Benedetto XVI a Madrid annuncia che san Giovanni d’Ávila sarà dichiarato dottore della Chiesa
Quella parola
potente e rinnovatrice
Nell’omelia per la canonizzazione, il 31 maggio 1970, Paolo VI lo indicò
come modello polivalente del sacerdote nella società contemporanea
Sabato 20 agosto nella cattedrale di Santa María La Real de la Almudena a Madrid, Papa Benedetto XVI, celebrando messa per i seminaristi, prima della benedizione finale, ha significativamente dato annuncio della prossima dichiarazione a dottore della Chiesa universale di un santo sacerdote: Giovanni d’Ávila, canonizzato da Paolo VI il 31 maggio 1970. Pubblichiamo l’omelia pronunciata quel giorno da Papa Montini.
Venerati Fratelli e Figli carissimi!
Ringraziamo Iddio che, mediante questa esaltazione del Beato Giovanni d’Avila allo splendore della santità, offre alla Chiesa universale l’invito allo studio, all’imitazione, al culto, all’invocazione d’una grande figura di Sacerdote.
Lode sia all’Episcopato Spagnolo, che, non pago della proclamazione, fatta dal Nostro Predecessore di venerata memoria Pio XII, del titolo, attribuito all’apostolo dell’Andalusia, cioè al medesimo Beato Giovanni d’Avila, di Protettore speciale del Clero diocesano di Spagna, ha sollecitato da questa Sede Apostolica la sua canonizzazione, trovando, sia nella nostra Sacra Congregazione per le cause dei Santi, che nella nostra stessa persona, le migliori e meritate disposizioni ad atto celebrativo di tanta importanza. E voglia Iddio che questa elevazione del Beato Giovanni d’Avila nell’albo dei Santi, nella schiera gloriosa dei figli della Chiesa celeste, valga ad ottenere alla Chiesa pellegrinante in terra un intercessore nuovo e potente, un maestro di vita spirituale, provvido e sapiente; un rinnovatore esemplare di vita ecclesiastica e di costume cristiano.
E questo Nostro voto sembra esaudito dal raffronto storico dei tempi, nei quali visse ed operò il Santo, con i tempi nostri; raffronto di due periodi certamente molto diversi fra loro, i quali, per altro, presentano analogie non tanto nei fatti, quanto piuttosto in alcuni principi ispiratori, sia delle vicende umane di allora, sia di quelle presenti: risveglio, ad esempio, di energie vitali e crisi di idee, fenomeno questo proprio del Cinquecento e proprio del nostro secolo ventesimo; e tempo di riforme e di discussioni conciliari quello, come lo è questo che stiamo vivendo. E parimente sembra provvidenziale che sia rievocata ai nostri giorni la figura del Maestro Avila per i tratti caratteristici della sua vita sacerdotale, i quali conferiscono a questo Santo un pregio singolare e sempre apprezzato dal gusto contemporaneo, quello dell’attualità.
San Giovanni d’Avila è un Sacerdote, che per molti riguardi possiamo dire moderno, specialmente per la pluralità degli aspetti, che la sua vita offre alla nostra considerazione e perciò alla nostra imitazione. Non indarno egli è già stato offerto al Clero Spagnolo, come suo modello esemplare e celeste tutore. Noi pensiamo ch’egli può essere onorato come tipo polivalente da ogni Prete dei giorni nostri, nei quali, si dice, che il Sacerdozio stesso soffre d’una crisi profonda; una «crisi d’identità», quasi che sia la natura, sia la missione del Sacerdote non abbiano ora motivi sufficienti per giustificare la loro presenza in una società, come la nostra, sconsacrata e secolarizzata. Ogni Prete, che dubitasse della propria vocazione, può avvicinare il nostro Santo ed avere una risposta rassicurante. Come ogni studioso, incline a ridurre la figura del Sacerdote entro gli schemi d’una sociologia profana ed utilitaria, guardando quella di Giovanni d’Avila, avrebbe di che modificare i suoi giudizi riduttivi e negativi circa la funzione del Sacerdote nel mondo moderno.
