I cattolici nella vita pubblica
Un crocifisso a Valencia
di José María Gil Tamayo
Il parlamento della Comunità Valenciana, una delle più importanti e prospere regioni della Spagna, ha inaugurato lo scorso 9 giugno la nuova legislatura e nel solenne atto d’insediamento dei deputati si è verificato un fatto dal profondo significato religioso e politico, che ha scatenato non poche lodi e anche la critica di qualche gruppo minoritario radicale della sinistra: il presidente della nuova camera, Juan Cotino, un politico del Partito popolare dalle note convinzioni cattoliche, ha messo sul tavolo presidenziale del Parlamento, accanto alla Costituzione e alla Bibbia, un crocifisso di sua proprietà che lo ha già accompagnato i tutti gli uffici occupati nel corso della sua carriera politica.
È stato un eloquente e coraggioso gesto pubblico di manifestazione delle proprie convinzioni religiose, che il parlamentare spagnolo ha ritenuto di non dover nascondere al momento di esercitare la sua nuova missione di rappresentanza politica. S’interrompe così, con un gesto eloquente, una falsa tendenza che si sta imponendo nella vita pubblica europea riguardo alla natura del fatto religioso in generale e in particolare di quello cattolico, al quale in pratica viene concesso il certificato di cittadinanza solo nell’ambito privato, in quello dell’intimità e della coscienza, o tutt’al più nello spazio sacro dei templi e di occasionali atti di culto esterni.
Al di fuori di tali circostanze, alcuni potenti e influenti clan ideologici ritengono strana e sospettosa qualsiasi presenza pubblica dei cattolici come tali, quando invece, se si guarda ai numeri, il cattolicesimo è la confessione religiosa maggioritaria in gran parte dell’Europa. Nonostante ciò, alcuni gruppi di non credenti e agnostici, pur essendo al confronto dei credenti una minoranza, non hanno remore nel diffondere e nel vantarsi del loro laicismo che, sostengono, concede loro una sorta di «asepsi», solo a partire dalla quale è possibile trattare la cosa pubblica. Verso i cattolici (che non si noti neanche che lo sono!) non c’è tolleranza in questa nuova «confessionalità» imperante.
L’allarme per questo tipo di contesto è stato ripetutamente lanciato da Benedetto XVI, per esempio rivolgendosi all’ambasciatore di Croazia l’11 aprile scorso: «Alcune voci amareggianti contestano con sorprendente regolarità la realtà delle radici religiose europee. Affermare che l’Europa non ha radici cristiane equivale a pretendere che un uomo possa vivere senza ossigeno e senza cibo. Non bisogna vergognarsi di ricordare e di sostenere la verità rifiutando, se necessario, ciò che è contrario ad essa».
Qualsiasi necessaria affermazione dei segni identitari cattolici nell’ambito sociale, per non parlare di quello politico — che continua a riconoscersi, ed è voluto oggigiorno dagli stessi cattolici, come plurale — suscita in alcuni settori sospetti, diffidenza e la letale accusa di «fondamentalismo». Ciò avviene anche a livello individuale per i cattolici che, grazie ai loro requisiti di professionalità e per meriti propri, svolgono incarichi importanti di servizio pubblico ma non per questo rinunciano a una esplicita pratica cristiana, vissuta con naturalezza.
Nell’ottica del laicismo, molti non capiscono che la legittima autonomia dell’ordine temporale, voluta anche dai cristiani, non può voler dire prescindere dal corretto ordine morale e della natura umana. Ed è qui che è possibile e necessaria la collaborazione con altre proposte che hanno lo stesso obiettivo.
Purtroppo però alcuni ambienti ideologici e politici non sono molto disposti ad accettare che i cattolici abbiano una voce coerente con la loro fede nelle questioni pubbliche, nel disegno della vita sociale e culturale. Fede che, d’altro canto, si voglia o no, è alle origini più feconde della storia e dei segni identitari dell’Europa e ha lasciato le orme del suo cammino attraverso la storia, come non smette di ricordare Benedetto XVI.
Tuttavia, con questa pratica di un laicismo malato, se non si è ottenuta l’emarginazione di Dio, almeno in alcuni ambiti si sta quasi ottenendo che le convinzioni religiose non scendano in strada, o, se lo fanno, che lo facciano in silenzio.
Questo è l’effetto che viene percepito dall’altra parte: lo si può vedere nell’atteggiamento di non pochi cattolici che, condizionati da questo rigore, preferiscono rinchiudersi in una religione così privata e comoda da non osare imporla neanche a se stessi. Altri concepiscono lo svilupparsi della fede solo nell’organizzazione interna della Chiesa e solo lì sembra esserci la sua crescita…: il mondo può attendere, a loro parere.
Ma oggi, forse più che mai, è necessario per i cristiani, soprattutto i laici, supplicare una nuova Pentecoste e vivere, personalmente e comunitariamente, con coerenza responsabile e gioiosa, la fede nella vita sociale e politica, nella famiglia e con gli amici; nella cultura e nell’arte, nel lavoro e nello svago. Vivere una religiosità profonda e allo stesso tempo impegnata per creare un mondo migliore e più giusto; difendere e proporre, specialmente nei temi più dibattuti oggi, la vera dignità dell’essere umano che si chiarisce appieno solo alla luce di Gesù Cristo, il Verbo Incarnato. Si tratta, in definitiva, di essere cattolici anche in pubblico, in strada, del «vai con Dio», come si diceva una volta.
(©L'Osservatore Romano 12 giugno 2011)