I sette secoli della «Maestà» di Duccio di Buoninsegna
L’umano che contiene il divino
di Anonio Buoncristiani
Arcivescovo di Siena - Colle di Val d’Elsa – Montalcino
È con giusto orgoglio e sincera commozione che nel pomeriggio del 9 giugno, a distanza di settecento anni, la città di Siena ha fatto memoria di quando il vescovo Ruggero da Casole, insieme a tutte le autorità cittadine, al clero e all’intero popolo, volle trasportare solennemente, dalla bottega di Duccio in Duomo, la Maestà , cioè la rappresentazione artistica della Regina del Cielo, la Vergine Madre che Siena «e il suo antico Stato» considerava sua Signora e protettrice. Era questo un legame indissolubile sancito dalla vittoria di Montaperti (1260), consolidato dalla magnificenza del duomo ricostruito dalle fondamenta in suo onore, e ratificato nella carta del Costituto senese (1309-1310).
La particolare devozione mariana della «Città della Vergine» è stata riconfermata in ogni momento difficile della sua storia e, per introdurre il significato antico della Maestà di Duccio, è opportuno ricordare la consacrazione rinnovata nel 1483 quando, persino con un atto legale registrato da un notaio, veniva confermato che nessuno «di qualsivoglia rango, dignità, o eminenza, ecclesiastica o temporale, debba acquisire o ritenga di aver acquisito una qualsiasi prerogativa a causa di detta cerimonia, tranne la sola Vergine », che diventava pertanto vera domina, custos, defensio, et praesidium nostrum, mentre i magistrati della città, da allora in avanti, avrebbero dovuto considerarsi suoi immediati vassalli e rappresentanti, derivandone direttamente la propria autorità.
Il trasporto nella casa di Dio, rappresentazione terrena del mondo celeste, reso visibile architettonicamente come cosmo raffigurato oltre il tempo, era da intendersi più che una processione devota, come una vera e propria «intronizzazione» e incoronazione della Vergine Maria che prendeva così pieno possesso della sua dimora assieme al Cristo che presentava amorosamente tra le braccia.
La recente solenne celebrazione non è stata intesa solo come un avvenimento devoto, ma come un vero e proprio evento culturale che ha inteso riproporre l’attenzione a quello che, assieme al duomo e al complesso di Piazza del Campo, è da considerarsi il tesoro più prezioso, uno dei capolavori artistici più significativi non solo della gloriosa storia civile e religiosa della repubblica senese, ma anche dell’arte universale. Duccio di Buoninsegna, con questo suo capolavoro, assieme a Cimabue, Giotto e Cavallini, ha segnato infatti gli inizi dell’arte italiana che si distinse allora nelle scuole pittoriche di Firenze, Siena e Roma.
Ponendoci dinanzi alla Maestà e chiudendo gli occhi per un attimo, si può immaginare di vederla come si presentava sette secoli fa in un tempio gotico allora pieno di luce, concepita proprio per dare la sensazione di oltrepassare la soglia di un altro mondo, per entrare in comunione e per sentirsi dentro una dimensione invisibile che la fede comune riteneva reale. La pala d’altare, con la sua struttura lignea, ricoperta a foglia d’oro su cui rifrangeva la luce, appariva come una finestra su un altro mondo, «lì dove il Dio del cielo abita e si muove»; grazie alla nuova espressione viva data alle varie rappresentazioni si può percepire un’emozione religiosa che coinvolge irresistibilmente, rendendoci capaci di vibrare all’unisono con il suo autore, capace di far passare in essa il suo pensiero e il suo stato d’animo. È un’immagine che incanta e nello stesso tempo conduce alla riflessione. Al carattere sacro e solenne della Regina del mondo corrisponde la contemplazione calma e tenera degli angeli e dei santi, identica in tutti a dispetto delle differenze delle loro nature e temperamenti, con una nota di uniformità nei loro i volti, a significare la beatitudine che oramai li unisce senza distinzioni, facendo percepire a chi li guarda un particolare sentimento religioso.
