venerdì 8 luglio 2011

Verso il Congresso eucaristico nazionale italiano "La frazione del pane e la libertà di Gesù" (Inos Biffi)



Verso il Congresso eucaristico nazionale italiano

La frazione del pane
e la libertà di Gesù


di Inos Biffi

Ci sono tre luoghi a cui riportarci o tre momenti da evocare per comprendere l’Eucaristia: l’Ultima Cena, quando essa è istituita e iniziata; il Calvario, dove viene avverata; la Chiesa, in cui si trova celebrata. L’Eucaristia non proviene dalla Chiesa, da una propria risoluzione o da un proprio impulso. Essa nasce, in modo assolutamente originale, dall’iniziativa inattesa e inattendibile, di Gesù Cristo nell’Ultima Cena. La Chiesa la riceve da lui e la celebra in obbedienza e fedeltà al suo comando di rinnovare il gesto da lui stesso iniziato e compiuto.

Rendendo grazie, Gesù aveva «spezzato il pane» e lo aveva distribuito ai suoi commensali come suo «Corpo dato» per loro, perché ne mangiassero; e aveva fatto passare tra loro il calice del suo «Sangue»: Sangue suggello dell’alleanza nuova, quella scritta nei cuori, effuso per la moltitudine a remissione dei peccati (Matteo, 26, 26-28; Luca, 22, 19-20; 1 Corinzi, 11, 26).

È esattamente questo gesto e questo convito che i discepoli ricevono il mandato di rinnovare in memoria di lui: «Fate questo come memoriale di me» (1 Corinzi, 11, 24-25; Luca, 22, 19). In quella Pasqua sommamente desiderata e consumata prima della passione Gesù crea la realtà della Pasqua nuova, e ne istituisce il rito, e così quella ebraica tramontava. All’agnello, che evocava l’esodo ebraico, egli sostituisce definitivamente se stesso, quale Agnello vero. Ora è lui l’«Agnello ucciso» (Apocalisse, 5, 12). Mentre, a convalida dell’alleanza nuova, invece del sangue delle vittime che nel deserto del Sinai aveva sigillato quella antica (Esodo, 24, 4-8), pone ormai il proprio Sangue, a vantaggio della moltitudine, in tale modo avverando e portando a compimento la figura del Servo di Jahveh (Isaia, 42, 6; 49, 6; 53, 12; Ebrei, 8,8; 9, 15; 12, 24). Com’è detto da Paolo: ora la «nostra Pasqua» è «il Cristo immolato» (1 Corinzi, 5, 7). Nell’Eucaristia, quindi, attraverso il pane e il vino, Gesù già porge la sua suprema donazione: quei segni appaiono la profezia reale della croce; in essi gli Apostoli ricevono la sua immolazione del Calvario.

E, infatti, il Corpo che Cristo, la vigilia della sua morte, consegna agli apostoli, spezzando il pane, è il suo Corpo «dato», o il suo essere condizione dell’offerta piena e illimitata di se stesso. Mentre il Sangue, che essi attingono nel calice del vino, è il Sangue «versato» — o la sua vita effusa — nel sacrificio. Mangiando il pane e bevendo al calice dell’Ultima Cena, gli apostoli misteriosamente già assumono la morte imminente del Signore, che nell’Eucaristia viene da lui lasciata alla sua Chiesa.

E, dopo che quella morte sacrificale sarà consumata, riferendosi alla «mensa del Signore» (1 Corinzi, 10, 21), Paolo definirà «il calice della benedizione» «comunione con il sangue di Cristo», e il «pane spezzato» «comunione con il corpo di Cristo» — Corpo e Sangue del Crocifisso — e affermerà che ogni volta che si mangia «di quel pane» e si beve di «quel calice» viene proclamata la morte del Signore (1 Corinzi, 11, 26). L’Eucaristia appare, così, tutta relativa al sacrificio della croce: nell’Ultima Cena al sacrificio che sta per compiersi; e, successivamente, al sacrificio che s’è compiuto.