Giovanni è un uomo povero e modesto, di propria elezione. Non è nemmeno sostenuto dall’inserzione nei quadri operativi dell’ordinamento canonico; non è parroco, non è religioso; è un semplice prete, di scarsa salute e di più scarsa fortuna dopo i primi esperimenti del suo ministero: subisce subito la prova più amara che possa essere inflitta ad un apostolo fedele e fervoroso; quella d’un processo, con relativa detenzione, per sospetto d’eresia, come allora si usava. Egli non ha nemmeno la fortuna di potersi sostenere abbracciando un grande ideale avventuroso; voleva partire missionario per le terre americane, le «Indie» occidentali allora recentemente scoperte; ma non gliene è dato il permesso.
Ma Giovanni non dubita. Ha la coscienza della sua vocazione. Ha la fede nella sua elezione sacerdotale. Una introspezione psicologica della sua biografia ci porterebbe a individuare in questa certezza della sua «identità» sacerdotale la sorgente del suo impavido zelo, della sua fecondità apostolica, della sua sapienza di lucido riformatore della vita ecclesiastica e di squisito direttore di coscienze. San Giovanni d’Avila insegna almeno questo, e soprattutto questo al Clero del nostro tempo, di non dubitare dell’essere suo: Sacerdote di Cristo, ministro della Chiesa, guida ai fratelli.
Egli avverte profondamente ciò che oggi alcuni Sacerdoti e molti Alunni nei Seminari non comprendono più come un dovere corroborante e un titolo specifico alla qualificazione ministeriale nella Chiesa, la propria definizione — chiamiamola pure sociologica — desunta da quella che, come servo di Gesù Cristo, e come apostolo, San Paolo dava di sé: «Segregato per annunciare il Vangelo di Dio» (Romani, 1, 1). Questa segregazione, questa specificazione, ch’è poi quella d’un organo distinto e indispensabile per il bene d’un intero corpo vivente (Cfr. 2 Corinzi, 12, 16 ss.), è oggi la prima nota del sacerdozio cattolico a essere discussa e contestata anche da motivi, spesso per sé nobili e sotto certi aspetti ammissibili; ma quando essi tendono a togliere questa «segregazione», ad assimilare lo stato ecclesiastico a quello laico e profano, e a giustificare nell’eletto l’esperienza della vita mondana col pretesto ch’egli non dev’essere da meno d’ogni altro uomo, facilmente spingono l’eletto fuori dal suo cammino e fanno facilmente del prete un uomo qualunque, un sale senza sapore, un inabile al sacrificio interiore, e un destituito dalla potenza di giudizio, di parola e di esempio, proprio d’un forte, d’un puro, d’un libero seguace di Cristo. La parola tagliente ed esigente del Signore: «Chiunque, dopo aver messo la mano all’aratro, volge indietro lo sguardo, non è idoneo al regno di Dio» (Luca, 9, 62), era penetrata profondamente in questo singolare Sacerdote, che nella totalità del suo dono a Cristo ritrovò centuplicate le sue energie.
La sua parola di predicatore divenne potente e risuonò rinnovatrice. San Giovanni d’Avila può essere ancor oggi maestro di predicazione, tanto più degno d’essere ascoltato e imitato quanto meno indulgente agli artifici oratori e letterari del suo tempo, e quanto più abbeverato di sapienza attinta alle fonti bibliche e patristiche. La sua personalità si manifesta e grandeggia nel ministero della predicazione. E, cosa apparentemente contraria a tale sforzo di parola pubblica ed esteriore, Avila conobbe l’esercizio della parola personale e interiore, propria del ministero del sacramento della penitenza e della direzione spirituale. E forse ancor più in questo ministero paziente e silenzioso, estremamente delicato e prudente, la personalità di lui eccelle su quella dell’oratore. Il nome di Giovanni d’Avila è legato alla sua opera più significativa, la celebre opera Audi, filia, ch’è libro di magistero interiore, pieno di religiosità, di esperienza cristiana, di umana bontà. Precede la Filotea, opera, in certo senso analoga, d’un altro Santo, Francesco di Sales, e tutta una letteratura di libri religiosi, che daranno profondità e sincerità alla formazione spirituale cattolica dal Tridentino fino ai nostri giorni. Anche in questo Avila è esemplare maestro.
