A colloquio con l’arcivescovo Antonio Maria Vegliò alla vigilia
dell’incontro del Pontefice con gli zingari d’Europa
dell’incontro del Pontefice con gli zingari d’Europa
La ricerca di una dignità negata
di Mario Ponzi
Quando, qualche mese fa, il Pontificio Consiglio della Pastorale per i Migranti e gli Itineranti chiese al Papa udienza per un gruppo di zingari europei, in pellegrinaggio a Roma l’11 e il 12 giugno, la stima dei partecipanti era attorno al migliaio di persone, poco più, poco meno. In un comunicato attraverso il quale il dicastero vaticano ne dava notizia, il 3 giugno scorso, si parlava di 1.400 rappresentanti degli zingari europei che sarebbero stati ricevuti dal Pontefice. Giovedì scorso, 9 giugno, la decisione di cambiare il luogo dell’incontro: non più una sala del Palazzo Apostolico ma l’Aula Paolo VI perché «il numero dei partecipanti — si legge in una nota della Prefettura della Casa Pontificia — è salito a duemila con possibilità di ulteriore aumento». Tutto questo per far capire quale sia il fervore che pervade il popolo gitano d’Europa alla vigilia dell’incontro di sabato con Benedetto XVI. «Aumenta di giorno in giorno — ci ha detto l’arcivescovo Antonio Maria Vegliò, presidente del dicastero vaticano in questa intervista al nostro giornale — il numero di quanti chiedono di incontrare il Papa. Manifestano così il loro desiderio di essere ascoltati e di suscitare comprensione. Nel Pontefice vedono la persona capace di dare un nuovo impulso al processo della loro integrazione nella società».
Ancora oggi quando si parla dei gitani se ne parla, se non proprio con disprezzo, sicuramente con diffidenza. A volte lo stesso termine zingaro viene usato in senso dispregiativo. Come si possono superare questi atteggiamenti?
È vero. Sul piano storico e sociologico esiste una costante e cioè la discriminazione e il rifiuto secolari manifestatisi sotto forme diverse, a volte tragiche, nei confronti del popolo gitano. Avvenimenti quali lo schiavismo in Romania, l’olocausto sotto il nazismo e l’epurazione etnica nei Balcani, non hanno colpito tutti i Rom, ma non di meno ne hanno segnato la coscienza collettiva. E il sentimento di emarginazione continua ancora, alimentato da numerose vessazioni. È essenziale osservare che la cultura zingara è nata e si è sviluppata in questo contesto di rifiuto violento e anche di ripiegamento, condizione obbligatoria per la sua sopravvivenza. Tale evoluzione ha creato e mantenuto una distanza e un’incomprensione tra i Rom e la società la quale continua a stigmatizzarli affibbiando loro una «cattiva reputazione», ancor più accentuata dall’evoluzione politica e giuridica degli Stati. È drammatico constatare come taluni comportamenti inadeguati di Rom diventino oggetto di generalizzazioni, che a volte sono alibi che offuscano le esigenze di giustizia e dignità. È importante che tali derive, che sono una negazione dei valori affermati da Cristo, siano rimosse dal nostro approccio alla questione. Tra l’altro negli «Orientamenti per una Pastorale degli Zingari», che il nostro Dicastero ha pubblicato l’8 dicembre 2005, si precisa che il termine «Zingari» si riferisce a vari gruppi etnici. In Europa Occidentale, in alcune zone della Russia, in Asia e in America, è più accettato e, a volte, anche più appropriato, il termine «Zingaro». In Europa Centrale e Orientale è ampiamente usato il termine «Rom» in riferimento a queste popolazioni, in quanto per molti Rom e Sinti il termine «Zingari» ha un senso peggiorativo, perché legato a stereotipi negativi e paternalistici diffusi nei loro confronti.
Cosa manca nelle nostre società perché si possa finalmente realizzare l’integrazione dei gitani ?
