A lezione da san Tommaso
Come s’insegna la teologia
Comunicare la sacra dottrina è davvero impegnativo. Oggi molti cercano di sorprendere a tutti costi. Bisogna invece saper dosare quantità e qualità di ciò che si dona.
di Inos Biffi
Nella prima lezione inaugurale del suo magistero — siamo a Parigi nella primavera del 1256 — Tommaso d’Aquino non ha trattato solo dei maestri di teologia, illustrandone la dignità, e dei discepoli, mettendo in luce le disposizioni necessarie per essere iniziati alla sacra dottrina; egli ha anche esposto la pedagogia dell’insegnamento teologico, che non sembra inutile risentire.
Secondo il nuovo maestro domenicano, nel comunicare il dono della sacra dottrina, anzitutto occorre considerare l’ordine secondo cui trasmetterlo, la quantità del dono, e i tratti che devono contrassegnare il possesso e la comunicazione del dono.
È interessante notare il modo di esprimersi di san Tommaso: egli parla di quantità e di qualità del dono: la teologia è una grazia, e infatti essa attesta la confidenza di Dio che rende l’uomo partecipe del suo mistero.
Riguardo al metodo di trasmissione, l’Angelico sottolinea l’opportunità che essa sia graduale. Già gli stessi dottori — egli osserva — sono inidonei a ricevere nella sua totalità la sapienza divina; ne consegue che a loro volta non devono effondere nella mente dei discepoli tutto il loro sapere. Tommaso lo dice attingendo alle parole di Gregorio Magno: «Il dottore non deve predicare alle persone semplici tutto quello che conosce, e ciò perché anch’egli non ha la capacità di conoscere i divini misteri in tutta la loro grandezza».
Proseguendo sulla quantità della scienza che deve essere comunicata, Tommaso fa osservare che in pienezza la sapienza divina è posseduta solo da Dio, al quale essa appartiene per natura: «Dio possiede la sapienza per natura»; i dottori invece ne partecipano «in misura sovrabbondante », mentre «i discepoli la condividono in misura sufficiente », trovandosi in questo la loro sazietà.
La visione strutturalmente gerarchica della realtà, e quindi della sua conoscenza e del suo impossessarsi, è tipica della mentalità medievale: qui può valere come indicazione al maestro di sacra dottrina, saggiamente avvertito di proporzionare il suo insegnamento alle condizioni intellettuali e spirituali dell’alunno, e qui viene in mente il metodo di un insigne docente di teologia nella Facoltà Teologica di Milano, Carlo Figini, molto ammirato dal cardinale Giovanni Colombo, il quale scriveva di lui: apparteneva alla categoria dei maestri che «mentre insegnano, senza perdere di vista l’esattezza e la perspicuità dell’argomentazione, sono attenti ai cuori in cui discende il seme della parola, perché a loro preme che lo accolgano senza turbamento e con il massimo frutto possibile»; per cui «cercava, anche a costo di apparire meno originale e meno brillante, di esporre le difficoltà con pedagogica dosatura».
Ma queste sono considerazioni che ci portano ad altri tempi, anzi quasi fuori del tempo. Adesso parrebbe che lo scopo dell’insegnamento sia quello di sorprendere, a tutti i costi, salvo poi non avere più nulla da dire.
San Tommaso passa poi a esaminare il genere di potere con cui il dono della sapienza viene trasfuso, e risponde: «Dio comunica la sapienza per virtù propria», mentre «i maestri di teologia trasmettono la sapienza unicamente come ministri». Il maestro non è la fonte originaria della teologia; questa è opera di Dio, che egli si ritrova per grazia, secondo l’insegnamento di Paolo, largamente citato, sulla condizione di ministri, di quelli che annunziano il Vangelo (1 Corinzi, 3, 4- 5). In particolare, nell’assolvimento di questa missione, si richiede che quanti vi si dedicano siano «innocenti », «intelligenti», «ferventi» e «obbedienti» (obedientes): attitudini tutte che non si hanno «con le proprie forze e per proprio merito», ma che si possono sperare da Dio nell’orazione.
Come si vede per Tommaso la professione del teologo appare estremamente impegnativa. Qui metteremmo in luce lo spirito o l’atteggiamento di dipendenza che la deve contraddistinguere: essa è un servizio, appunto un ministero, dove il primato è obiettivamente costituito dalla Parola di Dio: l’originalità del teologo si esercita all’interno del costituivo riferimento a essa.
L’Angelico menziona anche la prerogativa dell’intelligenza, senza la quale non si può essere, in ogni caso, un sacro dottore.
C’è un passo dove egli confida con la sobrietà che lo distingue, ma non senza emozione, la scelta della sua vita di dedicarsi allo «studio della sapienza» (studium sapientiae). È all’inizio della Summa contra Gentiles. Scrive con espressione alquanto laboriosa: «Attingendo nella bontà divina il coraggio di assumere l’ufficio del sapiente — ufficio per altro superiore alle mie forze — mi propongo, per quanto mi è possibile, di esporre la verità professata dalla fede cattolica, confutando gli errori contrari. Per usare le parole di Ilario, “Io sono persuaso che il mio dovere, davanti a Dio, sia quello di esprimerlo in ogni mia parola e in ogni mio sentimento”».
Tommaso rimase fedele a questo suo impegno sino al termine della sua intensissima vita (7 marzo 1274). È vero che dopo la festa di san Nicola del 1273 egli cessò ogni attività. Al carissimo Reginaldo, che lo sollecitava a concludere i testi interrotti, rispondeva: «Quello che ho scritto, dopo ciò che ho veduto, mi sembra paglia. Non posso più scrivere »: «Il mio scrivere è giunto alla fine» (Venit finis scripturae meae).
Non è chiaro che cosa sia avvenuto al maestro domenicano, certamente consumato dalle ininterrotte fatiche fisiche e intellettuali.
Senz’altro non era il rigetto o la svalutazione del suo lavoro e della sua opera teologica, ma più plausibilmente la percezione viva della loro provvisorietà. Del resto, aveva lui stesso insegnato che la teologia è una traccia e una pregustazione terrena della scienza di Dio (Summa Theologiae, I, 1, 3, 2m; 2c).
Dopo aver in qualche misura intuito questa scienza, egli maggiormente avvertiva tutta la precarietà degli enunciati della scuola rispetto alla «realtà», che essi traducevano e a cui miravano.
In qualche modo avvenne come per Clemente Rebora: «La Parola zittì chiacchiere mie». Veramente quelle di san Tommaso non erano state chiacchiere, e tuttavia la sua «scrittura» non poteva che sciogliersi all’avvicinarsi della contemplazione. L’intenzione e la passione della teologia, e della stessa fede, è infatti la visione di Dio, «così com’è» (1 Giovanni, 3, 2).
© L'Osservatore Romano 4 agosto 2011