mercoledì 13 luglio 2011

Dalla lettura del libro-intervista di Benedetto XVI e della sua riflessione su Gesù di Nazaret emerge chiara la strada verso un nuovo umanesimo. Domande e risposte che non si chiudono mai (Enrico dal Covolo)



Dalla lettura del libro-intervista di Benedetto XVI e della sua riflessione su Gesù di Nazaret
emerge chiara la strada verso un nuovo umanesimo

Domande e risposte
che non si chiudono mai

Si tratta di dilatare la ragione e di andare oltre la dimensione empirica
per arrivare a un approccio più fecondo nel rapporto con la fede


di Enrico dal Covolo

Domanda e risposta. È un metodo sempre in auge nella tradizione della Chiesa, dalle sue origini fino a oggi (dal Pastore di Erma fino al Compendio del Catechismo della Chiesa Cattolica) ed è la via dei maestri migliori. È quello stesso metodo che Gesù, sulla via di Emmaus, ha scelto fin dall’inizio, avviando con i due discepoli «disperati » una vera e propria lectio divina. Questo metodo segue Luce del mondo. Il Papa, la Chiesa e i segni dei tempi, il libro che raccoglie una lunga e articolata conversazione-intervista di Benedetto XVI con il giornalista bavarese Peter Seewald (Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2010, pagine 288, euro 19,50).

Quello della domanda e risposta è un «metodo riflessivo», che nell’ascolto dell’altro promuove e conduce passo passo il dialogo tra la fede e la ragione davanti alla crisi della modernità. Fra l’altro, l’antico metodo della quaestio e della responsio è per sua natura euristico. Non chiude definitivamente le questioni, pur impegnando il «docente» a dare il meglio di sé, con la massima autorevolezza, e il Papa lo fa, preoccupandosi spesso di concludere le sue risposte con una rapida sintesi didascalica, per farsi capire meglio.

D’altra parte, però, questo stesso metodo impegna lo «studente», cioè il lettore, ad andare oltre, a non chiudere troppo frettolosamente le questioni affrontate.

Il riferimento alla lectio divina consente di entrare attraverso questa porta nei contenuti dottrinali del volume, a partire da una questione che sta nel cuore del Papa Benedetto. È la questione dell’interpretazione delle Scritture, che, con l’originale risposta elaborata da Joseph Ratzinger, soggiace di fatto a ogni pagina del libro, anche se viene affrontata esplicitamente solo nel capitolo 17 (Gesù Cristo ritorna, soprattutto dalla p. 233).

Era proprio questo il tema centrale dell’Assemblea del Sinodo dei Vescovi, riunita a Roma nell’ottobre del 2008, e culminata nella promulgazione dell’Esortazione apostolica Verbum Domini (11 novembre 2010).

Ma già la pubblicazione del primo tomo del Gesù di Nazaret (2007) aveva segnato una tappa decisiva nell’itinerario dell’«unità tra esegesi e teologia». La proposta originale del libro del Papa, in effetti, consisteva nell’integrare il metodo storico-critico — benemerito, indispensabile, ma in se stesso insufficiente — con alcuni criteri nuovi, maturati soprattutto negli ultimi due decenni in vari ambienti cattolici della ricerca teologico-biblica.

I «criteri nuovi» individuati dal Papa erano soprattutto questi: una fiducia sostanziale nell’attendibilità storica del dato neotestamentario, contro il sospetto metodico; una robusta rivendicazione dell’unità e della continuità tra l’Antico e il Nuovo Testamento; un’ermeneutica più ecclesiale, docile alla tradizione viva della Chiesa e al magistero dei suoi Padri, considerati come i primi interpreti della Scrittura; una più viva attenzione alla cosiddetta analogia fidei, cioè alle consonanze interne e alle corrispondenze reciproche dei vari dati della fede.

Nessun brano delle Scritture può essere interpretato correttamente quando si prescinde dal suo contesto vitale, che è stabilito dalla fede della Chiesa, la fede in Gesù Cristo, unico Salvatore del mondo.

Questo metodo nuovo — che il Papa stesso definiva «esegesi canonica» — gli ha consentito, in ultima analisi, di presentare il Gesù dei Vangeli come il Gesù reale, come il «Gesù storico ». Così non c’è più alcuna divaricazione tra Gesù di Nazaret e il Cristo della fede: c’è un solo, realissimo Gesù Cristo, che è il Figlio di Dio incarnato per la nostra salvezza.

La tappa successiva, e al momento insuperata, nel medesimo itinerario di «unità tra esegesi e teologia» è costituita dall’intervento del Papa alla Congregazione Generale del 14 ottobre 2008, durante il Sinodo dei Vescovi. A ben guardare, tale intervento di Benedetto XVI ha introdotto un importante elemento di novità, rispetto al Gesù di Nazaret. Qui, infatti, il Papa assume i «criteri nuovi» dell’«esegesi canonica» per fondare e raccomandare una vera e propria «esegesi teologica».

