Innovazione e creatività
per ripartire con la cultura
di Giulia Galeotti
Perché l’Italia, con la sua storia culturale ricca e antica, è rimasta aggrappata a concezioni obsolete e, soprattutto, è oggi incapace di produrre innovazione culturale? Perché il Paese non riesce a superare la mortifera idea di una cultura come tesoro da contemplare passivamente? Da trent’anni almeno, la situazione è questa. La cultura viene intesa come giacimento di petrolio e le città d’arte come splendide tombe in ossequio a «una concezione totalmente passiva e sterile della fruizione culturale, con una distanza incolmabile tra lo spettatore e l’oggetto».
Così scrivono Christian Caliandro e Pier Luigi Sacco in Italia reloaded. Ripartire con la cultura (Bologna, il Mulino 2011, 146 pagine, euro 13,50), testo ricco di spunti che riesce, nonostante il tetro panorama che descrive, a essere propositivo. Innovazione, creatività e produzione culturale sono, secondo gli autori, gli strumenti in grado di rompere il blocco psicologico che sembra attanagliare l’Italia (anche sul versante economico), potendo diventare i fattori propulsivi della ricostruzione identitaria di un Paese che, proprio grazie alla cultura, può ricaricarsi e ripartire.
Tutela del patrimonio culturale e produzione culturale contemporanea dovrebbero infatti essere considerati strettamente e sempre in parallelo. Già a livello lessicale, invece, il termine salvaguardia rispecchia la mentalità emergenziale che regola ogni aspetto della vita del Paese, dall’economia alla politica al rapporto con la cultura. Una cultura (il che è ancora più grave) che appartiene quasi sempre al passato, il cui modello tipo è quello del visitatore-cliente che non fa cultura, ma che, al massimo, la compra.
La cosa interessante è che gli autori non imputano tanto la crisi persistente in Italia (e il fatto che essa da almeno tre decenni sia ingabbiata in una condizione di amnesia collettiva e di paralisi creativa, oltre che imprenditoriale e organizzativa), a cause finanziarie, logistiche o amministrative. Se sicuramente v’è anche questo, infatti, occorre però scendere più in profondità. Le cause «vanno ricercate nella storia e nella memoria (o nell’assenza di memoria)».
Tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta, l’Italia — come già è accaduto in altre epoche della sua storia — ha scelto la strada della rimozione: rimozione delle criticità, degli errori e delle responsabilità, il che alla fine ha significato rimozione dell’identità. L’Italia, cioè, ha scelto di adagiarsi in una condizione di presente perpetuo, una dimensione che annulla del tutto il passato e il futuro, i rapporti di causa ed effetto e, dunque, inevitabilmente la consapevolezza dei processi storici. «In Italia, il conflitto non può assumere una dimensione lucida, consapevole, critica, proprio perché abbiamo ormai disimparato, come società, a confrontarci in modo maturo con opinioni e interessi diversi dai nostri, proprio perché abbiamo rinunciato a voler fare i conti responsabilmente con la nostra storia».
Un’eccezione è rappresentata (come già scrivemmo mesi fa su questo giornale) dal tentativo di descrivere e comprendere la dolorosa e intricata stagione degli anni Settanta compiuta negli ultimi tempi da parenti di quanti furono uccisi all’epoca. Testi forti, lucidi e mai intrisi di vittimismo che, ponendosi in un’ottica nuova arricchita però dal bisogno di compiere una vera indagine, hanno permesso di riflettere finalmente su quel periodo senza schemi precostituiti.
Il punto è che occorre diffondere una concezione attiva della cultura, una concezione che unisca gli aspetti della produzione a quelli della fruizione. Gli autori ricordano come le grandi opere del passato siano state, a loro volta, arte e cultura contemporanee, il che significa «disturbanti». Non vi può essere, infatti, vera salvaguardia e vera comprensione del patrimonio artistico e culturale, senza una reale e vivace attenzione alla cultura prodotta nella strettissima attualità. Qui davvero il passato insegna. I momenti di grande e alta produzione artistica e culturale in Italia (si pensi al Rinascimento o alla ricostruzione del secondo dopoguerra) non sono stati periodi di idilliaca armonia tra arte e società: sono state piuttosto epoche di enorme crisi e trasformazione a livello politico, economico e sociale, con conflitti drammatici.
La sfera culturale (è un altro tema che il volume analizza in dettaglio) funziona in maniera diversa dagli altri ambiti, e non è possibile applicare meccanicamente ad essa le forme di ragionamento economico più strumentali. Bisogna invece concentrare l’attenzione sulle modalità con cui la cultura genera valore economico e sociale, attivando processi identitari. Un processo identitario che alla Penisola manca del tutto: stando almeno alle infinite riflessioni compiute dalle voci più varie in occasione del centocinquantesimo dell’Unità, è questa la vera lacuna dell’Italia.
Peccato solo quella parola inglese nel titolo, Italia Reloaded. Se da tempo andiamo criticando la scelta di sostituire termini della nostra lingua con i loro corrispettivi stranieri (e non sempre azzeccati, v’è da aggiungere), in questo caso poi la colpa ci sembra maggiore. L’anglismo imperante, infatti, è la vuota patina di cui una certa cultura (o presunta tale) della Penisola si ammanta per dimostrare la sua vivacità, la sua capacità di creare stando al passo con il tempi.
(©L'Osservatore Romano 6-7 giugno 2011)