Ecco perché, se vogliamo comprendere l’Eucaristia, dopo il luogo e il momento dell’Ultima Cena, dobbiamo passare al suo secondo luogo e al suo secondo momento: quello del Calvario. Appare, tuttavia, subito, proprio per questa relazione dell’Eucaristia col sacrificio della croce, che solo Gesù Cristo la poteva istituire. Lui solo poteva rendere disponibili il suo «corpo dato» e il suo «sangue sparso». Nessuno aveva potere sulla sua vita: «Io offro la mia vita (...) Nessuno me la toglie, ma la offro da me stesso» (Giovanni, 10, 18-18). L’Eucaristia è tutta sospesa alla sorprendente decisione di Gesù di autodonarsi illimitatamente, senza che alcuna costrizione o alcuna ragione a lui estrinseca ve lo inducesse.

Scrive san Tommaso, al quale dobbiamo la teologia più acuta e tuttora valida sul sacramento eucaristico: «In modo particolare, era di pertinenza di Cristo l’istituzione diretta e personale del sacramento eucaristico, dal momento che in esso viene offerto il suo corpo e il suo sangue, secondo quanto è detto in Giovanni, 6, 52: “Il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo” (Super Primam Epistolam ad Corinthios Lectura)».

L’Eucaristia è, dunque, assolutamente «originale». Nessuna analisi sulla natura umana, nessuna considerazione di carattere antropologico o sociologico sulla convivialità, e nessuna analogia rispetto alla religiosità e alla ritualità dell’uomo, riescono a mostrare la necessità e neppure la plausibilità dell’Eucaristia. Essa è inimmaginabile o «inattendibile» e «improbabile», così com’è inimmaginabile e «inattendibile» e «improbabile» il Figlio di Dio crocifisso e risorto.

Ossia: come l’incarnazione e la passione gloriosa, anche la «frazione del pane» nasce dalla libertà del «Signore», come spontanea tradizione del suo amore «immotivato»: «In questo — è detto nella prima Lettera di Giovanni — sta l’amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione» (1 Giovanni, 4, 10), mentre Paolo esclamerà: «Mi ha amato e ha consegnato se stesso per me» (Galati, 2, 20).

L’istituzione dell’Eucaristia può essere unicamente opera di Cristo, non solo perché egli ha dato inizio storicamente al suo rito, ma anche, e più profondamente, perché essa è sempre il suo corpo e il suo sangue elargiti dalla sua singolare determinazione di «affidarsi» alla Chiesa e, tramite la Chiesa, a tutti gli uomini. Il suo corpo e il suo sangue potranno sempre essere solo ricevuti dalla sua elargizione in atto in ogni Eucaristia. Essi non risulteranno mai da una forza d’inerzia, sia pure avviata dal gesto storico di Cristo, ma presenteranno ogni volta la novità e la freschezza che ebbero nel dono della prima Eucaristia all’Ultima Cena. Ogni Eucaristia radicalmente predica la volontà di Gesù Cristo nel suo dono di sé.

Ecco perché in tutte le messe Gesù Cristo è il celebrante principale. Sant’Ambrogio affermava: «È Cristo stesso a compiere l’offerta in noi: lui stesso che sta presso il Padre (Explanatio Psalmorum XXXVIII, 25)». E ancora Tommaso d’Aquino: «Pur essendo il sacerdote a consacrare, è tuttavia Cristo in persona che conferisce vigore al sacramento, dal momento che anche il sacerdote consacra a nome e in rappresentanza di Cristo (Super Evangelium S. Ioannis Lectura, n. 961)».

Lo stesso Angelico insiste sul valore delle parole della consacrazione per affermare che in ogni celebrazione eucaristica è la potenza o la volontà o la grazia di Cristo a specificare e a trasformare il pane e il vino da lui offerti agli apostoli, identificandoli come il suo corpo e il suo sangue. Senza le parole efficaci di Cristo, e che lui solo poteva pronunziare, i convitati all’Ultima Cena non avrebbero ricevuto il suo corpo e il suo sangue, ma solo mangiato il pane spezzato e bevuto alla coppa del vino, come ogni ebreo che celebrava la Pasqua.