In maniera coerente, il Papa va al nocciolo del problema, quando aggiunge: «Solo dove i due livelli metodologici, quello storico-critico e quello teologico, sono osservati, si può parlare di un’esegesi teologica, di un’esegesi adeguata a questo Libro. Mentre al primo livello l’attuale esegesi accademica lavora a un altissimo livello e ci dona realmente aiuto, la stessa cosa non si può dire circa l’altro livello. E questo ha conseguenze piuttosto gravi».

La conseguenza più grave è senza dubbio la divaricazione tra la cosiddetta «esegesi scientifica», o «accademica » — spesso unilateralmente devota al metodo storico-critico — e la lectio divina, basata sull’«esegesi spirituale », o «allegorica», dei nostri Padri.

A sua volta, questa divaricazione trova le sue profonde radici nell’ormai millenaria, reciproca indifferenza tra la cosiddetta «teologia razionale», fondata sull’esigenza di chi pretende di capire tutto con le proprie forze, e la «teologia monastica», la «teologia in ginocchio», per la quale la vera conoscenza di Dio passa attraverso l’esperienza contemplativa del suo amore. Si tratta, in definitiva, di approdare dal biblicismo al realismo della fede. Potremmo riferirci, a questo proposito, a un passaggio illuminante della seconda enciclica del Papa, Spe salvi, là dove Benedetto XVI ribadisce che «non è la scienza che redime l’uomo. L’uomo viene redento mediante l’amore» (n. 26).

Detto in altri termini, non sono le parole che salvano. Ciò che salva è quell’unica Parola d’Amore che è Gesù Cristo, Figlio di Dio. «Se esiste — come di fatto esiste — l’Amore assoluto con la sua certezza assoluta, allora, soltanto allora, l’uomo è “redento”, qualunque cosa gli accada».

Ritorna l’istanza, assolutamente prioritaria, di «non anteporre nulla all’amore di Cristo».

È in questi termini che — per tornare al nostro libro-intervista — va impostata la questione di Dio oggi. «Non si tratta di un Dio che in qualche modo esiste, ma di un Dio che ci conosce, che ci parla e che ci riguarda», e — aggiunge il Papa con una nota ulteriore di realismo escatologico, che verrà ripresa e approfondita nell’ultimo capitolo del libro — un Dio «che poi è anche nostro giudice» (p. 78). Affinché la persona afferri questo — e affrontiamo così una terza idea portante del Magistero di Benedetto, che ricorre di continuo nel libro-intervista — bisogna che la ragione, per essere vera, cioè autentico lògos, non si ripieghi su se stessa.

Questo ripiegamento, infatti, è la negazione dell’ascolto dell’altro, ed è la tentazione fondamentale del Maligno: è la tentazione dell’uomo che «si attorciglia», avvitandosi su se stesso. È il peccato dell’origine.

La ragione, invece, deve aprirsi, dilatarsi nella direzione della fede e dell’amore (agàpe, caritas): solo così essa può incrociare (dià) la strada della Verità. Questo dià-lògos inesausto tra ragione e amore è precisamente la via della Verità (cfr. Caritas in veritate, nn. 3-4). Proprio di questo dià-lògos tutti i credenti — e in modo particolare quelli più impegnati nella promozione della cultura e della scienza — sono chiamati a farsi testimoni e interlocutori privilegiati. Così la testimonianza della loro vita, rinnovata dall’incontro con Gesù Cristo, potrà condurre la cultura a una nuova sintesi umanistica. «Si tratta», in effetti, «di dilatare la ragione», scrive il Papa nella sua ultima enciclica, «e di renderla capace di conoscere e di orientare le imponenti dinamiche del mondo globalizzato», «animandole nella prospettiva di quella “civiltà dell’amore”, il cui seme Dio ha posto in ogni popolo», in ogni cultura (cfr. Caritas in Veritate, n. 33).

Stando a un tema ricorrente nelle catechesi patristiche di Benedetto XVI, già i Padri della Chiesa — cioè i nostri primi maestri nella fede, dopo gli scritti del Nuovo Testamento — hanno robustamente ampliato la ragione: hanno «ampliato» il lògos dei greci, di illustre marca platonica, per esprimere così il Lògos della predicazione cristiana, la seconda Persona della Trinità beata, il Figlio di Dio divenuto carne nel grembo di Maria, l’unico Salvatore del mondo.

Allo stesso modo oggi il concetto di ragione deve essere «ampliato», perché sia in grado di esplorare e di comprendere quegli aspetti della realtà che vanno oltre la dimensione meramente empirica. Ciò permetterà un approccio più fecondo e complementare al rapporto tra fede e ragione.

A ben guardare, capita qui, nel caso del rapporto tra fede e ragione, qualche cosa di simile a ciò che il Papa stesso insegna in Deus caritas est riguardo alle relazioni tra èros e agàpe: «Quanto più ambedue, pur in dimensioni diverse — scrive il Papa nel n. 7 della sua prima enciclica — trovano la giusta unità nell’unica realtà dell’amore, tanto più si realizza la vera natura dell’amore in genere».

© L'Osservatore Romano 13 luglio 2011