mercoledì 10 agosto 2011

Come rappresentare la Risurrezione è una questione iconografica che ha attraversato i secoli "Sfida per il corpo e per il pennello" (Alessandro Scafi)



Come rappresentare la Risurrezione è una questione iconografica che ha attraversato i secoli

Sfida per il corpo e per il pennello

Dopo le iniziali titubanze gli artisti si cimentarono nel raffigurare quella carne vera e
tangibile ma trasfigurata. E capirono che il corpo non è un carcere bensì una realtà molto buona


di Alessandro Scafi

Nella Bildergalerie di Potsdam è custodita la celebre Incredulità di san Tommaso di Caravaggio. Nei quadri che hanno trattato questo tema si vede l’apostolo che non voleva credere, insieme a uno o più discepoli, che guarda meravigliato il Maestro crocifisso e resuscitato dai morti, oppure che tocca con il dito la ferita nel costato. Così accade nella tela caravaggesca, dove il dito di Tommaso affonda realisticamente in quella ferita. Un particolare di straordinaria efficacia.

Il critico Lionello Venturi ha definito questo quadro un «portento compositivo». Cristo guida la mano di Tommaso, come accade in tanta tradizione nordica, per esempio in Dürer, fino a introdurla dentro il suo costato. Caravaggio, del resto, esprimeva nelle sue pitture il dramma dell’uomo, cercava la verità nelle cose stesse, amava stare ai fatti, e non inventare, immergersi nella realtà, e non scivolare nell’immaginazione. Anche qui luce e ombra sono i protagonisti della coerenza del suo linguaggio. Il pittore altera l’integrità corporea delle sue figure, facendole investire sempre da una fonte luminosa ben definita, spesso laterale, e lasciando il resto assorbito nell’ombra più densa.

Ma la sua osservazione è sempre naturalistica. Il corpo del Risorto qui ci appare quasi atletico: il Redentore è di fronte agli apostoli non come uno spirito immateriale, ma come un uomo di carne e di sangue.

Già, il corpo. Il corpo di Cristo risorto è una sfida per la fede degli uomini, ma anche per il pennello degli artisti. Con la sua risurrezione, Gesù non è ritornato alla vita mortale di prima, ma è andato avanti. Ha sconfitto la morte, entrando in un orizzonte superiore. Il suo corpo, divenuto immortale, è stato trasfigurato dallo Spirito. A questo proposito Agostino scriveva che il corpo di Cristo risorto, come indicato dai vangeli, era fatto di ossa e di carne e ora splende trasfigurato nella vita eterna.

La difficile sfida di dipingere i tratti fisici del Figlio di Dio, diventava ancora più difficile: si trattava di ritrarre il suo corpo risorto, spirituale e immortale. Un corpo che è vero e tangibile, ma che è diverso dal corpo terreno, così come la pianta è diversa dal seme. Certo è l’occhio della fede che ci fa vedere il Cristo risorto. Siamo chiamati a non seguire l’esempio dell’incredul o Tommaso, ma piuttosto fare come la Santa Caterina dipinta da Paolo Emilio Besenzi, che, in una tela conservata nei Civici Musei di Reggio Emilia, bacia in ginocchio il costato di Cristo Risorto.


L’arte comunque ha accettato la sfida e ha rappresentato nei suoi colori le numerose apparizioni di Cristo avvenute durante i quaranta giorni tra la sua risurrezione e la sua ascensione. I giorni cioè che racchiudono, dopo la meditazione sul sacrificio della croce, il cuore della fede cristiana.

Un episodio di grande successo nelle arti figurative è quello della Cena di Emmaus. È un tema che si sviluppò abbastanza tardi nell’arte cristiana, all’inizio nelle cattedrali romaniche della Francia del XII secolo. Il soggetto iniziò poi a sostituire quello dell’Ultima Cena nei refettori di molti conventi. Fu particolarmente favorito dai pittori del Cinquecento veneziano, e, nel secolo successivo, da Rembrandt, le cui numerose versioni ne esaltarono l’ispirazione religiosa.

Nella sua forma essenziale, la scena della cena di Emmaus mostra tre figure sedute a tavola. Cristo è al centro, e sta spezzando il pane, mentre sui volti degli altri due, improvvisamente, albeggia il sentimento dell’identità del Salvatore. Talvolta sono vestiti da pellegrini. I pittori veneziani svilupparono il tema, e, per arricchire l’eleganza del banchetto, aumentarono il numero di commensali e servitori, arrivando fino a quindici o venti figure, tanto che a volte i protagonisti dell’episodio si perdono in tanta confusione.

Anche Caravaggio dipinse la cena di Emmaus. Ma egli non amava divagare o impreziosire la scena: preferiva attenersi ai fatti. Nella tela oggi alla National Gallery di Londra, è descritto magistralmente l’improvviso sussulto dei discepoli. L’immagine del Risorto è quella di un giovane, senza barba e sereno, dopo l’agonia della passione.

Ci sono poi alcuni quadri nei quali vediamo Cristo risorto apparire alla madre. È un episodio che i vangeli non riferiscono, ma che la tradizione cristiana ha sempre ipotizzato. E così in molte opere d’arte Cristo è in piedi di fronte alla Vergine, svelando al suo sguardo le ferite della passione per dimostrarle che si tratta proprio di lui. La Vergine si inginocchia o si slancia per abbracciarlo. Così, ad esempio, nella tela completata nel 1630 dal Guercino, e ora nella Pinacoteca Civica di Cento.