Egli scrive nella sua luminosa dottrina eucaristica: «Chiunque sia il sacerdote che pronunzia queste parole», «è come se le pronunziasse Cristo presente (Summa Theologiae, III, 78, 5, c)», dal quale scaturisce la loro «forza operativa (ibidem)».

Era già il pensiero di Ambrogio, che diceva ai suoi neofiti: «Vedi dunque quanto è efficace la parola di Cristo (De sacramentis, iv, 4, 15)».

In accordo, poi, con lo stesso vescovo di Milano sempre Tommaso spiegava: come la Parola di Dio ha operato nella creazione, così la stessa Parola sacramentalmente «opera nella consacrazione (Summa Theologiae, III, 28, 2, 2m)». La transustanziazione, con cui, nel permanere della loro realtà fisica, il pane e il vino sono mutati nell’identità del corpo e del sangue del Signore, appartiene ai mirabilia Dei: agli interventi «miracolosi», di cui è compaginata la storia della salvezza.

Questo non significa allora — come invece si va superficialmente ripetendo — attribuire un valore magico a queste parole in se stesse. Tali parole sono efficaci per il fatto che fu il Signore a pronunziarle all’inizio, e che ora, nella sembianza sacramentale, il ministro le proferisce in rappresentanza della persona di Cristo.

Secondo l’annotazione di Tommaso d’Aquino: nella consacrazione si dice: «mio corpo», indicando immediatamente la persona che parla; in realtà con questa espressione «ci si riferisce alla persona di Cristo, in nome del quale tali parole sono articolate (ibidem, III, 78, 1, 1m)». Né si tratta di porre in alternativa le parole di Cristo sacramentalmente in atto nella consacrazione e l’azione dello Spirito Santo. La loro efficacia è congiunta e cospirante: l’intera opera di Cristo e quindi anche le sue parole avvengono in virtù dello Spirito, che è tutto relativo al Signore, e che, secondo la promessa, prende del suo (cfr. Giovanni, 16, 15).

I ministri della Chiesa non hanno una loro capacità personale, una loro virtus; non è di loro pertinenza purificare dai peccati e conferire la grazia. «Questo lo compie Cristo», in forza del suo potere, a prescindere dai sacerdoti, personalmente santi o personalmente indegni. Anche questi ultimi non impediscono la comunione con la Chiesa e la configurazione a Cristo. Dichiara l’Angelico: i sacramenti sono, per loro natura, destinati a rendere conformi non al ministro ma al Signore (Summa Theologiae, III, 64, 5-6). Ambrogio insegnava: «La funzione del vescovo è un dono dello Spirito Santo (De paenitentia, i, 8)».

D’altronde, ogni altro genere di azione nel sacramento — come quella di chi lo celebra o lo riceve — è segnata dal carattere della ministerialità dipendente: «Opera soltanto nella modalità del ministero (Summa Theologiae, III, 64, 1, 3m)» — afferma ancora Tommaso d’Aquino — senza una propria signoria.

Gli apostoli e i loro successori «sono vicari di Dio (ibidem, 64, 2, 3m)», ai quali, come non è dato di istituire un’altra Chiesa o di trasmettere un’altra fede, così non è concesso di istituire altri sacramenti: «La Chiesa di Cristo viene edificata dai sacramenti sgorgati dal costato di Cristo appeso alla croce (ibidem, III, 64, 2, 3m)».

Ma occorre, ora, riportarci al secondo luogo e al secondo momento per l’intelligenza dell’Eucaristia, quello del sacrificio della croce, al quale essa è totalmente riferita. Solo così è possibile rendersi conto pienamente di che cosa Gesù nell’Ultima Cena abbia lasciato alla sua Chiesa.

In altre parole, si possono capire il contenuto e la ragione dell’Eucaristia, se si ricerca quale sia, secondo il disegno divino, il contenuto e la ragione del «corpo dato» e del «sangue versato», cioè il contenuto e la ragione della morte del Signore sul Calvario.

© L'Osservatore Romano 8 luglio 2011