mercoledì 18 maggio 2011

La dottrina sociale della Chiesa dalla «Mater et magistra» di Giovanni XXIII alla «Caritas in veritate» di Benedetto XVI (Oscar Andrés Rodriguez Maradiaga)


Dopo l’udienza di lunedì 16 maggio con Papa Benedetto XVI, prosegue a Roma, presso il Centro congressi della Conferenza episcopale italiana, il congresso internazionale per il cinquantesimo anniversario della Mater et magistra.

La dottrina sociale della Chiesa dalla «Mater et magistra» di Giovanni XXIII
alla «Caritas in veritate» di Benedetto XVI

In una sola voce tutti i suoni del mondo


di Oscar Andrés Rodriguez Maradiaga
Cardinale arcivescovo di Tegucigalpa

Con le encicliche Mater et magistra (1961) e Pacem in terris (1963) di Giovanni XXIII, per la prima volta si focalizza la questione sociale nella sua dimensione mondiale.

La Mater et magistra commemora il settantesimo anniversario della Rerum novarum, ampliandola e aggiornandola con contributi di Pio XI e Pio XII. Rinnova temi antichi e ne affronta uno nuovo: il processo di socializzazione. Analizza gli squilibri settoriali dell’economia e invita alla collaborazione mondiale. Infine esorta a vivere la dottrina sociale, parte integrale della concezione cristiana della vita. La Pacem in terris, per altri aspetti, fu offerta a tutti gli uomini di buona volontà, e non solo ai cattolici. Rappresento un grande documento sulla politica della sua epoca, volto ad aiutare a costruire un ordine mondiale basato sulla pace e sul rispetto dei diritti umani. Fra le principali questioni che tratta, e che continuano a essere di grande attualità, ci sono i diritti e i doveri della persona, la natura e la funzione dell’autorità nelle comunità politiche, le forme di governo, il bene comune e il comportamento civile, il bisogno di un’autorità politica mondiale stabilita di comune accordo e la necessaria attuazione del messaggio cristiano in tutti i campi della vita pubblica. L’accettazione su scala mondiale di questa enciclica fu eccellente.

Non esiste una dottrina sociale della Chiesa diversa per le differenti parti del mondo. Che uno viva in America Latina, Africa o Europa, i principi che applichiamo alle nostre realtà concrete sono gli stessi. La dottrina sociale, pero, non e nata come completamente formulata dalla Santa Sede: e un processo al quale partecipa tutta la comunità ecclesiale secondo la diversità di compiti, carismi e ministeri. La realtà alla quale si applicano i principi della dottrina sociale e locale, e la situazione sociale, culturale, economica e politica in cui ogni comunità ecclesiale vive. È li, nella pratica della vita, che si analizzano gli eventi, giudicandoli alla luce della Parola della dottrina sociale onde giungere a decisioni concrete .


Questo metodo di applicazione e stato indicato dai Papi. Ad esempio, ne troviamo traccia nelle encicliche scritte nei diversi anniversari di quella che viene considerata la prima enciclica sociale. Nella Mater et magistra Giovanni XXIII parlava di «tre momenti: rilevazione delle situazioni; valutazione di esse nella luce di quei principi e di quelle direttive; ricerca e determinazione di quello che si può e si deve fare per tradurre quei principi e quelle direttive nelle situazioni, secondo modi e gradi che le stesse situazioni consentono o reclamano. Sono i tre momenti che si sogliono esprimere nei tre termini: vedere, giudicare, agire» (n. 217). Nella sua lettera apostolica Octogesima adveniens (1971), Paolo VI scrisse che «di fronte a situazioni tanto diverse, ci è difficile pronunciare una parola unica e proporre una soluzione di valore universale. Del resto non è questa la nostra ambizione e neppure la nostra missione. Spetta alle comunità cristiane analizzare obiettivamente la situazione del loro paese, chiarirla alla luce delle parole immutabili dell’evangelo, attingere principi di riflessione, criteri di giudizio e direttive di azione nell’insegnamento sociale della Chiesa, quale è stato elaborato nel corso della storia» (n. 4). Nel 1991, centesimo anniversario della Rerum novarum, Giovanni Paolo II scrisse nella Centesimus annus: «Nel centesimo anniversario di quest’Enciclica, desidero ringraziare tutti coloro che si sono impegnati a studiare, approfondire e divulgare la dottrina sociale cristiana. A questo fine e indispensabile la collaborazione delle Chiese locali» (n. 56). Nelle Chiese particolari applichiamo i principi della dottrina sociale, ma allo stesso tempo e la nostra esperienza concreta, che discerniamo nella preghiera personale e comunitaria, a costituire la materia principale che permette quell’approfondimento di cui parlava Wojtyła.

È la nostra esperienza locale, insieme alle esperienze di altre comunità locali nel mondo, a fornire il contenuto per le riflessioni e le dichiarazioni dei Pontefici. Il Papa scrive un’enciclica non solo perché gli sembra importante parlare su un tema sociale di grande attualità. Egli riceve gli apporti dei vescovi che a loro volta si sono avvalsi dei contributi dei fedeli cristiani laici.

Di fatto questo metodo si è strutturato in modo più esplicito a partire dal concilio Vaticano II. È una delle finalità dei sinodi dei vescovi che si svolgono a Roma ogni tre anni: rappresentanti dei vescovi di ogni paese si riuniscono per dibattere temi dottrinali e morali. Il Papa ne utilizza poi le conclusioni come base per le esortazioni apostoliche.