Anzitutto manca un autentico spirito di solidarietà, in un contesto di speranza. È nostro desiderio assicurare gli zingari che sono al centro della preoccupazione della Chiesa, in quanto figli dello stesso Padre. In effetti, essi sono spesso relegati ai margini delle società e discriminati, ma continuano a occupare il posto che spetta loro, come disse Paolo VI, «nel cuore della Chiesa». Poi, è importante incoraggiare in modo particolare giovani zingari a un impegno concreto e duraturo per migliorare le condizioni di vita delle loro comunità, e per difendere la propria dignità e i propri diritti. Allo stesso tempo bisogna ricordare loro anche il dovere di assumere tutti gli obblighi che una partecipazione responsabile alla vita sociale, politica ed ecclesiale comporta. In terzo luogo, è necessario che tutte le persone di buona volontà e le comunità ospitanti aprano cammini di fiducia e rispetto, di comprensione e perdono reciproco. Infine, gli Stati dovrebbero adottare normative che veramente tutelino i diritti delle popolazioni zingare e le proteggano dalla discriminazione, dal razzismo e dall’emarginazione. In definitiva, si tratta di rinnovare la raccomandazione del dialogo aperto e costruttivo tra le rappresentanze zingare e le comunità autoctone.
E cosa manca agli zingari perché riescano a proporsi essi stessi come mediatori per trovare le vie del dialogo e della possibile convivenza con le altre culture?
Oggi sono numerose le comunità zingare e i singoli che hanno maturato la consapevolezza di dover e voler svolgere un ruolo di protagonisti nei processi decisionali e politici che riguardano la promozione umana e sociale delle loro etnie. In effetti non è facile poter parlare di un futuro costruttivo degli zingari se questi non saranno coinvolti pienamente nelle politiche che riguardano la loro esistenza. Essi sono convinti che non possono esserci strategie internazionali e nazionali efficaci in questo senso, senza la loro partecipazione nella preparazione e attuazione di queste strategie. Tale consapevolezza si esprime in forme diverse dal passato, più pronte al confronto culturale e politico con la società maggioritaria.
Bisogna dare atto di un maggior impegno per la formazione di mediatori zingari, i quali possano servire da canali di comunicazione tra le proprie comunità, le istituzioni e la popolazione maggioritaria, oppure da sostegno ai propri coetanei nel proseguire una buona preparazione professionale e per sradicare la diffidenza presente nelle loro comunità, come anche pregiudizi negativi persistenti nella gran parte delle nostre società.
La Chiesa ha fatto e continua a fare molto per il mondo gitano. Secondo lei però l’integrazione nella realtà ecclesiale locale, è concreta o si limita all’assistenza?
Certamente la Chiesa è andata oltre una presenza di assistenza caritativa o unicamente «sacramentalista» presso gli zingari e si è aperta a un esplicito riconoscimento della loro dignità e a una affermazione dei loro diritti umani fondamentali. Così facendo, la Chiesa ha contribuito a un movimento più ampio di scoperta e quindi di approccio della problematica. Non possiamo dimenticare che ci sono state prese di posizione significative.
Quale può essere il loro contributo alla missione della Chiesa?
Essi offrono valori positivi propri delle popolazioni zingare, quali l’ospitalità fraterna e generosa, il profondo senso di solidarietà, il forte attaccamento alla fede e alla religiosità degli antenati. Non dobbiamo sottovalutare, poi, il grande lavoro di evangelizzazione e di catechesi che quotidianamente svolgono molte persone impegnate nella pastorale degli zingari, ma soprattutto grazie agli zingari consacrati. Forse non è a tutti noto che sono ormai un centinaio i sacerdoti, diaconi, religiosi e suore di origine zingara.
A livello internazionale la questione degli zingari è affrontata in modo adeguato?
Per poter parlare di un’autentica accoglienza, intesa anche in termini di integrazione e di incontro di culture, a livello nazionale e internazionale, è necessario un grande cambiamento di mentalità, anche in ambito civile. L’accoglienza richiede appunto la considerazione dell’identità e dignità dell’altro, e conseguente impegno per garantirgli una vita dignitosa e il rispetto dei diritti fondamentali. La Comunità internazionale ha fatto notevoli passi. È doveroso riconoscere il ruolo che svolgono in questo senso il Consiglio d’Europa e altri Organismi Internazionali come pure il coinvolgimento degli Stati. Tuttavia, non vi è ancora sufficiente sinergia di strategie e certamente è necessario un migliore utilizzo degli strumenti di cui dispone la comunità internazionale.
(©L'Osservatore Romano 11 giugno 2011)