E quante altre sue virtù potremmo ricordare a nostra edificazione! Avila fu scrittore fecondo. Aspetto anche questo che lo avvicina a noi mirabilmente e ci offre la sua conversazione, quella d’un Santo.
E poi l’azione. Un’azione varia e instancabile: corrispondenza, animazione di gruppi spirituali, di sacerdoti specialmente, conversione di anime grandi, come Luigi di Granada, suo discepolo e suo biografo, e quali i futuri Santi Giovanni di Dio e Francesco Borgia, amicizia con gli spiriti magni del suo tempo, quali Sant’Ignazio e Santa Teresa, fondazione di Collegi per il Clero e per la gioventù. Una grande figura davvero.
L’omelia prosegue con un testo in spagnolo del quale pubblichiamo una nostra traduzione.
Ma quello su cui la nostra attenzione voleva soffermarsi in modo particolare è sulla figura di riformatore, o meglio, di innovatore, che è riconosciuta a San Giovanni d’Avila. Essendo vissuto nel periodo di transizione, pieno di problemi, di discussioni e di controversie, che precede il Concilio di Trento, e anche durante e dopo il lungo e grande Concilio, il Santo non poteva esimersi dal prendere una posizione di fronte a questo grande avvenimento. Non poté parteciparvi personalmente a causa della sua salute precaria; ma è suo un Memoriale, ben noto, intitolato: Riforma dello Stato Ecclesiastico (1551) (seguito da un’appendice: Lo que se debe avisar a los Obispos, 1551), che l’Arcivescovo di Granada, Pedro Guerrero, farà suo nel Concilio di Trento, con generale plauso.
Allo stesso modo, altri scritti quali: Causas 31 remedios de las herehijas (Memorial Segundo, 1561), dimostrano con quale intensità e con quali intenti Giovanni d’Avila partecipasse allo storico avvenimento: dalla stessa chiara diagnosi della gravità dei mali che affliggevano la Chiesa a quel tempo, traspaiono la lealtà, l’amore e la speranza. E quando si rivolge al Papa e ai pastori della Chiesa, quale sincerità evangelica e devozione filiale, quale fedeltà alla tradizione e fiducia nella costituzione intrinseca e originale della Chiesa, e che importanza fondamentale riservata alla vera fede per curare i mali e prevedere il rinnovamento della Chiesa stessa!
«Giovanni d’Avila è stato, nelle questioni di riforma, come in altri campi spirituali, un precursore; e il Concilio di Trento ha adottato decisioni che egli aveva preconizzato molto tempo prima» (S. Chakprenet, p. 56). Però non fu un critico contestatore, come si dice oggi. È stato uno spirito chiaroveggente e ardente, che alla denuncia dei mali, al suggerimento dei rimedi canonici, ha aggiunto una scuola di intensa spiritualità (lo studio della Sacra Scrittura, la pratica dell’orazione mentale, l’imitazione di Cristo e la sua traduzione spagnola del libro dallo stesso nome, il culto dell’Eucarestia, la devozione alla Santissima Vergine, la difesa del sacro celibato, l’amore per la Chiesa anche quando qualche ministro della stessa fu troppo severo con lui…) ed è stato il primo a mettere in pratica l’insegnamento della sua scuola.
Una grande figura, ripetiamo, anch’essa figlia e gloria della terra di Spagna, della Spagna cattolica, impegnata a vivere la propria fede drammaticamente, facendo sorgere dal seno delle sue tradizioni morali e spirituali, di tanto in tanto, nei momenti cruciali della sua storia, l’eroe, il saggio, il Santo.
Possa questo Santo, che Noi sentiamo la gioia di lodare di fronte alla Chiesa, esserle favorevole intercessore delle grazie di cui oggi sembra avere più bisogno: la fermezza nella vera fede, l’autentico amore per la Chiesa, la Santità del suo Clero, la fedeltà al Concilio, l’imitazione di Cristo tale come dev’essere nei tempi nuovi. E possa la sua figura profetica, incoronata oggi dall’aureola della santità, spargere sul mondo la verità, la carità, la pace di Cristo.
