Per un nuovo patriottismo ispirato al Credo cristiano
L'immigrazione e l'America che verrà
[English]
José Horacio Gómez
L’immigrazione e l’America che verrà è stato il tema dell’intervento che l’arcivescovo di Los Angeles ha tenuto il 28 luglio scorso presso il Napa Institute, di Napa in California, nell’ambito dell’annuale conferenza su «Catholics in the next America». Pubblichiamo, in una nostra traduzione, la sintesi che il presule ha realizzato per il nostro giornale.
Trovo frustrante il nostro dibattito politico sull’immigrazione. Spesso penso che stiamo solo girando intorno ai veri problemi. Tutti gli aspetti di questo argomento sono ispirati da un’idea bella e patriottica della storia e dei valori americani, ma di recente ho cominciato a chiedermi di quale America parliamo veramente. Il Paese sta cambiando, e da parecchio tempo. Le forze della globalizzazione stanno modificando la nostra economia e ci stanno costringendo a ripensare finalità e scopo del nostro modo di governare. Le minacce di nemici esterni stanno cambiando il nostro senso della sovranità nazionale. L’America sta cambiando anche dall’interno. La nostra cultura sta cambiando. Abbiamo una struttura legale che permette l’uccisione di bambini nel grembo materno, e addirittura paga per essa. I nostri tribunali e le nostre assemblee legislative stanno ridefinendo le istituzioni naturali del matrimonio e della famiglia. Abbiamo una cultura elitaria — nel Governo, nei media e nel mondo accademico — che è apertamente ostile alla fede religiosa.
L’America sta diventando un Paese completamente diverso nelle fondamenta. È tempo per tutti noi di riconoscere questo dato di fatto, indipendentemente dalla nostra posizione sulla questione politica dell’immigrazione. Dobbiamo riconoscere che l’immigrazione è parte di un insieme più ampio di domande sulla nostra identità e sul nostro destino nazionali. Che cos’è l’America? Cosa significa essere americani? Chi siamo come popolo e dove stiamo andando come Paese? Come sarà l’America che verrà?
Come cattolici, leali cittadini americani, dobbiamo rispondere a queste domande in un contesto di riferimento più ampio. Come cattolici dobbiamo sempre ricordare che nella vita di qualsiasi nazione vi è molto più delle esigenze del momento politico, economico e culturale. Dobbiamo considerare tutte queste esigenze e le discussioni su di esse alla luce del disegno di Dio per le nazioni. Si tratta di una grande sfida per noi in questa cultura che ci spinge a privatizzare la nostra fede, a separarla dalla nostra vita sociale. Dobbiamo sempre resistere alla tentazione. Siamo chiamati a vivere la nostra fede nelle nostre attività, case e comunità e nella nostra partecipazione alla vita pubblica. Questo significa che nel dibattito sull’immigrazione dobbiamo introdurre una prospettiva di fede cattolica. Non possiamo affrontare la questione soltanto da democratici o repubblicani oppure da liberali o conservatori.
Penso che tutti conosciamo gli insegnamenti della nostra Chiesa sull’immigrazione. Quello che dobbiamo capire meglio è come considerare l’immigrazione alla luce della storia e degli obbiettivi dell’America, nella prospettiva della nostra fede cattolica. Se immaginiamo l’immigrazione da questa prospettiva, riusciamo a capire che essa non è un problema per l’America, ma un’opportunità. L’immigrazione è la chiave del rinnovamento americano. Fra i nostri problemi attuali vi è quello di aver perduto il senso della storia nazionale dell’America. Quando la conosciamo, la conosciamo in maniera incompleta e se non conosciamo la storia intera, finiamo per avere idee sbagliate sull’identità e la cultura americane.
La nostra «storia» nazionale
La storia americana che la maggior parte di noi conosce è cominciata nel New England. È la storia dei pellegrini e della Mayflower, del Primo Ringraziamento e del sermone di John Winthrop sulla «città sulla collina». È la storia di grandi uomini come Washington, Jefferson e Madison. È la storia di grandi documenti come la Dichiarazione d’indipendenza e il Bill of Rights. È una bella storia. È anche autentica. Ogni americano dovrebbe conoscere questi personaggi e gli ideali e i principi per i quali hanno combattuto. Da questa storia impariamo che la nostra identità e la nostra cultura americane sono radicate in idee essenzialmente cristiane sulla dignità della persona umana.
