La Pentecoste nell’innografia di Romano il Melode
Oggi il Paraclito scende
ad abitare in mezzo a noi
di Manuel Nin
La Pentecoste, cinquanta giorni dopo la Pasqua, è una delle feste più antiche del calendario cristiano: già Tertulliano e Origene ne parlano nella prima metà del III secolo. Romano il Melode ha un kontàkion di 18 strofe, che segue quello per l’Ascensione. All’inizio il poeta mette in parallelo la confusione delle lingue e dei popoli a Babele con l’unità e l’unisono dopo il dono dello Spirito Santo: «Quando discese a confondere le lingue, l’Altissimo divise le genti; quando distribuì le lingue di fuoco, convocò tutti all’unità. E noi glorifichiamo a una sola voce il santissimo Spirito».
Le due prime strofe sono un’accorata preghiera a Cristo, che consola e assiste la comunità dei fedeli, come ha promesso dopo la sua ascensione: «Non mi separo da voi. Io sono con voi e nessuno sarà contro di voi». Ed è una preghiera a colui che è sempre presente nella vita dei discepoli: «Non allontanarti dalle anime nostre. Avvicinati a noi, avvicinati tu che sei ovunque!». Asceso in cielo, il Signore resta sempre nelle anime degli apostoli e dei battezzati: «Tu continui ad abbracciare il mondo di quaggiù. Neppure un luogo è privo di te, o Infinito poiché sei tu a sorreggere l’universo riempiendo ogni cosa». Come si canta nel vespro e per tutto l’anno, invocando lo Spirito Santo: «Re celeste, Paraclito, Spirito della verità, tu che ovunque sei e tutto riempi, tesoro dei beni e datore di vita, vieni ed abita in mezzo a noi, purificaci da ogni macchia e salva, o buono, le anime nostre».
Il kontàkion mette poi in rilievo la figura di Pietro: «Tra i discepoli Cefa, come primo nel rango a essi parlò; li fece alzare per la preghiera, e insieme a lui si radunarono come agnelli intorno al pastore». Con un’esortazione che fa pensare a un collegamento con le «preghiere delle genuflessioni» fatte in ginocchio la sera della Pentecoste o dopo la Divina liturgia della festa. Romano vede la preghiera degli apostoli quasi come un documento firmato e sigillato che sale fino a Cristo Signore che, accogliendola, manda sui discepoli lo Spirito Santo.
Il luogo dove si trovano i discepoli riuniti, scosso dal vento tempestoso, è paragonato a una barca nella tempesta, con un accostamento all’episodio della tempesta sedata (Matteo, 8, 23-27): «Vi fu un suono all’improvviso come di vento forte risonante dal cielo, riempì tutta la stanza di fuoco. Gli eletti, perciò, vedendo la stanza scossa come una barca, esclamarono: Signore, fa’ cessare la tempesta e manda il santissimo Spirito». Inoltre Romano sottolinea come le lingue di fuoco mandate dal cielo non bruciano i discepoli, bensì illuminano loro la mente: «Lingue di fuoco li lambirono e andarono a posarsi sulle teste degli eletti, senza bruciare i capelli ma illuminando le menti: le aveva mandate per lavare e purificare il santissimo Spirito». Ed è ancora Pietro che in mezzo ai discepoli prende la parola per spiegare il prodigio: «Fratelli, rispettiamo ciò che vediamo senza porre domande! Nessuno dica: che cosa è questo che vediamo, poiché quello che si sta compiendo supera l’intelligenza e sopravanza la comprensione».
La straordinaria strofa conclusiva è un canto all’annuncio della buona novella: «Celebriamo, fratelli, le lingue dei discepoli perché non con un discorso elegante ma con la potenza divina hanno catturato noi tutti. Hanno preso la croce di lui come canna, hanno usato le parole come filo e hanno catturato il mondo. Hanno avuto il Verbo come amo appuntito, la carne del Signore dell’universo è diventata come un’esca, che non conduce alla morte, ma trae alla vita quelli che tributano venerazione e gloria al santissimo Spirito».
(©L'Osservatore Romano 12 giugno 2011)