I suoi testi più importanti
«Sacerdote secolare, famoso predicatore, detto l’apostolo dell’Andalusia, Giovanni d’Ávila è una delle figure storiche della Riforma cattolica che esercitarono più profondo e durevole magistero spirituale in Spagna e altrove, nel suo tempo e anche nei secoli seguenti». Così Xavier de Silió presenta il santo spagnolo sulle pagine della Bibliotheca sanctorum.
Giovanni d’Ávila nasce il 6 gennaio 1499 (o 1500) ad Almodóvar del Campo da genitori molto religiosi, tra i più stimati e agiati del luogo. Il padre, Alfonso d’Ávila, proveniva da una famiglia di «cristiani nuovi», cioé di convertiti dal giudaismo: una presunta ombra che accompagnerà suo figlio per tutta la vita.
Dottore in diritto e teologia, studiò prima a Salamanca e poi (dal 1520) ad Alcalá de Henares (università a quei tempi molto influenzata dalla dottrina di Erasmo), sotto la guida di Domenico Soto. Ordinato sacerdote nel 1525 (celebrò la sua prima messa nella chiesa dov’erano sepolti i genitori), dopo aver donato tutti i suoi averi ai poveri, Giovanni iniziò un’intensa attività di predicazione e di direzione spirituale, radunando attorno a sé un gran numero di persone, sacerdoti e laici.
Invidie, malintesi e gelosie fecero sì che nel 1531 Giovanni d’Ávila venisse denunciato all’Inquisizione (alcune sue frasi interpretate con malizia portarono al sospetto di luteranesimo). Arrestato tra l’estate e l’autunno del 1532, egli riuscì però a trarre grande profitto dai mesi di prigionia: fu proprio qui che gettò le basi della sua opera più nota, l’Audi filia, composta da una serie di considerazioni, insegnamenti e regole di vita ascetica imperniate sul mistero della redenzione (egli volle che queste regole di vita devota fossero «più sicure che alte»).
In carcere scrisse anche una delle lettere più sorprendenti del suo epistolario, colma di carità e gioia soprannaturale (tale missiva confluirà poi nel suo ricchissimo epistolario: oltre duecento lettere a prelati, discepoli, cavalieri e dame che chiedevano i suoi consigli e il suo aiuto). Il 16 giugno 1533 venne finalmente emessa la sentenza di piena assoluzione.
Predicando, Giovanni percorse quasi tutta l’Andalusia e la bassa Estremadura. Siviglia, Cordova, Granada: le sue parole convertivano (celebre quella dell’avventuriero portoghese che diverrà poi noto con il nome di Giovanni di Dio), determinavano scelte di vita (fu questo il caso del duca di Gandía, il futuro san Francesco Borgia) e fecero nascere fecondi rapporti (come quello con il domenicano Luigi Granata, che ne diverrà il biografo).
Il prestigio del Maestro d’Ávila attirò l’attenzione di Ignazio di Loyola: anche se i tentativi di fusione tra la Compagnia di Gesù e il gruppo aviliano non andarono in porto, tra i due si creerà comunque un rapporto solido e molto profondo. Tra l’altro, Giovanni favorì lo sviluppo e la diffusione dei gesuiti in terra di Spagna.
Ricca anche la corrispondenza epistolare con santa Teresa, che sottopose al suo giudizio il manoscritto dell’Autobiografia. Giovanni la sostenne molto anche nell’opera di riforma dell’ordine carmelitano.
Giovanni d’Ávila morì a Montilla il 10 maggio 1569. Sepolto nella chiesa dei gesuiti intitolata all’Incarnazione (oggi San Francesco), tra i suoi celebri ritratti v’è senz’altro quello realizzato da El Greco.