Tuttavia, la storia dei Padri Fondatori e le verità che ritenevano ovvie non è tutta la storia dell’America. Il resto della storia comincia più di un secolo prima dei pellegrini. Comincia negli anni venti del Cinquecento in Florida e un ventennio più tardi in California. Non è la storia di un insediamento coloniale e di un’opportunità politica ed economica. È la storia di esplorazione e di evangelizzazione. Questa storia non è anglo-protestante, ma ispanico-cattolica. Non è incentrata nel New England, ma nella Nueva España, agli angoli opposti del continente.
Da questa storia apprendiamo che ancor prima che questa terra avesse un nome, i suoi abitanti venivano battezzati nel nome di Gesù Cristo. Gli abitanti di questa terra furono chiamati cristiani ancor prima che americani. E furono chiamati così in spagnolo, in francese e in inglese. Da questa storia apprendiamo che molto prima del Tea Party di Boston, i missionari cattolici celebravano messa sul continente. I cattolici fondarono il più antico insediamento americano a Saint Augustine, in Florida, nel 1565. I missionari immigrati chiamavano i fiumi, i monti e i territori di questo continente con nomi di santi, sacramenti e articoli di fede. Ora diamo per scontati questi nomi, ma la nostra geografia attesta che la nostra nazione è sorta dall’incontro con Gesù Cristo: Sacramento, Las Cruces, Corpus Christi, Sangre de Cristo Mountains. Nell’Ottocento lo storico John Gilmary Shea ha detto in maniera splendida che su questa terra, prima delle case, vi furono gli altari: «Veniva celebrata la messa per santificare la terra e far discendere la benedizione del cielo prima ancora di accingersi a costruire una casa. L’altare era più antico del focolare».
Il pezzo mancante della storia americana
Ecco il pezzo mancante della storia americana. Oggi più che mai dobbiamo conoscere questa eredità di santità e servizio, in particolare in quanto americani cattolici. Insieme con Washington e Jefferson, dobbiamo conoscere le storie dei grandi apostoli d’America. Dobbiamo conoscere i missionari francesi, come madre Joseph e i gesuiti sant’Isacco Jogues e padre Jacques Marquette che vennero dal Canada per portare la fede nella metà settentrionale del nostro Paese. Dobbiamo conoscere missionari ispanici quali il francescano Magin Catalá e il gesuita Eusebio Kino giunti dal Messico per evangelizzare i territori occidentali del sud e del nord.
Dovremmo conoscere le storie di persone come il venerabile Antonio Margil. Era un prete francescano ed è una delle mie figure preferite della prima evangelizzazione in America. Nel 1683 Antonio lasciò il suo Paese natale, la Spagna, per venire nel nuovo mondo. Disse alla madre di aver preso la decisione di venire qui perché «milioni di anime avevano bisogno di sacerdoti per dissipare le tenebre della mancanza di fede». Le persone erano solite chiamarlo «il padre volante». Camminava per quaranta o cinquanta miglia al giorno a piedi scalzi. Frate Antonio aveva un senso della missione veramente continentale. Costruì chiese in Texas e Louisiana e anche in Costa Rica, Nicaragua, Guatemala e Messico. Era un sacerdote molto coraggioso e amorevole. Scampó alla morte tante volte, minacciato dai nativi che era andato a evangelizzare. Una volta affrontò una dozzina di indiani con archi e frecce. Un’altra volta fu quasi bruciato vivo. Sono venuto a sapere di frate Antonio quando ero arcivescovo di San Antonio, in Texas. Qui aveva predicato fra il 1719 e il 1720, aveva fondato la missione di San José e parlava della città di San Antonio come del centro dell’evangelizzazione d’America: «Sarà il quartier generale di tutte le missioni che Dio nostro Signore stabilirà» in modo che «a tempo debito tutto questo nuovo mondo possa essere convertito alla sua santa fede cattolica».
È questa la vera ragion d’essere dell’America, se consideriamo la nostra storia alla luce del disegno di Dio per le Nazioni. L’America deve essere un luogo di incontro con Gesù Cristo vivente. Questa fu la motivazione dei primi missionari. Il carattere e lo spirito nazionale americani sono profondamente segnati dai valori evangelici che essi hanno portato in questa terra. Questi valori sono ciò che rende così speciali i documenti fondanti del nostro Paese. Benché fondata da cristiani, l’America è divenuta la casa di una sorprendente diversità di culture, religioni e modi di vita. Questa diversità prospera proprio perché i fondatori della nostra Nazione hanno avuto una visione cristiana della persona, della libertà e della verità umane.