È un processo continuo e dinamico. Chiaramente la dottrina fondamentale non cambia, la Scrittura continua a essere la base della nostra fede. Ma la realtà che viviamo non è statica, per cui nell’applicare i principi nascono nuove riflessioni e nuovi approfondimenti.

Il cammino non è stato facile. A Leone XIII non venne in mente da solo di scrivere un’enciclica sui diritti dei lavoratori, ma, interpellato dalle conseguenze negative della rivoluzione industriale, accolse contributi ed esperienze della Chiesa universale, come quelli che provenivano dalla diocesi di Mainz in Germania o di Friburgo in Svizzera. Non fu neppure la sua enciclica a dire l’ultima parola su questi temi: a costituire la ricchezza della dottrina sociale e stato proprio il suo dinamismo, l’aggiornamento che hanno realizzato i pontefici da Pio XI a Benedetto XVI, quando hanno ricevuto l’esperienza dei cristiani del loro tempo.

I diritti umani sono un esempio concreto di questo processo comune. Giovanni XXIII se ne occupò fin dai suoi primi giorni come Nunzio apostolico in Francia, e la proclamazione della Pacem in terris è stata la carta bianca che ha giustificato la missione per i diritti umani di molte Chiese particolari in America Latina negli ultimi quattro decenni. Quando si celebrarono i cinquant’anni della Dichiarazione universale dei diritti umani, il Pontificio Consiglio Iustitia et Pax organizzò a Roma il primo Congresso di pastorale dei diritti umani. Il contenuto del discorso di Giovanni Paolo II fu accolto con fervore in tutto il mondo, ma indubbiamente il suo studio e la sua diffusione erano limitati a piccoli gruppi. I fedeli cattolici laici avevano solo un’idea vaga dei suoi grandi principi. Al tempo della guerra fredda il sacerdote o il vescovo che osava parlare della destinazione universale dei beni o che sosteneva le legittime lotte sindacali veniva facilmente accusato di essere marxista. Un passo importante e stata l’esperienza delle Settimane Sociali iniziate in Europa al termine della seconda guerra mondiale, onde aprire un dialogo sulla realtà sociale con il mondo professionale, accademico e politico.


Ai giorni nostri Benedetto XVI ha continuato a sviluppare la dottrina sociale della Chiesa con la Caritas in veritate. Nella grande varietà di temi, questa enciclica sociale evoca la difesa della dignità e della centralità della vita umana quale motore di qualsiasi tipo di politica economica; propone innovativamente d’introdurre e incoraggiare il principio di gratuità nell’attività economica ordinaria; richiede una maggiore partecipazione degli Stati e della comunità internazionale per coordinare e pianificare le politiche economiche. Il Papa affronta anche la questione teologica del rapporto fra carità e verità: senza quest’ultima, la carità scivola nel mero sentimentalismo. Quanto all’ambiente, Benedetto XVI ammonisce contro ogni ecologismo di taglio neopagano di tendenza panteistica e contro le politiche che ignorano il fatto che la natura va preservata per le generazioni future. Il Papa sostiene anche il ruolo della religione nella sfera pubblica. Condanna il fondamentalismo religioso che funge da terreno fertile per il terrorismo, e al contempo critica la promozione programmata dell’indifferenza religiosa o dell’ateismo pratico da parte di molti paesi. Affronta, infine, la questione del progresso della tecnica e della scienza, soprattutto nell’ambito della bioetica, e le sue implicazioni sullo sviluppo integrale dell’uomo.

Nell’introduzione dell’enciclica, il Papa insiste sulla necessità di unire carità e verità. «La carità è la via maestra della dottrina sociale della Chiesa», spiega, per poi aggiungere di essere «consapevole degli sviamenti e degli svuotamenti di senso a cui la carita e andata e va incontro, con il conseguente rischio di fraintenderla, di estrometterla dal vissuto etico e, in ogni caso, di impedirne la corretta valorizzazione» (n. 2). «Senza verità, la carità scivola nel sentimentalismo. L’amore diventa un guscio vuoto, da riempire arbitrariamente in una cultura senza verità» (n. 3).

L’azione a favore della giustizia e della partecipazione alla trasformazione del mondo ci si presenta chiaramente come una dimensione costitutiva della predicazione del Vangelo, ossia della missione della Chiesa per la redenzione del genere umano e la liberazione da ogni situazione oppressiva .

È importante che le comunità cristiane utilizzino gli strumenti delle scienze sociali e umane per conoscere la realtà e le cause strutturali dei suoi problemi. Ma non è questa analisi a contraddistinguere il contributo della comunità, bensì il sottoporla al processo di discernimento.

A contraddistinguere il nostro modo di conoscere, di valutare e di agire di fronte alla realtà e il fatto che preghiamo e meditiamo su di essa. Il frutto delle nostre riflessioni e anche un prodotto spirituale. Ciò significa che se vogliamo essere parte del processo di partecipazione alla dottrina sociale, abbiamo bisogno di una spiritualità che ci guidi. Dobbiamo pregare; dobbiamo dedicare tempo alla meditazione e alla contemplazione. Non basta dire che siamo cristiani. La realtà della fede e qualcosa che si deve rinnovare costantemente. «Lo sviluppo ha bisogno di cristiani con le braccia alzate verso Dio nel gesto della preghiera, cristiani mossi dalla consapevolezza che l’amore pieno di verità, caritas in veritate, da cui procede l’autentico sviluppo, non e da noi prodotto ma ci viene donato. Perciò anche nei momenti piu difficili e complessi, oltre a reagire con consapevolezza, dobbiamo soprattutto riferirci al suo amore» (Caritas in veritate, n. 79).