivamente. I profeti, quando descrivono l’avvento del Regno, parlano di guarigione delle malattie incurabili: gli zoppi cammineranno, i ciechi avranno la vista, ecc.
La guarigione è un segno
Per questo la liberazione degli indemoniati e la guarigione delle malattie operate da Cristo sono segno che gli ultimi tempi sono venuti e che il Regno di Dio è in mezzo a noi (vangelo).
La guarigione non è l’atto di un taumaturgo, ma il gesto del salvatore degli uomini; è in certo modo l’anticipazione della vittoria decisiva del «passaggio pasquale», alla quale il credente già partecipa, la vittoria dell’uomo nuovo che, sotto l’azione dello Spirito Santo, fa ritornare tutte le cose nella loro verità, secondo il disegno del Padre.
L’esperienza di una malattia o di una situazione di pericolo fa parte del bagaglio di ogni uomo. In una società secolarizzata il dilemma tra rivolgersi al medico o ricorrere alla preghiera o accendere una candela, non si pone. Ciò non vuol dire che sia scomparso il senso religioso, e che tutto questo sia segno di ateismo. Forse è cambiato semplicemente il modo di incontrarsi con Dio.
Nel quadro della fede Cristo è liberatore-vincitore della morte attraverso la sua risurrezione. La sua vittoria è radicale ma allo stato potenziale. Compito dell’uomo «nuovo» è rendere consistente questa vittoria di Cristo.
Vincere la malattia attraverso la ricerca scientifica può diventare un modo di «vivere la risurrezione di Cristo». Debellare una malattia, eliminare una piaga sociale è simbolo-sacramento della liberazione a cui il Padre conduce l’umanità.
La Chiesa accanto ai malati
Le guarigioni dei malati operate da Gesù sono segni eccezionali del Regno che viene. Quotidianamente la Chiesa esprime questa sua fede nel Regno con l’assistenza ai malati.
La cura dei malati è per la Chiesa momento privilegiato di evangelizzazione. Alla luce della passione e morte di Cristo essa annunzia il significato e il valore autentico della sofferenza umana, assunta a strumento efficace di salvezza per il malato e per tutti gli uomini.
Ma la sua carità non si ferma qui. La Chiesa aiuta e conforta i malati con un segno particolare dell’amore misericordioso di Dio, con un dono speciale della sua grazia: il sacramento dell’Unzione degli infermi. Istituito da Cristo, è stato enunciato da san Giacomo con queste parole: «Chi è malato, chiami a sé i presbiteri della Chiesa e preghino su di lui, dopo averlo unto con olio, nel nome del Signore. E la preghiera fatta con fede salverà il malato: il Signore lo rialzerà e se ha commesso peccati, gli saranno perdonati» (Gc 5,14-15). (CC Salesiano)
Comprendere la grazia di Dio
Dal «Commento alla Lettera ai Galati» di sant'Agostino, vescovo
(Introduzione; PL 35, 2105-2107)
L'Apostolo scrive ai Galati perché capiscano che la grazia li ha sottratti dal dominio della Legge. Quando fu predicato loro il Vangelo, non mancarono alcuni venuti dalla circoncisione i quali, benché cristiani, non capivano ancora il dono del Vangelo, e quindi volevano attenersi alle prescrizioni della Legge che il Signore aveva imposto a chi non serviva alla giustizia, ma al peccato. In altre parole, Dio aveva dato una legge giusta a uomini ingiusti. Essa metteva in evidenza i loro peccati, ma non li cancellava. Noi sappiamo infatti che solo la grazia della fede, operando attraverso la carità, toglie i peccati. Invece i convertiti dal giudaismo pretendevano di porre sotto il peso della Legge i Galati, che si trovavano già nel regime della grazia, e affermavano che ai Galati il Vangelo non sarebbe valso a nulla se non si facevano circoncidere e non si sottoponevano a tutte le prescrizioni formalistiche del rito giudaico.
Per questa convinzione avevano incominciato a nutrire dei sospetti nei confronti dell'apostolo Paolo, che aveva predicato il Vangelo ai Galati e lo incolpavano di non attenersi alla linea di condotta degli altri apostoli che, secondo loro, inducevano i pagani a vivere da giudei. Anche l'apostolo Pietro aveva ceduto alle pressioni di tali persone ed era stato indotto a comportarsi in maniera da far credere che il Vangelo non avrebbe giovato nulla ai pagani se non si fossero sottomessi alle imposizioni della Legge. Ma da questa doppia linea di condotta lo distolse lo stesso apostolo Paolo, come narra in questa lettera. Dello stesso problema si tratta anche nella lettera ai Romani. Tuttavia sembra che ci sia qualche differenza, per il fatto che in questa san Paolo dirime la contesa e compone la lite che era scoppiata tra coloro che provenivano dai Giudei e quelli che provenivano dal paganesimo. Nella lettera ai Galati, invece, si rivolge a coloro che erano già stati turbati dal prestigio dei giudaizzanti che li costringevano all'osservanza della Legge. Essi avevano incominciato a credere a costoro, come se l'apostolo Paolo avesse predicato menzogne, invitandoli a non circoncidersi. Perciò così incomincia: «Mi meraviglio che così in fretta da colui che vi ha chiamati con la grazia di Cristo passiate ad un altro Vangelo» (Gal 1, 6).
Con questo esordio ha voluto fare un riferimento discreto alla controversia. Così nello stesso saluto, proclamandosi apostolo, «non da parte di uomini, né per mezzo di uomo» (Gal 1, 1), - notare che una tale dichiarazione non si trova in nessun'altra lettera - mostra abbastanza chiaramente che quei banditori di idee false non venivano da Dio ma dagli uomini. Non bisognava trattare lui come inferiore agli altri apostoli per quanto riguardava la testimonianza evangelica. Egli sapeva di essere apostolo non da parte di uomini, né per mezzo di uomo, ma per mezzo di Gesù Cristo e di Dio Padre (cfr. Gal 1, 1).