Clemente di Roma, Papa alla fine del I secolo, invitava i cristiani a credere alla resurrezione dei morti, considerando anche le opere di Dio nella natura: il giorno che succede alla notte, le piante e i frutti che germogliano dai semi. Il cristiano è chiamato a sollevare il suo sguardo verso gli esempi offerti dalla provvidenza divina nel mondo naturale. Anche sant’Ambrogio pensava alla resurrezione degli uomini, osservando come in natura ciò che sembra morto in realtà è seminato nel grembo della terra, per germogliare di nuovo. È il messaggio di speranza del sole che muore e rinasce ogni giorno, degli alberi che crescono da un piccolo seme, delle stagioni che passano e rivivono. È l’annuncio testimoniato in tantissime opere d’arte che raffigurano la risurrezione di Cristo.

E così, ad esempio, vediamo il Polittico di San Nazzaro e Celso a Brescia, dipinto da Tiziano nel 1522, dove Gesù risorto è insieme un’emozione visiva e un annuncio. Il pittore veneto rappresentò la Risurrezione di Cristo in un grande pannello centrale, posto tra gli scomparti dell’angelo e della Vergine dell’Annunciazione, legando così il momento iniziale, lo straordinario concepimento del Figlio di Dio, al culmine finale della sua missione, la vittoria sulla morte. «Come in una musica sinfonica — ha scritto Giulio Carlo Argan — il tema tragico della morte trapassa, con squilli esultanti, in quello della gloria».

Tiziano, l’artista, dalla pittura — e dalla carriera — trionfale, celebrava questo trionfo, dipingendo un Cristo grande e luminoso stagliarsi sul buio di un vasto paesaggio notturno, interrotto soltanto da deboli luci all’orizzonte. La luce è tutta sul corpo di Gesù, fenomeno celeste fatto di carne.

Bisogna considerare che, pur essendo il centro della fede cristiana, per secoli la Risurrezione non è stata direttamente rappresentata. Raramente prima di Giotto. Nei cicli della Passione erano i quadri con le Pie Donne al Sepolcro o il Noli me tangere — l’apparizione di Cristo alla Maddalena — ad alludere al soggetto. In alcuni casi, nella pittura italiana del Trecento e del Quattrocento, e più tardi nell’arte nordeuropea, la Risurrezione di Cristo veniva trattata con grande trasporto devozionale, e il Figlio di Dio appariva volteggiare nell’aria, a volte incorniciato da una mandorla, quasi a sovrapporsi all’immagine dell’Ascensione.

Ma la versione predominante, elaborata nel tardo medioevo e poi adottata nel rinascimento, mostra il Salvatore ben stabile sul terreno, che tiene lo stendardo della Risurrezione, ritto in piedi sul sarcofago aperto, oppure mentre ne esce.

Appaiono spesso i soldati menzionati da Matteo, che dormono oppure si riparano gli occhi dalla luce che irradia dalla figura di Cristo. Pensiamo, ad esempio, al Cristo risorto nella tela del Carracci conservata al Louvre. Che volteggi in aria o abbia i piedi ben saldi sul terreno al momento della Risurrezione, il fatto che Cristo risuscitò dai morti significa che tornò sulla terra, e sulla terra rimase fino all’Ascensione. Per questo gli artisti lo rappresentano con il suo corpo umano.

È con tutta la carne che il Signore della vita fa risorgere i suoi fedeli: il corpo non è carcere insopportabile, ma opera molto buona uscita dalle Sue mani. Tertulliano scriveva che la carne è depositata presso Dio proprio a opera del Cristo risorto, che, come mediatore tra Dio e gli uomini, ha riunito in sè carne e spirito. Non andrà dunque perduto un solo capello del nostro capo. Saremo però trasformati, riceveremo un corpo spirituale, come quello di Gesù risorto. Agostino ricordava nel V secolo come fosse difficile immaginare questo prodigio.

In tutti i tempi i poeti hanno cantato con malinconia l’elegia del tempo che fugge inesorabile. Per il Macbeth shakespeariano, ad esempio, turbato dalla sua tragica solitudine, la vita è un’ombra che cammina senza consistenza, un povero commediante che si pavoneggia, prima di cadere nell’oblio, una favola insensata. Come un contrappunto di speranza, la gioia cristiana per la Risurrezione risuona, per esempio, nelle parole di Cirillo di Gerusalemme, che citava a proposito vari passi delle Scritture: «Esulta, Gerusalemme e rallegratevi voi tutti che amate Gesù: è risorto, infatti. Gioite, voi che eravate tutti in lutto (Isaia, 66, 10). Si muti in gioia il dolore, il pianto in letizia (Salmi, 29, 12); la nostra bocca si riempia di gaudio e di tripudio (Salmi, 70, 8). Esultate (Matteo, 28, 9). Il morto è risorto: libero fra i morti (Salmi, 87, 6) e liberatore dei morti».

La figura del Cristo nella Risurrezione affrescata da Piero della Francesca per Borgo San Sepolcro è perfettamente frontale rispetto a chi guarda. Esprime con lo sguardo fisso e solenne una forza straordinaria. Il Cristo è al centro esatto della composizione, a segnare il passaggio dall’inverno (gli alberi spogli a sinistra) all’estate (gli alberi verdi a destra), e dalla notte (i soldati immersi nel sonno e il sarcofago) alla luce aurorale del giorno, cioè dalla morte alla vita, dal peccato alla salvezza eterna. La Risurrezione giunge con la fresca certezza di un mattino di primavera.

© L'Osservatore Romano 7 agosto 2011