San Benedetto gettò i semi per una trasformazione sociale e culturale
Così il monachesimo costruì l’Europa
di Timothy Verdon
Normalmente le grandi chiese — le basiliche romane, le cattedrali diocesane e i più importanti santuari — sono espressioni universali della vita del popolo di Dio, accessibili a tutti. Ma il cristianesimo ha valorizzato anche forme di vita religiosa a cui non tutti sono chiamati, sapendo che «abbiamo doni diversi secondo la grazia data a ciascuno di noi» (Romani, 12, 6). Così dal III-IV secolo è stata accolta la volontà di alcuni di condurre una vita cristiana più austera, in ideale prolungamento dell’era eroica dei martiri, chiusasi con l’Editto di Milano del 312. Prima in Egitto, poi in Italia e nel sud della Francia, singoli eremiti, gruppi di eremiti e comunità unite intorno a un padre spirituale, definirono man mano lo stile di un’esistenza focalizzata unicamente su Dio, le cui componenti principali erano la preghiera, lo studio e il lavoro agricolo o artigianale.
Nasce il monachesimo cristiano e con esso un nuovo tipo di architettura ecclesiastica, il monastero, composto di una chiesa, di abitazioni per i monaci, e di ambienti funzionali alla vita comunitaria. E negli stessi secoli in cui le città dell’antico impero si spopolano per l’avanzata di popolazioni nomadi provenienti dall’Europa settentrionale e dalla Persia, nel deserto vengono fondate vere e proprie cittadelle monastiche: centri non solo spirituali ma anche intellettuali e artistici che conservavano ed elaboravano in senso cristiano quanto era rimasto della cultura classica.
Di fondamentale importanza in questo processo fu il contributo dell’Italia, dove vide la luce intorno al 480 l’uomo che la Chiesa considera il patrono d’Europa, san Benedetto da Norcia. Autore della Regula monachorum — che nel primo medioevo, era il più diffuso codice di comportamenti religiosi dopo il Vangelo — Benedetto non solo fondò numerosi monasteri, ma gettò le fondamenta di un sistema sociale e culturale destinato a plasmare l’identità cristiana di intere popolazioni, soprattutto nelle campagne. Mentre infatti nelle città del IV-V secolo esistevano già comunità cristiane stabili, con una storia alle spalle e un senso della propria dignità, la conversione delle zone rurali era ancora incompleta duecento anni dopo.
Per capire il ruolo del monachesimo nella penisola, è importante cogliere le condizioni dell’Italia cristiana all’epoca di Benedetto e nei secoli successivi. Le devastazioni della guerra tra due popoli invasori, i bizantini e i goti (540-568), nonché la violenza degli invasori longobardi (568-650) e le depredazioni saracene lungo le coste meridionali e occidentali (IX-X secolo), lasciarono la memoria ma non più la realtà dell’Italia romana. Cambiò perfino la secolare rete viaria: scendendo dal nord per i valichi appenninici, i longobardi crearono nuove direttrici legate ai loro centri di potere in Lombardia. Le nuove vie longobarde permettevano ai messi reali di muoversi senza sconfinare nel vasto territorio a est controllato dai bizantini.
Al servizio della nuova rete viaria, i re longobardi fondarono monasteri lungo i nuovi percorsi tracciati per l’esercito e per i messaggeri reali, completando così il lavoro dei vescovi locali che, dal V al vi secolo avevano creato sistemi di chiese e collegiate rurali dotate di patrimoni terrieri. Dopo la conversione alla fede cattolica della regina Teodolinda nel VII secolo, la nuova rete viaria si orientò verso Roma, e venne a formarsi il nucleo di ciò che in seguito verrà chiamata la Via Romea o Francigena, che nei suoi molteplici percorsi costituirà la strada maestra di principi, mercanti e pellegrini tra il X e il XIV secolo.
Lungo tutto il percorso, annessi ad abbazie «regie» o autonome, nacquero xenodochia e «spedali» che favorirono la ripresa di scambi culturali e commerciali. I diari di viaggio dell’arcivescovo di Canterbury Sigerico, dell’abate islandese Nikulas di Munkathvera, del re Filippo Augusto di Francia fanno intuire i motivi per cui, ad esempio, troviamo riflessi d’architettura borgognona in Lombardia e Toscana, tedesca a Molfetta, pisana a Siponto e Troia.
La conquista del regno longobardo da Carlomagno, sigillata con la presa di Pavia nel 773-74, rafforzerà l’orientamento monastico dello sviluppo religioso nei secoli IX-XII, nell’Italia settentrionale e centrale come in tutto l’impero affidato al re dei Franchi da Papa Leone III nell’anno 800. Prescindendo dall’attribuzione a Carlo Magno in persona di numerose abbazie, rimane vero che l’organizzazione amministrativa del Sacro Romano Impero favoriva l’espansione della rete monastica: i carolingi e, dopo di loro, gli ottoniani si servirono dei monaci nell’estendere il nascente sistema feudale su cui poggiava il loro potere.
Soprattutto con la diffusione di un’unica «regola» monastica, l’influsso dei monaci sulla vita spirituale d’Europa si fece determinante. L’equilibrio benedettino tra preghiera e lavoro venne comunicato ai feudatari imperiali con terre confinanti e ai contadini; in Italia, il silenzio e la laboriosità della vita rurale ne echeggiava lo spirito fino all’inizio del XX secolo.
L’indole comunitaria del monachesimo benedettino ha poi favorito lo sviluppo di precise caratteristiche umane e sociali nella popolazione. L’aiuto fraterno, l’ospitalità ai viaggiatori, l’attenzione ai poveri di ogni tipo, sono tra gli elementi della Regola di san Benedetto che in Italia come altrove si tradussero anche in cultura popolare.
In modo analogo, i laboratoria monastici gettarono le basi di quella «rivoluzione industriale» che, insieme all’embrionale attività bancaria, dal secolo XIII in poi farà di alcune città lombarde e toscane centri propulsori di vita economica e culturale al livello europeo.
Nei secoli intorno al Mille predominava l’influsso dei monasteri, che in alcuni casi erano, di fatto, delle vere e proprie città. L’abate islandese Niklaus, scendendo la penisola verso 1154, descrive «Montakassìn» (Montecassino) come «un grande monastero con una fortificazione tutt’intorno, e, all’interno, dieci chiese»: era l’abbazia ricostruita tra il 1066-1071 dall’abate, Desiderio, figura di singolare peso ecclesiale e politico all’epoca. Dal 1059 cardinale e vicario pontificio presso i monasteri dell’Italia meridionale, Desiderio infatti lavorò per riconciliare i Papi con l’imperatore Enrico IV (umiliato da Gregorio VII a Canossa nel 1077), arruolando a questo scopo principi normanni quale Roberto Guiscardo, duca d’Apulia, con cui godeva di buoni rapporti. Ma il suo vero obiettivo rimase la riforma della Chiesa promossa sin dall’inizio del secolo da santi monaci quali Giovanni Gualberto e Pietro Damiani nonché dai Papi Vittore II (1055-1057), Stefano IX (1057-1058), Niccolò II (1058-1061), Alessandro II (1061-1073) e Gregorio VII (1073-1085).
© L'Osservatore Romano 12 luglio 2011