Merita particolare considerazione l’aspetto di Biblia pauperum che la Maestà di Duccio presenta in modo del tutto straordinario, con una segreta ricchezza che si rivela come una miniera inesauribile, in una perfezione difficilmente raggiungibile. E ciò può essere compreso nell’autocoscienza degli artisti senesi che allora si definivano «manifestatori agli uomini grossi che non sanno lectera, de le cose miracolose operate per virtù et in virtù della santa fede». L’iconografia è talmente suggestiva ed elaborata con particolari significati e collegamenti simbolici che è davvero probabile l’ipotesi di una diretta collaborazione di Ruggero da Casole, vescovo di Siena dal 1307 al 1317. Era stato frate nel convento domenicano di Siena dove aveva insegnato filosofia e teologia ed è lui che poi aveva indetto quella magna et divota solenne processione attorno al «champo» per andare a intronizzare in duomo questa mirabile opera.
Le varie scene evangeliche hanno il sapore di una «Scrittura viva» che, oltre all’ammirazione, è capace di introdurrre a una riflessione contemplativa che sollecita a capire e anche a pregare. Un esempio affascinante è quello dello spazio riservato alle tre Tentazioni di Gesù. Ne sono rimaste solo due, ma sembra più che certo che la prima sia andata dispersa, assieme al Battesimo di Giovanni. Questa presunta certezza si può ricavare anche dalla corrispondenza con le raffigurazioni dei tre rinnegamenti dell’apostolo Pietro per il quale non manca anche il suo tentativo di difesa di Gesù nell’Orto degli Olivi; e pure Giuda Iscariota compare tre volte in relazione al suo tradimento. Nella contemplazione dell’amore del Cristo, sembra che Duccio abbia sentito il bisogno di mettere in evidenza tutta la fragilità umana di cui lui stesso faceva esperienza nella sua vita incongruente e agitata. Quanto appena accennato fa intuire come l’arte sacra possa davvero essere di straordinario aiuto non solo alla catechesi ma anche per una intuizione della fede.
La Maestà è a buon diritto immagine rappresentativa di ciò che fu il XIV secolo per Siena, l’epoca d’oro della città, che presenta una Chiesa composta di peccatori ma ricca di straordinari testimoni di fede, tra i quali si distinguono san Bernardo Tolomei (1272- 1348) fondatore della congregazione benedettina olivetana, il beato Giovanni Colombini (1304-1361) fondatore dell’ordine dei gesuati, santa Caterina (1347-1380) e san Bernardino (1380-1444), tutti accomunati da una profonda devozione mariana. Forse non è un caso che si tratti dell’identica stagione dello splendore dell’arte senese che fa capo a Duccio (morto nel 1318-1319), a Simone Martini (1344) e a Pietro e Ambrogio Lorenzetti (1348).
Il fatto che un’immagine sia stata oggetto di venerazione per secoli e che a questa si siano rivolti con sentimenti di disperazione, di tristezza, di speranza e di abbandono, tante generazioni di credenti, la rende sacra ben al di là dei suoi aspetti artistici e dei suoi significati iconologici; quando ci poniamo davanti per ammirarla non possiamo fare a meno di considerare che questa nostra stessa esperienza è stata per tanti persino uno strumento di conversione.
In occasione dell’anniversario, l’Opera della Metropolitana di Siena ha voluto promuovere la pubblicazione di un testo divulgativo dei significati teologici e simbolici dell’opera, affidandolo alla cura di Mariella Carlotti (Il cuore di Siena, Firenze, Società Editrice Fiorentina, 2011, pagine 116, euro 16). E concludiamo questa riflessione proprio con alcune parole usate dalla studiosa: la Vergine Maria è «il primo tempio di Dio, immagine perfetta di ciò che è la Chiesa: una realtà umana che “contiene” Cristo e lo partorisce nel tempo; — è infatti lei il cuore della cattedrale e l’immagine perfetta della misteriosa realtà della Chiesa. Il coro di angeli e santi intorno alla Vergine era completato dal popolo cristiano che gremiva il duomo e i patroni della città inginocchiati davanti a Maria erano il punto che legava la Chiesa che viveva a Siena la sua avventura terrena a quella che trionfava in paradiso, come un unico avvenimento nel tempo e nell’eternità».
© L'Osservatore Romano 9 luglio 2011