Il Credo americano
Com’è noto, Gilbert Keith Chesterton ha detto che «l’America è l’unica nazione al mondo fondata su un credo», riconoscendo quel credo come fondamentalmente cristiano. Il credo americano di base è che tutti gli uomini e tutte le donne sono creati uguali e che Dio ha dato loro diritto alla vita, alla libertà e alla ricerca della felicità. Ogni altra nazione è stata fondata sulla base di un territorio e di un’appartenenza etnica comuni, vincoli di terra e di consanguineità. Invece, l’America è basata su questo ideale cristiano, su questo credo che riflette il sorprendente universalismo del Vangelo. Di conseguenza, la nostra è sempre stata una Nazione di nazionalità. E pluribus unum. Un popolo fatto di persone di molte nazioni, razze e fedi. Nel corso della storia, sono sempre sorti problemi quando abbiamo dato per scontato questo credo americano oppure quando abbiamo cercato di limitarlo in qualche modo. Per questo è essenziale che oggi ricordiamo la storia missionaria dell’America e ci dedichiamo di nuovo all’idea del suo credo fondante. Se dimentichiamo che le radici del nostro Paese affondano nella missione ispanico-cattolica nel nuovo mondo, finiamo per avere idee distorte sulla nostra identità nazionale. Finiamo con l’idea che gli americani discendano solo da europei bianchi e che la nostra cultura sia basata soltanto sull’individualismo, sull’etica del lavoro e sullo stato di diritto che abbiamo ereditato dai nostri antenati anglo-protestanti. In passato, quando ciò è accaduto, ha portato a quegli episodi nella nostra storia di cui siamo meno orgogliosi: il maltrattamento dei nativi americani, lo schiavismo, scoppi ricorrenti di nativismo e anticattolicesimo, l’internamento di americani giapponesi durante la seconda guerra mondiale, le disavventure del «destino manifesto». È vero, le cause di questi momenti nella nostra storia sono molto più complicate, ma in fondo ritengo possibile rintracciare un fattore comune, cioè una nozione errata secondo la quale i «veri americani» appartengono a una razza, una classe, una religione o un’etnia particolare.
Un nuovo periodo di nativismo?
Temo che nei dibattiti politici di oggi sull’immigrazione stiamo entrando in un nuovo periodo di nativismo. La giustificazione intellettuale di questo nuovo nativismo è stata formulata alcuni anni fa nell’influente libro Who are we? di Samuel Huntington, di Harvard, dove l’autore ha espresso una serie di argomentazioni apparentemente sofisticate, ma la cui tesi fondamentale era che la cultura e l’identità americane sono minacciate dall’immigrazione messicana. Secondo Huntington l’identità americana autentica era «il prodotto della specifica cultura anglo-protestante dei coloni fondatori dell’America nei secoli XVII e XVIII», mentre i valori dei messicani erano radicati in una «cultura fondamentalmente incompatibile di cattolicesimo» che non attribuisce valore alla capacità di iniziativa né all’etica del lavoro, incoraggiando, anzi, passività e accettazione della povertà. Si tratta di vecchie e familiari argomentazioni nativiste, facili da confutare. Si potrebbe evidenziare la gloriosa eredità della letteratura e dell’arte ispaniche oppure i risultati raggiunti da americani messicani e ispanici americani nei settori degli affari, del governo, della medicina e in altri ambiti. Purtroppo oggi ascoltiamo idee simili a quelle di Huntington diffuse da televisioni via cavo e da dibattiti radiofonici e, a volte, anche da alcuni dei nostri leader politici. Non voglio negare che esistano differenze significative fra assunti culturali ispanico-cattolici e anglo-protestanti, ma penso che questo tipo di pensiero bigotto derivi da una conoscenza incompleta della storia americana. Dal punto di vista storico, entrambe le culture rivendicano giustamente un posto nella nostra storia nazionale e nella formazione di un’identità americana e di un carattere nazionale autentici.
Verso un nuovo patriottismo americano
Credo che i cattolici americani abbiano oggi il dovere speciale di essere i custodi della verità sullo spirito americano e sulla nostra identità nazionale. Credo che spetti a noi essere testimoni di un nuovo tipo di patriottismo americano. Siamo chiamati a esprimere tutto ciò che esiste di nobile nello spirito americano. Siamo anche chiamati a sfidare quanti riducono o sminuiscono l’identità autentica dell’America. Da quando sono giunto in California, penso molto al beato Junípero Serra, l’immigrato francescano arrivato dalla Spagna via Messico per evangelizzare questo grande Stato. Fra Junípero amava le popolazioni native di questo continente. Imparò le loro lingue locali, abitudini e credenze. Traduceva il Vangelo, le preghiere e gli insegnamenti della fede cosicché ognuno potesse ascoltare le opere potenti di Dio nella sua lingua originale! Era solito fare il segno della croce sulla fronte delle persone e dire loro: «Amate Dio!». Questo è un buon modo di intendere il nostro dovere di cattolici nella cultura odierna. Dobbiamo trovare una modalità per tradurre il Vangelo di amore per i nostri contemporanei. Dobbiamo ricordare ai nostri fratelli e alle nostre sorelle le verità insegnate dal beato Junípero e dai suoi confratelli missionari, cioè che siamo tutti figli dello stesso Padre nei cieli, che per lui non esistono gruppi razziali o nazionalità «inferiori» o meno degni delle sue benedizioni.
