Non confiniamo
la religione nel privato
di Oddone Camerana
Ci sono diversi modi di intendere la religione. Uno di questi è di considerarla un rifugio, un rimedio, una zattera a cui aggrapparsi per salvarsi da un naufragio psicologico, una cura a cui affidarsi a seguito di una sconfitta, un approdo a cui consegnare le membra stanche o logore di una coscienza, una forma di benefica sottomissione capace di ricambiare gli adepti con balsami ristoratori. In questi casi, e in altri simili, quello che emerge è l’aspetto individuale e personalistico della religione, una realtà certo diffusa e preziosa, ma parziale rispetto al quadro completo. Una realtà tardiva, inoltre, stratificata dall’uso, maturata con l’aiuto del tempo, levigata dall’esperienza e soprattutto successiva alla forma primordiale e fondativa della religione stessa.
È a quest’ultimo aspetto costruttivo e istitutivo della religione che Emile Durkheim ha dedicato uno dei suoi testi basilari la cui lettura o rilettura è sempre proponibile o riproponibile. Parlo di un libro del lontano 1912, Les formes élémentaires de la vie religieuse, scritto quando la sociologia era ai suoi esordi, quanto meno per ciò che riguarda l’attenzione alla religione. Fonti del mirabile affresco composto dall’autore francese sono le osservazioni e le relazioni degli studiosi, degli etnologi e degli antropologi suoi contemporanei o che lo hanno preceduto di poco, compiute sul totemismo ancora vivo e presente, nelle sue forme primordiali, in terre non ancora occidentalizzate, in particolare l’Australia.
Così come lo conosciamo o lo si conosceva in Occidente il totem è una bandiera, un simbolo, un simulacro e il totemismo è un modello di organizzazione sociale. Simbolo e organizzazione nei quali quelli che poco prima erano dei gruppi di sbandati hanno incominciato poco alla volta a riconoscersi come comunità o tribù. Se oggi possiamo parlare di civiltà, di istituzioni, di leggi, di governi, di tradizioni e di cultura, è alla religione e alla sua capacità di unire e di motivare quanto era disunito e smarrito, che dobbiamo risalire e a cui dire grazie. Privi di un istinto autosufficiente come quello di cui sono dotati gli animali, è a un qualcosa che ci mancava a cui dobbiamo rifarci per dirci diversi dagli animali stessi — con i quali ci ritenevamo per altro mescolati come dimostrano gli stessi simboli totemici.
E questo qualcosa è la religione.
Ciò che, infatti, fa di un insieme, di un numero e di un’entità quantitativa vivente una collettività, un’organizzazione, un’unione motivata, dotata di energia e di forza è la religione. Quando si parla di mana, di coscienza, di spirito di corpo e di sacrificio è alla religione che si deve pensare. Le idee di sacro, di anima e di divino non si spiegano se non sociologicamente. Si fa presto oggi a nominare il partito, la politica, la nazione, la musica, la salute, la scienza e il calcio stesso in termini di potenze, singole o mescolate insieme, aggregative. Senza la nozione di religione come dinamo, come acceleratore, come energetico, nozione rifondata ogni volta dal rito e dai culti, senza il sentimento del religioso, non ci sarebbe vita. Ciò che fa della religione quell’edificio di cui spesso dimentichiamo il profilo è la sua dimensione sociale, collettiva, unitaria. Ed è per tutte queste ragioni che Durkheim afferma che la religione nasce in foro esterno.
Se dunque è nel clan, nella tribù primordiale e totemica, nel sociale e nel comunitario poi che la religione trova il suo fermento più attivo, se è nella dimensione comunitaria che ha origine il sentimento religioso dell’umanità, se il sacro non può vivere che nella coscienza collettiva, è comprensibile che l’aspetto individuale e personalistico della religione possa essere considerato una risorsa fragile e devitalizzata.
A offrire un’indicazione in questo senso è un altro testo contemporaneo con quello di Durkheim, ma di tutt’altra natura. Mi riferisco al Tramonto dell’Occidente di Oswald Spengler uscito tra il 1918 e il 1922, e in particolare alle pagine del filosofo tedesco sulla denatalità dovuta alla perdita della voglia di vivere dell’uomo occidentale come essere collettivo, perdita mal sostituita dal desiderio di vivere solo in quanto individuo.
Con quale sentimento religioso? Ci si chiede subito. Non certo con la fede indebolita che abbiamo appena descritto, insufficiente, in quanto personale, a difenderlo dalla paura della morte e dell’invecchiamento. Non solo, ma anche dai sentimenti che deprimono l’uomo spengleriano: la fine di un ciclo, l’eclissi del senso del destino, l’impoverimento della base cosmica, la visione di un’umanità al tramonto. Quanto al mai sopito bisogno di assoluto, non trovando soddisfazione, cerca rimedio nell’eugenetica dei popoli, nei biologismi e nelle forme di razza dell’anima che sono alle nostre spalle. Senza tuttavia dimenticare tra le cure sopravvenute il ruolo guida assunto nel frattempo dallo sviluppo dello spirito scientifico nelle sue forme più spinte. Va infatti tenuto conto che, da quando ha imboccato la via di voler creare la vita, la scienza non è più la scienza che conoscevamo, ma una nuova pseudoreligione, specialmente in alcuni casi e in alcune mani.
(©L'Osservatore Romano 16 giugno 2011)