Economia di sopravvivenza
di Ettore Gotti Tedeschi
Gli Stati Uniti non sono riusciti a produrre una nuova «bolla»: hanno gettato la spugna e hanno raggiunto l’accordo anti-default, introdotto da un vero dramma politico, per riconfermare l’anima liberista, ma responsabile, del Paese. Cosa significa innalzare il tetto del debito pubblico? Significa essenzialmente nazionalizzare il debito dei privati, per i quali era divenuto insostenibile. Ma significherà anche inflazione, più tasse e svalutazione del dollaro. I rating sull’economia americana peggioreranno e il costo del debito crescerà.
Siamo di fronte a scelte economiche di sopravvivenza, senza prospettiva, non convinte e non convincenti. Regna l’incertezza sul reale funzionamento del mercato globale, e così, sul breve termine, ognuno pensa a se stesso. Nei Paesi europei si evidenziano disaccordi su come — al contrario di quanto avvenuto negli Stati Uniti — privatizzare il debito pubblico, usando il risparmio, ancora consistente, dei cittadini. La soluzione, alla fine e per entrambe le aree economiche, non sarà altro che un ruolo dello Stato ancora più preminente, con la conseguenza di tasse più alte. Si direbbe quasi che i sistemi politici vogliano far rimpiangere ai cittadini i mercati protetti e riversare su di loro il costo di venti anni di crescita fittizia.
Non molto tempo fa, si facevano progetti economici per fare politica. Poi si è fatta politica per fare progetti economici. Oggi sembra che si vogliano inventare falsi progetti economici senza nemmeno fare più politica. In alcuni Paesi si pensa persino di imporre una sorta di tassa patrimoniale pur di avere risorse da continuare a dissipare in mancanza di una vera progettualità. È come se un medico, per arrestare il sangue di una ferita, tagliasse l’arto lesionato. O come se, per sembrare più ricca, una Nazione arrivasse a vietare di fare figli, facendo così crescere temporaneamente il pil pro capite.
Separata dai riferimenti etici e assumendo autonomia morale, l’economia finisce in mano a persone che trasformano i suoi meccanismi in strumenti di potere, anche politico. Per parafrasare l’enciclica di Giovanni Paolo II Sollicitudo rei socialis, queste persone detengono strumenti sofisticati, ma non dispongono di maturità e saggezza sufficienti per pensare al bene comune.
Come possa la politica venire a capo di questa situazione non è affatto chiaro e le difficoltà sono numerosissime. La soluzione dei problemi economici esigerebbe una politica di austerità a lungo termine. Ma questa è una strategia impopolare e fa rischiare la sconfitta alle elezioni di chi voglia attuarla. La minaccia è allora quella di scelte popolari in chiave elettorale, ma non risolutive sul piano economico. In Europa l’esigenza di governare la moneta unica impone regole equivalenti per contesti molto diversi e non omogeneizzabili, con il rischio di produrre soluzioni non sostenibili e di aggravare le eventuali crisi politiche. La disoccupazione incombente nei Paesi a economia matura è frutto di debolezze competitive dovute alla delocalizzazione, attuata per consumare di più e a buon mercato. Per migliorare il tasso di occupazione si dovrebbe rilocalizzare in patria le produzioni. E ciò significherebbe, a breve, vantaggi per i produttori, ma forti svantaggi per i consumatori.
Ci si può chiedere se tutti questi problemi siano veramente la conseguenza della crisi economica di oggi, oppure se stiamo solo subendo gli effetti di una crisi precedente, che economica non è, ma che ha prodotto effetti economici. In realtà, la vera crisi il mondo occidentale l’ha creata, vissuta e nutrita accettando l’idea di un uomo da soddisfare solo materialmente.
© L'Osservatore Romano 5 agosto 2011