I cattolici devono condurre il nostro Paese a un nuovo spirito di empatia. Dobbiamo aiutare i nostri fratelli e le nostre sorelle a cominciare a considerare gli stranieri fra noi per quello che sono realmente e non in base a categorie o definizioni politiche o ideologiche radicate nelle nostre paure. Questo è difficile, lo so. So che è una sfida particolare vedere l’umanità di quegli immigrati che sono qui illegalmente.
Tuttavia, la verità è che pochissime persone scelgono di abbandonare la propria terra. L’emigrazione è quasi sempre imposta alle persone dalle condizioni miserrime di vita in cui si trovano. Per la maggior parte, gli uomini e le donne che vivono in America senza documenti appropriati hanno viaggiato per centinaia e persino per migliaia di miglia. Si sono lasciati tutto alle spalle, hanno messo a repentaglio la propria incolumità e la propria vita. Non lo hanno fatto per se stessi o per interessi egoistici. Lo hanno fatto per nutrire i loro cari, per essere buone madri e buoni padri, per essere figli e figlie amorevoli. Questi immigrati, indipendentemente da come sono giunti qui, sono persone piene di energie e di aspirazioni. Sono persone che non hanno paura del lavoro duro o del sacrificio. Non sono affatto come li descrivono Huntington e altri ancora! Questi uomini e queste donne hanno coraggio e altre virtù. La stragrande maggioranza di loro crede in Gesù Cristo e ama la nostra Chiesa cattolica, condivide i valori americani tradizionali di fede, famiglia e comunità.
Immigrazione e rinnovamento americano
Per questo credo che i nostri fratelli e le nostre sorelle immigrati siano la chiave del rinnovamento americano e sappiamo tutti che l’America ha bisogno di un rinnovamento economico e politico, ma anche spirituale, morale e culturale. Credo che gli uomini e le donne che giungono in questo Paese portino nella nostra economia uno spirito imprenditoriale nuovo e giovane di duro lavoro. Credo anche che contribuiscano a rinnovare l’anima dell’America. Giovanni Paolo II nel suo ultimo libro Memoria e identità ha scritto: «La storia di tutte le nazioni è chiamata a prendere il suo posto nella storia della salvezza». Dobbiamo guardare all’immigrazione nel contesto dell’esigenza di rinnovamento dell’America. Dobbiamo considerare sia l’immigrazione sia il rinnovamento americano alla luce del disegno salvifico di Dio e della storia delle nazioni. La promessa dell’America è che possiamo essere una Nazione in cui uomini e donne di ogni razza, credo e formazione nazionale possano vivere come fratelli e sorelle. Ognuno di noi è figlio di quella promessa. Se tracciamo le genealogie di quasi tutti in America, le linee di discendenza ci porteranno oltre i nostri confini, in qualche terra straniera dalla quale ognuno dei nostri antenati è arrivato originariamente. Ora questa eredità è per i cattolici americani un dono e un dovere. Siamo chiamati a dare il nostro contributo a questa Nazione nel modo in cui viviamo la nostra fede in Gesù Cristo come cittadini.
La nostra storia ci mostra che l’America è nata dalla missione della Chiesa per le nazioni. L’America che verrà sarà determinata dalle scelte che facciamo come discepoli cristiani e come cittadini americani. Con i nostri atteggiamenti e le nostre azioni, con le decisioni che prendiamo, stiamo scrivendo i prossimi capitoli della storia americana. Che Nostra Signora di Guadalupe, madre delle Americhe, ottenga per noi il coraggio di cui abbiamo bisogno per fare ciò che il nostro buon Signore richiede.
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- A colloquio con l’arcivescovo di Los Angeles José Horacio Gómez
"Il coraggio di vivere la fede" di Mary Nolan
- Immigration and the 'Next America': Perspectives From Our History
by Archbishop José H. Gomez
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- A colloquio con l’arcivescovo di Los Angeles José Horacio Gómez
"Il coraggio di vivere la fede" di Mary Nolan
- Immigration and the 'Next America': Perspectives From Our History
by Archbishop José H. Gomez
© L'Osservatore Romano 11 agosto 2011