Beatificato il 15 aprile 1894 da Leone XIII, fu canonizzato da Paolo VI il 31 maggio 1970. La Conferenza episcopale spagnola lo ha dichiarato patrono dei sacerdoti diocesani. (Giulia Galeotti)
I suoi testi più importanti
li scrisse in prigione
«Sacerdote secolare, famoso predicatore, detto l’apostolo dell’Andalusia, Giovanni d’Ávila è una delle figure storiche della Riforma cattolica che esercitarono più profondo e durevole magistero spirituale in Spagna e altrove, nel suo tempo e anche nei secoli seguenti». Così Xavier de Silió presenta il santo spagnolo sulle pagine della Bibliotheca sanctorum.
Giovanni d’Ávila nasce il 6 gennaio 1499 (o 1500) ad Almodóvar del Campo da genitori molto religiosi, tra i più stimati e agiati del luogo. Il padre, Alfonso d’Ávila, proveniva da una famiglia di «cristiani nuovi», cioé di convertiti dal giudaismo: una presunta ombra che accompagnerà suo figlio per tutta la vita.
Dottore in diritto e teologia, studiò prima a Salamanca e poi (dal 1520) ad Alcalá de Henares (università a quei tempi molto influenzata dalla dottrina di Erasmo), sotto la guida di Domenico Soto. Ordinato sacerdote nel 1525 (celebrò la sua prima messa nella chiesa dov’erano sepolti i genitori), dopo aver donato tutti i suoi averi ai poveri, Giovanni iniziò un’intensa attività di predicazione e di direzione spirituale, radunando attorno a sé un gran numero di persone, sacerdoti e laici.
Invidie, malintesi e gelosie fecero sì che nel 1531 Giovanni d’Ávila venisse denunciato all’Inquisizione (alcune sue frasi interpretate con malizia portarono al sospetto di luteranesimo). Arrestato tra l’estate e l’autunno del 1532, egli riuscì però a trarre grande profitto dai mesi di prigionia: fu proprio qui che gettò le basi della sua opera più nota, l’Audi filia, composta da una serie di considerazioni, insegnamenti e regole di vita ascetica imperniate sul mistero della redenzione (egli volle che queste regole di vita devota fossero «più sicure che alte»).
In carcere scrisse anche una delle lettere più sorprendenti del suo epistolario, colma di carità e gioia soprannaturale (tale missiva confluirà poi nel suo ricchissimo epistolario: oltre duecento lettere a prelati, discepoli, cavalieri e dame che chiedevano i suoi consigli e il suo aiuto). Il 16 giugno 1533 venne finalmente emessa la sentenza di piena assoluzione.
Predicando, Giovanni percorse quasi tutta l’Andalusia e la bassa Estremadura. Siviglia, Cordova, Granada: le sue parole convertivano (celebre quella dell’avventuriero portoghese che diverrà poi noto con il nome di Giovanni di Dio), determinavano scelte di vita (fu questo il caso del duca di Gandía, il futuro san Francesco Borgia) e fecero nascere fecondi rapporti (come quello con il domenicano Luigi Granata, che ne diverrà il biografo).
Il prestigio del Maestro d’Ávila attirò l’attenzione di Ignazio di Loyola: anche se i tentativi di fusione tra la Compagnia di Gesù e il gruppo aviliano non andarono in porto, tra i due si creerà comunque un rapporto solido e molto profondo. Tra l’altro, Giovanni favorì lo sviluppo e la diffusione dei gesuiti in terra di Spagna.
Ricca anche la corrispondenza epistolare con santa Teresa, che sottopose al suo giudizio il manoscritto dell’Autobiografia. Giovanni la sostenne molto anche nell’opera di riforma dell’ordine carmelitano.
Giovanni d’Ávila morì a Montilla il 10 maggio 1569. Sepolto nella chiesa dei gesuiti intitolata all’Incarnazione (oggi San Francesco), tra i suoi celebri ritratti v’è senz’altro quello realizzato da El Greco.
Beatificato il 15 aprile 1894 da Leone XIII, fu canonizzato da Paolo VI il 31 maggio 1970. La Conferenza episcopale spagnola lo ha dichiarato patrono dei sacerdoti diocesani. (Giulia Galeotti)
© L'Osservatore Romano 21 agosto 2011